9 aprile 1241
Nota anche come Battaglia di Legnica o Battaglia di Wahlstatt, fu uno scontro con l'obiettivo di bloccare l’inesorabile avanzata dell’Orda Mongola. Malgrado la vittoria dei tartari, questo fu il luogo più avanzato nel continente europeo che riuscirono a raggiungere, poi, la destabilizzazione politica dell’impero mongolo portò alla ritirata dell’orda.
LIEGNITZ
Era figlio di Enrico I il Barbuto e di Edvige di Andechs, nel 1216 sposò Anna, figlia di Ottone I di Bohèmia. Divenne Duca di Cracovia, Slesia e Polonia nel 1238.
Nel 1222, supportò suo padre nel tentativo di unificare la Polonia combattendo contro uno dei suoi storici nemici come Corrado I di Masovia. Nell'ivnerno del 1233 fino al 1234, partecipò ad una crociata contro i prussiani nella speranza che suo padre possa concedergli subito il controllo della Grande Polonia, ma nel giugno del 1235, terminata la suddetta campagna, in una bolla, il Papa Gregorio IX prese Enrico II il Pio sotto la sua protezione nominandolo ufficialmente successore di suo padre.
Dopo la morte del padre il 19 marzo 1238, secondo le indicazioni papali, diviene, come da lui sperato, Duca di Cracovia, Slesia e della Grande Polonia, ereditando così un territorio molto vasto del quale si preoccupò subito di mantenerne l'unificazione solida sotto il proprio comando. Per far questo tentò con tutti i mezzi di avere sempre dalla sua parte le aristocrazie fondiarie, senza le quali la politica unificatrice iniziata da suo padre non poteva aver luogo.
Nei confronti delle potenze confinanti, inizia una politica espansionistica che, già nel 1239, porta i propri frutti con la riconquista di Lubusz e Santok perse l'anno precedente a favore dei Brandeburgo. Nello stesso anno non fece mancare il proprio supporto al Papa impegnato nel conflitto contro Federico II, senza però dimenticarsi di ampliare ulteriormente i propri possedimenti.
Ma qui si fermarono i sogni di gloria di Enrico II.
Alla fine del 1239 perse nuovamente Santok dopo esser stato sconfitto anche a Lubusz, e nel 1241 venne ucciso nella battaglia di Liegnitz dagli invasori mongoli. Con la sua morte iniziarono una serie di rivolte locali e il suo sogno di unificazione della Polonia subì una brusca frenata.
Nonostante il brevissimo regno, tutt'oggi nell'iconografia polacca Enrico II il Pio è riconosciuto come esempio del cavaliere cristiano senza macchia, le cui brillanti gesta furono interrotte solo da una prematura morte.
Orda Ichen Khan fu un Khan dell'Impero Mongolo grande generale, condottiero e stratega militare; fu fondatore dell'Orda Bianca.
Orda era figlio primogenito di Djuci Khan che a sua volta era il primogenito di Gengis Khan. Aveva prestato servizio militare come generale sotto i suoi grandi ascendenti e dopo la morte del padre prima e del nonno poi ereditò vasti territori ed armate ad est del Volga; partendo dal lago Balkash le sue forze costituirono il nascente Khanato dell'Orda Bianca contemporaneamente al fratello minore Batu Khan che ereditando i territori ad ovest del Volga costituiva il Khanato dell'Orda Blu in occasione delle scorrerie in europa.
