24 Febbraio 1525
Francesco I di Francia è sconfitto e fatto prigioniero dagli imperiali di Carlo V. L'archibugio segna la fine della cavalleria pesante.
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Il re di Spagna dal 1516, era nato dal matrimonio di Giovanna la Pazza, figlia del re d'Aragona Ferdinando il Cattolico, e Isabella di Castiglia, con Filippo il Bello, figlio di Massimiliano imperatore D'Asburgo. Alla morte di Massimiliano(1519), il nipote Carlo, si candidò come erede alla corona di Germania e a quella del Sacro romano impero.
Anche il suo rivale sul campo di Pavia, il re di Francia Francesco I, si era fatto avanti. Ma la lontananza di Carlo e la speranza di ulteriori autonomia avevano spinto i "grandi elettori" tedeschi ad optare per quest'ultimo, che fu così incoronato il 23 ottobre del 1520.
Carlo V si trovava così a regnare su Germania, Italia, territori degli Asburgo in Austria, Paesi Bassi, Fiandre, Boemia, circondando geograficamente l'avversario Francese.
Questo vero e proprio impero spagnolo, che annoverava anche tutti i possedimenti coloniali del nuovo mondo, rimaneva un punto di stabilità per tutti i ceti sociali. Grande fiducia in questa "fonte di stabilità" arrivava in un periodo in cui, notizie dal nuovo mondo stesso, minaccia turca e divisioni religiose rendevano priva di riferimenti la realtà europea.
Tale stabilità era definita, con stampo medievale, dalla collaborazione tra il potere temporale dell'imperatore e quello spirituale del Papa. Ma l'illusione del mito imperiale ebbe vita breve.
Nel 1555 con la pace di Augusta sancita tra l'imperatore Carlo e i principi tedeschi divideva la Germania tra luterani e cattolici, obbligando i sudditi a seguire la confessione del proprio sovrano.
Con l'abdicazione l'anno successivo di Carlo V stesso e la divisione dell'impero tra i figli Ferdinando I, che ereditò la corona imperiale e il fratello Filippo II, che mantenne il predominio su Spagna,Paesi Bassi, Italia e colonie, si chiudeva definitivamente la fase del sognato impero universale.
Carlo V morì a Yuste nel 1558.
La vita del sovrano francese trova molti punti in comune con il suo rivale Carlo V. Simile mentalità strategico-militare, stesso interesse nel Sacro Romano Impero, stessa ambizione per l'egemonia europea.
Francesco di Valois sposò Claudia, figlia di Luigi XII, e alla sua morte divenne così re di Francia con il nome di Francesco I. Grazie alla vittoria nella battaglia di Marignano (1515) contro le famose fanterie picchiere svizzere, riconquistò il milanese, punto di partenza per una espansione europea ad ampio raggio.
Vista la sconfitta politica nella corsa al trono del Sacro Romano Impero, Francesco I vide come unica via per salvare l'onore, quella della guerra contro il suo diretto avversario Carlo V, consigliato dai suoi cavalieri La Palisse e Baiardo. La sera della sconfitta di Pavia dopo aver scritto alla madre che solo l'onore (oltre alla vita) gli era rimasto, in maniera piuttosto curiosa per un uomo dedito a seguire il codice della cavalleria cristiana, inviò una richiesta d'aiuto al Sultano Turco Solimano.
Portato come prigioniero a Madrid, fu costretto a firmare un accordo di pace assai "pesante", che fu rinnegato non appena libero, aderendo alla lega Santa del Papa e dei Principi Italiani.
Grazie ad elementi diplomatici di prim'ordine riuscì a farsi portavoce ed a sfruttare qualsiasi malcontento presente nei principi italiani e tedeschi sotto l'influenza di Carlo V. Per questo, favorì i protestanti in Germania e strinse un alleanza con i Turchi (1528 e 1535), scelte assai poco edificanti per un re cattolico. Ma di Francesco I ricordiamo anche la durezza con la quale riuscì a limitare i grandi feudatari nel suo regno, come fu protettore di personaggi come Leonardo, Cellini ed Erasmo, e le sue innumerevoli avventure amorose.