Nell'invasione che venne pianificata dal Gran Khan Ögödei nel 1235, Orda Khan conduceva quella che sarebbe divenuta l'Orda Bianca e sotto di lui servivano Baidar Khan e Kaidu? Khan. Le sue scorrerie partirono nel 1241 a Cracovia e in Lituania razziando dalle città sul Baltico alla Boemia. Dopo la vittoria a Liegnitz le conquiste si facevano sempre più ardue ed ad un costo umano sempre più alto, specialmente alle porte dell'Ungheria ed in Moravia per l'opposizione di Bela IV. Successivamente si diresse a sud in Croazia dando la caccia al re Bela che si era rifugiato in una rocca segreta in Dalmazia. Dopo aver saccheggiato alcune città della Croazia, giunto sulle coste dell'odierna Albania decise di ritirarsi per la morte di Ögödei e l'imminente Kuriltai che di lì a pochi anni sarebbe stato indetto per la successione di Batu al Gran Khanato.
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Quando Gengis Khan morì, nel 1227, l'impero mongolo si estendeva dal Mar Caspio, a occidente, al Mar del Giappone, a oriente, mentre Kabul era il punto più meridionale e la Siberia quello più a nord. Solo vent'anni prima, quando lo avevano eletto khan dei khan, i nomadi delle steppe avevano coniato appositamente per lui il nome di Gengis, che significava "oceano", per indicare la vastità del suo dominio: tutte le stirpi tra il lago Baikal e il deserto del Gobi erano sotto la sua autorità, ed era la prima volta che le popolazioni nomadi della Mongolia si ritrovavano unite, per giunta sotto una nazione dominante, quella dei mongoli, che fino ad allora aveva rappresentato una delle componenti meno rilevanti tra quante si disputavano l'Asia nordorientale.
Ed era solo l'inizio. Nei due decenni seguenti, Gengis Khan avrebbe inglobato in rapida successione i khirghisi, gli uiguri, i tangut tibetani, e poi il Regno d'Oro dei Chin nella Cina settentrionale, la Corasmia persiana, i regni musulmani dell'altopiano iranico. Durante il suo regno, i suoi generali Subutai e Gebe si spinsero anche oltre le frontiere dei paesi inglobati a occidente: nell'Iran nordoccidentale arrivarono fino ad Hamadan, l'antica capitale achemenide Ecbatana, costringendo al tributo il califfo di Baghdad; in Russia meridionale, colsero una clamorosa vittoria sui turchi cumani e sui principi russi nel 1223, a Kalka, e l'anno seguente sul Dnepr.
Una volta tanto nella storia, non vi fu alcuna flessione nell'espansionismo mongolo dopo la morte del suo artefice. Gengis Khan aveva avuto tutto il tempo di regolare la successione e, nonostante i molti figli e nipoti, non vi furono guerre civili a sottrarre forze e risorse alle nuove conquiste. A ereditare il potere supremo fu il terzogenito del khan, Ögödei, mentre agli altri spettò un ulus, una porzione ciascuno dell'impero, che diveniva quindi una grande confederazione di stati collegati e soggetti all'autorità del gran khan: Tolui prese la Mongolia, Ciagatai la Transoxiana e la Kashgaria, Batu, figlio del primogenito del sovrano Jochi, morto poco prima del padre, le terre più occidentali, ovvero l'ovest dell'attuale Kazakistan. Lungi dallo sfaldarsi, il dominio mongolo, almeno in questa prima fase, si consolidò trasformandosi, da mero aggregato di terre da razziare, a vero e proprio impero universale con un'amministrazione e una centralizzazione capillari che scongiurarono il formarsi di satrapie e separatismi favorendo la coesione: sia sotto l'aspetto civile che militare, infatti, i funzionari e i comandanti prestavano servizio in luoghi molto lontani dai loro paesi d'origine.
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Subito dopo la conquista definitiva del regno dei Chin, lasciata in sospeso da Gengis, nel 1235 vi fu il secondo Kuriltai più importante della storia mongola, dopo quello, celebre, del 1206, che aveva eletto Gengis Khan dei Khan. La nuova adunanza dei capi sancì l'inizio di una nuova, massiccia fase espansiva, con la pianificazione di offensive lungo quattro grandi direttrici: la Corea, la Cina meridionale dei Sung, il Medio Oriente mamelucco e l'Europa orientale, parcellizzata in vari potentati.