Machiavelli nell'Arte della guerra lo descrive come sovrano assoluto di uno di quegli stati nazionali che «abbiano favorita la virtù o per necessità o per altra umana passione ».
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Con la pace di Lodi (1454), si era consolidata nella politica italiana una situazione d'equilibrio tra le maggiori potenze della penisola: il Ducato di Milano, le repubbliche di Venezia e Firenze, lo stato della Chiesa e il regno di Napoli.
La pace stipulata nella città lombarda, forniva una promessa di pace e sviluppo della vita dei cittadini italiani, aprendo la strada al periodo di fioritura delle belle arti: il Rinascimento.
Ma se dal punto di vista socio-culturale il miglioramento era sensibile, dal punto di vista militare ognuno dei grandi stati italiani non era paragonabile a potenze come Francia e Spagna, che ormai si avviavano a diventare regni unitari.
La pace sancita quindi, se stabilizzava l'ordine interno tra gli stati italiani, rendeva la nostra penisola più "appetibile" alle mire dei grandi stati europei, tenendo così sotto l'egida delle potenze straniere la libertà italiana fino alla unificazione.
Già Carlo VIII di Francia, attraversò, praticamente indisturbato, tutta la penisola con le sue truppe, arrivando fino a Napoli. Dopo di lui, fu solo grazie alla Lega Santa organizzata da Papa Giulio II, che Luigi XII venne sconfitto e scacciato anche dalla Lombardia, dove aveva abbattuto la dinastia Sforza. Infine, Francesco I di Valois, riconquistava la Lombardia stessa nel 1515, portando l'Italia in una particolare situazione di spartizione tra spagnoli (al meridione e d'influenza su Firenze)e francesi (in Lombardia e a Genova).
In conclusione va notato che, in questo periodo, l'epicentro dei conflitti tra le due potenze rivali è il Ducato di Milano, vero e proprio snodo strategico che permetteva i collegamenti tra la penisola italiana e il resto d'Europa, in particolare il transito verso i possedimenti imperiali di Carlo V.
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Come già accennato in un paragrafo precedente, la corona del Sacro Romano Impero, ambita sia da Francesco I che da Carlo V, fu assegnata a quest'ultimo perché i principi elettori tedeschi vedevano la figura dell'aspirante spagnolo come meno minacciosa per le loro aspirazioni di autonomia.
Bisogna però sottolineare come certi generi di scelte non erano sempre dettate dal solo fine politico.
In effetti, secondo tradizione, la corona veniva assegnata tramite il voto degli Arcivescovi di Treviri, Magonza e Colonia, dal re di Boemia, dal duca di Sassonia, dal conte palatino del Reno e dal Margravio di Brandeburgo.
A loro, Francesco I di Valois, fece un offerta di 300.000 scudi mentre sembra che la contro-offerta di Carlo V ammontasse a 850.000 fiorini, fornitigli da banchieri Fiorentini e Genovesi. Questa scelta, per quanto esosa possa apparire, si dimostrò notevolmente efficace.
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Nel periodo che va dal XIII al XVI secolo, si verificò un profondo mutamento nella composizione delle truppe europee.
Se durante il periodo medievale gli eserciti erano composti quasi esclusivamente da cavalleria pesante, nella battaglia di Pavia le armate francesi e spagnole risultavano distribuite in maniera più omogenea tra fanteria, cavalleria e artiglieria (se di effettiva artiglieria si può parlare).
Tutte e tre le componenti delle truppe di ambo le parti avevano subito delle mutazioni. Se la cavalleria si era evoluta in tattiche più sofisticate, le fanterie di picchieri svizzeri dovevano ora fare i conti con la nuova minaccia rappresentata dalle artiglierie, e non assumere schieramenti e movimenti statici come d'uso contro la cavalleria pesante.
In conclusione, sul campo di Pavia, anche le opere di fortificazione (opera quasi esclusiva di ingegneri italiani), rivestirono un ruolo di primaria importanza, non solo nell'ottica della singola battaglia sul suolo lombardo, ma per l'evoluzione dell'intera arte bellica rinascimentale.
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Strutture militari composte da categorie sociali meno agiate erano comparse soprattutto nelle battaglie cantonali svizzere, come Laupen (1339) e Sempach (1386). Riuscirono perfino ad infliggere una pesante sconfitta alle cavallerie nobili di Borgogna nella battaglia di Nancy (1477).
Così venne uniformandosi la formazione tipica dell'esercito svizzero, composta da tre quadrati di picchieri, ciascuno composto da 85 colonne per 70 righe, inquadrate in 100 metri di lato.
Lo schema tattico era semplice. Un primo quadrato impegnava frontalmente il nemico, fino a che il secondo accorreva in soccorso da uno dei due lati liberi, ed infine il terzo sferrava l'attacco decisivo.
L'equipaggiamento militare dei quadrati in questione comprendeva le picche utili per infrangere le cariche della cavalleria, e le alabarde che univano la profondità della lancia ai colpi ferali di un ascia.
Ma in effetti, era la disciplina l'arma fondamentale delle picchiere svizzere, dove non si udivano altre voci se non quelle dei comandanti che ordinavano spostamenti, cambi di fronte e dove nessuno doveva turbare lo schieramento, fosse anche per soccorrere i compagni feriti, pena: la morte.
Di derivazione svizzera, si svilupparono anche altre formazioni di stampo "contadino", quali ad esempio i famosi lanzichenecchi (dal tedesco Land Knecht ossia "servi del paese"). Di origine germanica, a partire dal XV secolo operarono in più campi di Battaglia europei e parteciparono perfino al sacco di Roma nel 1527.
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La mutazione nelle tattiche e strategie militari della cavalleria aveva subito importanti mutamenti, sopratutto in considerazione dei danni che potevano, ed avevano causato, le milizie comunali italiane dotate di balestrieri, o i longbowman inglesi (vedi Azincourt).
Pertanto si sviluppò nel XIV secolo, particolarmente in Francia, la formazione della "Lancia". Questa era costituita da 6 persone a cavallo: l'uomo d'arme vero e proprio con armatura pesante e lancia da urto, uno scudiero, due arcieri, un valletto per il bagaglio (che in caso di necessità entrava in battaglia armato di mazza) ed infine un paggio.
La lancia Borgognona si distingueva da quella precedentemente descritta in quanto, oltre ai 6 componenti appena citati, aggiungeva un archibugiere, un balestriere, ed un picchiere appiedati.
Si può notare quindi che l'evoluzione degli eserciti appena descritti era rivolta verso una "migrazione" alla cavalleria leggera ed ai tiratori, in luogo della sola cavalleria pesante. Ma anche questa riforma, mirante ad una maggiore mobilità sul campo, fu messa in crisi, e sconfitta ripetutamente dalle disciplinate formazioni dei picchieri.
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Per tentare di scardinare le compatte ed impenetrabili fanterie di picchieri svizzeri, si doveva ricorrere alle armi da fuoco, da poco introdotte nell'arte militare.
Se per l'introduzione di palle di metallo per le bombarde e per i cannoni si fa riferimento agli anni tra il 1470 e il 1500, per il perfezionamento delle armi da fuoco individuali bisogna attendere almeno fino al primo ventennio del XVI secolo. Il vero e proprio exploit di armi da fuoco si ebbe durante le guerre d'Italia visto che fino ad allora, gli archibugi venivano utilizzati alla stregua delle altre armi da lancio, e che risultavano ancora troppo pesanti e troppo lenti da ricaricare.