In Corea, i mongoli si insediarono entro il 1241, dopo cinque anni di guerra, mentre in Medio Oriente si impossessarono entro il 1239 della zona caucasica, sottraendo la Georgia e la Grande Armenia ai sempre più decadenti turchi selgiuchidi. Contro i Sung, invece, sarebbe stato necessario oltre un quarantennio di lotte per averne ragione. Dell'offensiva occidentale si fece carico Batu, cui fu affidato il più grande esercito mongolo mai assemblato, 140.000 uomini suddivisi in quattordici tumen, le divisioni mongole da 10.000 effettivi ciascuna; oltre la metà delle forze era costituita da turchi soggetti ai mongoli, comunque sotto il comando di ufficiali mongoli. Gli altri tre khan collaborarono alla spedizione inviando ciascuno un quinto delle proprie forze e i loro figli come comandanti dei corpi d'armata, mentre il comando operativo generale fu affidato al più esperto dei generali di Gengis Khan, Subutai, reduce dalla campagna di Kalka.
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Le operazioni ebbero inizio nel 1236, con la conquista del regno turco-musulmano della Grande Bulgaria e dei territori ucraini dei qipciaq e dei cumani, per scongiurare qualsiasi minaccia sul fianco esposto dell'armata, quello sinistro, e assicurare le vie di comunicazione con l'Oriente. Il corpo principale, guidato dallo stesso Batu con Subutai, si spinse invece verso l'obiettivo della campagna, la Russia settentrionale, i cui ricchi principati erano le prede più ambite dello scacchiere. Il nipote di Gengis, inoltre, trovava i principati russi più deboli rispetto alla campagna del 1223, a partire dalla quale si erano logorati in continue guerre intestine. Batu operò soprattutto in inverno, per rendere più rapida l'avanzata della sua cavalleria sfruttando i fiumi gelati, "una decisione che solo un mongolo avrebbe potuto prendere", scrive Turnbull.
Il baricentro strategico e difensivo dello scacchiere era costituito da Vladimir, sede del granduca Yuri II. I mongoli vi puntarono dopo aver assediato e distrutto in dicembre Riazan, dove "nessun occhio rimase aperto per piangere i morti", e Mosca - allora poco più di un villaggio -, mentre il loro avversario si attestava con l'esercito sul Sit, fidando nelle robuste fortificazioni della sua capitale. Vladimir finì per cadere nel febbraio 1237, dopo una settimana di assedio, durante la quale "le pietre caddero come acqua dal ciclo", e nel massacro che ne seguì trovarono la morte anche i familiari del granduca. A quel punto Yuri ritenne di non avere più niente da perdere, "dimenticò la paura e avanzò per incontrarli", scrive la Cronaca di Voskresensk: ne scaturì lo scontro campale di Kolomna sul Sit, dove i mongoli ebbero la meglio e il granduca cadde in battaglia.
Tra le città più importanti, se la cavò solo Novgorod, che i mongoli, giunti a meno di cento chilometri da essa, non fecero in tempo a raggiungere prima che il disgelo primaverile rendesse impraticabile il terreno per la loro cavalleria. L'unico evento di rilievo durante il ripiegamento verso sud fu l'assedio di sette settimane ai danni di Kozelsk, nel Kaluga. Come è stato fatto notare, comunque, la campagna invernale di Batu in Russia rimane l'unica, in tutto il corso della Storia ad essere risultata vincente in uno scacchiere rivelatosi ostico per chiunque.
L'offensiva, d'altronde, era appena cominciata. Batu si ritirò sul bacino del Don, dove si ricongiunse col troncone guidato dal figlio di Tolui, Mangu, che aveva operato tra il Volga e il Don. Le operazioni stagnarono per un pezzo, soprattutto a causa di dissensi interni legati all'incerta autorità di Batu, contestato in particolare da uno dei figli del gran khan, Kuiuk, alfine richiamato in Mongolia.