Tra i secoli XIV e XV incominciarono ad essere utilizzati anche le cosiddette bombarde, enormi pezzi d'artiglieria pesante che scagliavano sul nemico palle di pietra alla cadenza di un ogni ora.
Anche se verso la fine del XV secolo si iniziò a montare le bombarde su affusti e ruote, il loro utilizzo rimaneva ancora poco efficace ai fini dello scontro campale: troppo lenti da ricaricare e con poca mobilità venivano spesso resi inoffensivi o catturati dal nemico.
Sta di fatto che il sempre più vasto utilizzo delle armi da fuoco individuali, gli archibugi, rese inoffensive ed antiquate le fanterie di picchieri. Anche nello schieramento di Carlo V a Pavia il numero di picchieri venne ridotto per affiancare ai famosi quadrati unità di tiratori.
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L'uso delle fortificazioni nelle città appartiene al periodo rinascimentale, ed in particolare opera del genio italiano, nello specifico della famiglia dei Sangallo.
Se in epoca medievale le fortificazioni erano costituite da alte e strette serie di mura e torri, in epoca rinascimentale si preferivano difese radenti, torrioni bassi larghi, con cortine rinforzate, terrapieni a stella, circondati a loro volta da rivellini; tutte strutture più adatte a sostenere i colpi dell'artiglieria campale.
La stessa forma e l'utilizzo di fossati e terrapieni era volta ad allontanare il più possibile la distanza tra i pezzi d'artiglieria e le mura cittadine.
Tutte le innovazioni belliche di stampo tardo medievale e primo rinascimentale, trovarono la loro utilizzazione nelle guerre d'Italia, in cui, il genio italiano era asservito ai re ed agli eserciti stranieri, un costume che verrà cambiato solo con l'unità d'Italia.
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Già prima della battaglia di Pavia, Francia ed Impero si erano scontrate per il controllo della Lombardia, snodo di vitale importanza per i collegamenti tra i territori imperiali e la penisola italiana.
Nel 1521, le truppe imperiali composte da spagnoli e pontifici al seguito del romano Prospero Colonna, arrivavano in Lombardia attraverso la via Emilia, mentre il condottiero francese Lautrec più prudente, attese che gli imperiali prendano il controllo di Milano, difesa da Teodoro Trivulzio con 3.000 veneziani, il 21 novembre.
Con la morte del papa Leone X, alleato degli imperiali, cambia la composizione degli schieramenti. Se le linee francesi vengono rinforzate dai 23.000 svizzeri, 200 lance e 2.000 fanti del capitano di ventura Giovanni dé Medici, gli imperiali contano sul rinforzo di alcune migliaia di lanzichenecchi ma anche sull'allontanamento di una parte delle truppe pontificie. Le cifre danno quindi i franco-elvetici a 32.000 uomini contro i 19.000 imperiali.
Per il comandante romano quindi, si rese necessaria la preparazione delle difese in vista dell'imminente attacco di Lautrec. Il Colonna schierò 4.000 archibugieri in protezione delle artiglierie pesanti in un'area circondata da due fossati, e dietro alle linee dei tiratori dispose le picche e gli altri uomini d'arme. Lo schieramento franco-elvetico presentava le sue caratteristiche peculiari: 2 quadrati di picchieri da 7.500 uomini sostenuti dall'impeto di 500 cavalieri.
Lo scontro che seguì, fu il primo esempio dell'efficacia delle armi da fuoco individuali. Se l'artiglieria non riuscì a bloccare l'avanzata delle truppe di Lautrec, vi riuscirono le quattro linee da 1.000 archibugieri schierate da Prospero Colonna, che eseguirono per la prima volta nella storia delle armi da fuoco il tiro "a rotazione": ossia una fila per volta a sparare mentre la altre ricaricano, garantendo una continua barriera di piombo sulle linee nemiche. Ma i conflitti per il controllo della Lombardia non finirono qui.
Nel 1523, un nuovo attacco delle truppe Francesi guidate dal generale Bonnivet, causò la morte del Baiardo, uno dei grandi cavalieri di Francia, detto "il cavaliere senza macchia e senza paura" mentre, nel frattempo, i francesi erano stati sconfitti anche a Marsiglia, dalle truppe del Marchese di Pescara (Francesco Ferdinando d'Avalos), al servizio del re Carlo V. Gli imperiali dovettero abbandonare celermente il sud della Francia, per tornare rapidamente in Lombardia, dove lo stesso Francesco I aveva ricostituito un nuovo esercito, e dove le guarnigioni imperiali avevano dovuto abbandonare la città di Milano, causa della peste che si diffuse in città.
Fu così che 5.000 fanti tedeschi e 1.000 spagnoli si rinchiusero nella roccaforte di Pavia, il cui assedio da parte francese cominciò nell'ottobre del 1524.
Il marchese di Pescara, attese a Lodi fino a Gennaio del 1525, quando ottenne i rinforzi alle sue truppe: i lanzichenecchi guidati da Giorgio Frundsberg.
Con le linee al completo, il d'Avalos iniziò la sua marcia verso Pavia, dove il re francese ignorando i precedenti avvertimenti dei suoi generali, La Palisse e La Tremouille, si trovò impegnato tra due fuochi: quello della guarnigione interna alla città, guidata dal capitano de Leyva, e le accorrenti truppe imperiali del marchese di Pescara.
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In considerazione degli scontri frequenti che avevano luogo nella penisola italiana, il nostro paese divenne il luogo dove meglio potè evolversi la ratio pugnandi dei condottieri.
Condottieri nostrani come Colonna e lo stesso marchese di Pescara, fecero scuola, in considerazione della nuova tattica di guerra che preferiva una guerra di logramento ad uno scontro frontale. Lo stesso marchese di Pescara ripeteva: «meglio cent'anni di guerra che una sola battaglia ».
Ma vi fu chi introdusse novità nell'evoluzione dello scontro stesso. Giovanni "dalle Bande Nere" ad esempio prediligeva una sorta di guerriglia nelle retrovie nemiche più che l'impatto frontale con il nemico, e fu il primo in Europa ad introdurre gli archibugieri a cavallo.
Osannato dai suoi uomini cominciò a guidare 100 lance nel 1516 ad Urbino, era descritto dal Tasso come «scudo, spada e scampa d'Italia », aveva combattuto spesso per il Papa e spesso contro gli imperiali ma non prese parte allo scontro di Pavia perché ferito.
Morì nel 1526 a soli 28 anni per una ferita causata da un falconetto, un arma da fuoco. La sua vita e le sue vicende sono anche state descritte nel film "Il mestiere delle armi" di Ermanno Olmi.
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Il marchese di Pescara, giunto in soccorso degli occupanti imperiali della città di Pavia, poteva contare su 17 cannoni; 20.000 fanti di cui 12.000 lanzichenecchi, 5.000 spagnoli e 3.000 italiani, ed infine su 800 uomini d'arme e 1.500 cavalli leggeri, per un totale di circa 23.000 uomini.
La forza disposta in campo da Francesco I era composta da 53 cannoni, 23.000 fanti di cui 8.000 svizzeri, 5.000 mercenari tedeschi, 4.000 italiani e 6.000 francesi. In aggiunta a questi, poteva contare sulle migliori 1.200 lance d'Europa e su 2.000 cavalli leggeri, per un totale di 26.200 uomini circa.
Inoltre, a favore della parte francese, ma a loro insaputa, presto alcune parti dell'esercito imperiale avrebbero concluso il loro servizio per il re Carlo V, visto che il loro contratto sarebbe scaduto il 24 di febbraio. Un vantaggio temporale di cui i francesi non poterono fare tesoro.