Il nuovo attacco per il 1240, condotto dallo stesso Mangu, ebbe per obiettivo il settore meridionale, e fruttò ai mongoli la conquista di Chernigov a nord di Kiev. Poi fu la volta della stessa Kiev, che cadde il 6 dicembre 1240, alla presenza di Batu, dopo essere stata stretta d'assedio da dieci tumen; l'eccidio fu tale che un cronista, Giovanni Pian del Carpine, trovatosi sei anni dopo tra le rovine di quella che era stata una delle più magnifiche città della Russia, affermò di aver visto "ancora i teschi e le ossa dei morti per le strade". La sua caduta, peraltro, poneva termine al lungo e florido principato instaurato tre secoli prima dai vichinghi svedesi, i cosiddetti varieghi. Dopodiché Batu svernò appena a nord-est dei Carpazi, in Galizia, lasciando chiaramente intendere il successivo obiettivo dell'offensiva.
L'Ungheria, infatti, era a portata di mano. E l'Ungheria era sempre stata, in passato, il limite delle conquiste occidentali degli imperi nomadi, dagli unni agli avari, fino ai magiari, ma anche la base avanzata dalla quale lanciarsi in ulteriori conquiste nell'Europa centroccidentale. Sembrava pertanto la naturale direttrice lungo la quale i mongoli avrebbero continuato ad agire, tanto più che la loro invasione aveva provocato un'ondata di profughi in Polonia ma soprattutto nella stessa Ungheria: si disse che il khan cumano Kotyan si fosse portato dietro 200.000 anime, che i mongoli reputavano loro sudditi. Il re Bela IV aveva accolto non solo i principi russi che non avevano accettato la sovranità mongola, ma anche le popolazioni nomadi in fuga, dietro l'impegno a convertirsi al Cristianesimo; inoltre, il paese era allora indebolito da una contesa col papato, e non sembrava in grado di affrontare gli invasori.
L'Europa fu presa dal panico. I mongoli sembravavno invincibili, con la loro straordinaria rapidità, che li faceva comparire improvvisamente e inaspettatamente su uno scacchiere, le capacità poliorcetiche, del tutto inedite nei popoli nomadi, che avevano appreso dai cinesi e che sfruttavano per conquistare tutti i centri che sottoponevano ad assedio, l'efficiente struttura militare, di cui si valevano per sbaragliare qualunque nemico osasse affrontarli in una battaglia campale. Come se non bastasse, gli occidentali erano inconsapevoli di ciò che rappresentava la vera forza dei mongoli: l'accurata pianificazione delle campagne e una visione strategica, ereditata da Gengis Khan, senza eguali nel mondo.
L'ospitalità concessa a Kotyan offrì dunque a Batu il pretesto per invadere il paese. Il passaggio dei Carpazi da parte dell'esercito principale, guidato dallo stesso Batu fu previsto, naturalmente, per l'inverno, una follia agli occhi di un europeo, ed ebbe come obiettivo la conquista di Pest; il secondo troncone dell'armata, affidata a Kaidu figlio di Ögödei e a Baidar figlio di Ciagatai, ebbe il compito di proteggere il fianco destro, con un'irruzione in Polonia altrettanto sorprendente per gli avversari, che non si aspettavano di veder comparire un esercito sulla Vistola ghiacciata. Un ulteriore distaccamento doveva agire ancora più a nord, in Lituania e in Prussia orientale. I mongoli si avventarono su Sandomierz, e neanche i monasteri dei dintorni sfuggirono alle loro razzie. Gli invasori fecero talmente tanti prigionieri che, per non compromettere la loro proverbiale rapidità, si sentirono in dovere di tornare al confine per liberarsene e procedere poi più spediti nella loro avanzata.