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I due eserciti vennero a confronto il 24 febbraio 1525, proprio nel giorno in cui i mercenari del Marchese di Pescara erano ufficialmente svincolati dal punto di vista contrattuale. Ma lo schieramento imperiale cominciò a muoversi già dalla notte del 23.
D'Avalos infatti, aveva ordinato a tutte le sue truppe, esclusi 5.000 uomini rimasti a difesa dell'accampamento, di entrare nel parco di Mirabello attraverso delle brecce nel muro di cinta, e cominciare a disporsi per la battaglia. Una mossa assai rischiosa, in previsione di un eventuale ritirata, perché la serie di mura di cinta della tenuta impediva qualsiasi via di fuga.
Francesco I, pensando che si trattasse di una mossa diversiva, attese a lungo prima di lasciare i 6.000 italiani delle "bande nere" a sorvegliare là città, e cominciare a disporre le proprie truppe alla spicciolata nel parco.
Alle prime luci dell'alba, gli imperiali erano già pronti e lo schieramento era formato nella seguente maniera: sulla parte destra 3 blocchi o battaglie di cavalleria imperiale; al centro gli archibugieri spagnoli al comando del marchese di Pescara; e sulla sinistra 2 quadrati di lanzichenecchi. Solo l'artiglieria rimase indietro e fu l'ultima ad entrare nel parco.
I Francesi invece schierarono la loro splendida cavalleria pesante davanti a quella imperiale, in virtù di una concezione puramente cavalleresca del re Francesco I. Il "re cavaliere", personalmente al comando del reparto in oggetto, cercava lo scontro con i suoi simili per sangue e tradizione.
I lanzichenecchi di parte francese si schierarono subito di fronte agli archibugieri, lasciando indietro la maggior parte dei picchieri svizzeri ancora in ritardo nello schieramento. L'unica parte dello schieramento francese che fu schierato con anticipo sufficiente fu l'artiglieria, che incominciò a bersagliare gli avversari più vicini: i lanzichenecchi imperiali.
Nel frattempo, la cavalleria leggera francese attacca l'artiglieria imperiale, non ancora disposta, disperdendo gli artiglieri nemici e catturando alcuni pezzi.
L'artiglieria francese stava decidendo praticamente da sola le sorti della battaglia, e dopo aver neutralizzato quella nemica, Francesco I decise che non era il caso di lasciare tutto il merito della vittoria ai "vili" cannoni, lanciandosi quindi in una impetuosa carica contro le cavallerie imperiali.
Il re francese, individuato come uno dei più grandi cavalieri del tempo, sbaragliò i cavalieri avversari, divertendosi come ad un torneo. Ma a questo punto entrò in scena l'astuzia del marchese di Pescara.
D'Avalos spostò circa 1.550 dei suoi archibugieri nel boschetto subito di fianco alla posizione in cui si trovavano le "lance" francesi. Dopo le prime tre scariche di archibugi, la maggior parte della cavalleria più potente d'Europa cadeva sotto il preciso tiro dei 1.500 "villani" spagnoli.
A questo punto la cavalleria spagnola, rafforzata dalla fanteria, si lanciò contro quanto rimaneva della formazione francese. Nell'estremo tentativo di difendere il proprio re, molti cavalieri si riunirono in un quadrato difensivo. Ma nonostante l'ardore profuso, in molti ormai appiedati e senza più il vantaggio della carica e appesantiti dal peso delle proprie armi cadevano colpiti dagli avversari.
I fanti spagnoli avevano la possibilità di colpirli con pugnalate nelle fessure dell'armatura, persino gli archibugieri infilavano le loro armi sotto le difese del nemico e poi facevano fuoco.
Nonostante fosse stato anch'egli appiedato, Francesco I, continuò a combattere furiosamente, ma il suo destino sembrava segnato se non fosse stato per l'intervento del vicerè di Napoli che lo risparmiò dalla crudeltà degli archibugieri che lo avevano appena catturato.
Ma la battaglia continuava la sua storia, questa volta con protagoniste le fanterie. I lanzichenecchi al servizio francese si scontrarono contro quelli imperiali in un impatto frontale di notevole suggestione. Nonostante le truppe al servizio di Francesco I fossero riconosciute come ottime per qualità, i tedeschi di Frundsberg ebbero la meglio per determinazione e cattiveria, spinti anche dallo spettro della disoccupazione che sarebbe seguita al 24 febbraio, data di scadenza del loro contratto.
Dopo aver superato il primo blocco nemico e messo in fuga gli artiglieri francesi, i tedeschi al servizio degli imperiali dovevano affrontare il temibilissimo quadrato dei picchieri svizzeri, appena schierati sul campo e quindi freschi fisicamente. Fortunatamente per i lanzichenecchi, le truppe assediate di Pavia riuscirono a sbaragliare gli italiani che componevano le "bande nere" alle mura della città, dirigendosi all'attacco dello stesso blocco elvetico preso così tra due fuochi.
Per i picchieri e per le residue speranze di vittoria francese era la fine.
All'inizio della mattinata del 24 febbraio 1525 la battaglia era conclusa. I francesi lasciarono sul campo 6.000 uomini, ma soprattutto Francesco I, che fu catturato e deportato in Spagna come prigioniero, ebbe la conferma che l'epoca delle cavallerie pesanti come dominatrici dei campi di battaglia era definitivamente conclusa.
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La pace tra Carlo V e Francesco I, fu sancita con l'accordo di Barcellona e la pace di Cambrai, nella quale Carlo V fu cinto della corona del Sacro Romano impero e del regno Italico. In effetti, l'Italia ormai era sua, ad eccezione di Venezia, le truppe spagnole potevano transitare liberamente dalle Fiandre all'Italia meridionale.
Ricordiamo che la vittoria di Pavia non fu decisiva per il conflitto con Francesco I, i due regnanti si troveranno di nuovo di fronte dopo il 1527.
In effetti un eventuale vittoria del re francese, non sarebbe stata risolutiva nemmeno per la sua causa, ma probabilmente, sia Venezia che gli Ottomani avrebbero ricavato dal perpetrarsi della guerra vantaggi piuttosto sensibili.
Si stava comunque avverando il sogno imperiale che animava lo spirito di Carlo V, una missione storica alla quale l'imperatore aveva già accennato, seppur con tematiche particolari, durante la Dieta di Worms quando disse: «sono risoluto ad arrischiare i miei regni e possessi, i miei amici, il mio corpo e il mio sangue, la mia vita e la mia anima, giacchè sarebbe una vergogna se per nostra negligenza anche solo un'apparenza di eresia penetrasse nel cuore degli uomini».
Come sappiamo però il sogno di impero universale sarebbe ben presto svanito.
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Il 6 maggio del 1527, 8.000 lanzichenecchi affamati, erano calati dalla Germania luterana, fino a Roma, sotto il comando del Frundsberg, unendo nelle loro linee anche molti soldati spagnoli rimasti senza paga da mesi.
Lo stesso comandante, ormai alla mercé delle sue stesse truppe, troverà durante l'assalto a Castel Sant'Angelo (storico rifugio per il papa e la sua "corte") la morte per un colpo si scoppietto sparatogli da Benvenuto Cellini.
Ma i mercenari tedeschi misero a ferro e fuoco l'intera città, uccidendo, rubando e dando alle fiamme quanto possibile; tanto che un veneziano in transito nella capitale durante quei tristi giorni scrisse: «l'inferno è nulla a paragone dello spettacolo che la città offre in questo momento».
Pubblicato il 09/12/2004
Bibliografia:
Livio Agostini, Piero Pastoretto, Le grandi Battaglie della Storia, Viviani Editore, Il Giornale, 1999