Il ripiegamento diede al voivoda di Cracovia, che agiva per conto del principe Boleslao IV il Casto, la possibilità di radunare una modesta armata, condotta da cavalieri pesanti, che sorprese i nemici sul fiume Czarda; riavutisi dalla sorpresa, i mongoli si resero conto di avere di fronte un contingente di scarsa rilevanza, e contrattaccarono approfittando anche del fatto che i cavalieri nemici si erano sparsi in cerca del bottino. Alla fine la giornata andò ai tartari, che poterono proseguire indisturbati alla volta della Vistola.
Che avessero subito delle perdite nello scontro, o che comunque ritenessero necessario rinfoltire i ranghi, i mongoli tornarono in territorio polacco con un esercito più numeroso. Mentre gli invasori raggiungevano di nuovo Sandomierz, i polacchi si attestavano a Chmielnick per sbarrare loro la strada verso Cracovia, dove continuava a risiedere il principe. I mongoli attaccarono la postazione all'alba del 18 marzo 1241, inaugurando un accanito combattimento che si protrasse per diverse ore, fino a quando il numero maggiore di effettivi non fece pesare la bilancia a favore dei tartari. Non essendo in grado di gettare nella mischia forze fresche che avvicendassero la prima linea esausta dalla lunga lotta, i polacchi finirono per darsi alla fuga: "Alcuni raggiunsero la copertura offerta dalle foreste e, conoscendo il terreno, scapparono; ma la gran parte trovò una morte gloriosa difendendo il loro paese e la loro fede", scrive Dlugosz.
La via per Cracovia era aperta ai mongoli, che vi entrarono la domenica delle Palme, il 24 marzo, senza trovarvi non solo resistenza, ma neanche anima viva. Il principe con la sua famiglia era partito infatti alla volta dell'Ungheria, mentre gli abitanti si erano nascosti nelle paludi e nelle foreste; ad ogni modo, tanto per non venir meno alla loro nomea, i tartari la ridussero in cenere. Non trovarono nulla che potesse opporsi a un'ulteriore avanzata in occidente, verso cui si diresse un troncone dell'armata, che non rimase a saccheggiare e presidiare le terre polacche. La barriera successiva era rappresentata dall'Oder, oltre la quale si entrava nella Slesia retta dall'arciduca Enrico II il Pio. I mongoli attraversarono il fiume in massa all'altezza di Ratibor, su zattere e a nuoto, "poichè i tartari sono più esperti nell'arte del nuoto di qualunque altra nazione", puntando su Breslavia.
L'avanguardia si fece sorprendere da un contingente del duca Mieczyslaw, ma poi l'arrivo del grosso delle forze mongole costrinse i cristiani a ripiegare e a raggiungere Enrico. Quest'ultimo, da parte sua, aveva abbandonato la sua capitale Breslavia per allestire una coalizione di gran parte delle entità politiche che avevano ragione di temere l'irruzione mongola. A lui si unirono non solo le truppe della Slesia ma anche quelle della Polonia e della Moravia, nonchè i cavalieri teutonici. Per dare consistenza numerica al proprio esercito, il duca precettò anche i contadini minatori delle miniere d'oro della sua regione. Quindi, attestandosi a Legnica, ovvero Liegnitz, attese il congiungimento con le forze condotte da Venceslao di Boemia, che gli stava portando altri 50.000 uomini.
Come a Cracovia, i mongoli trovarono Breslavia vuota non solo di persone, ma anche di qualunque cosa potesse approvvigionarli; gli abitanti, infatti, avevano bruciato l'intera città e chi non era scappato si era asserragliato nella cittadella. La possibilità di attaccare quest'ultima fu scartata una volta appreso dello sbarramento operato da Enrico poco più a ovest. Questi si augurava di veder comparire Venceslao, o di raggiungerlo, prima dell'arrivo dei mongoli, tuttavia non potè far altro che disporsi a battaglia quando i comandanti dell'esercito mongolo riunirono i rispettivi tronconi.
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E' noto come le armi base del cavaliere europeo furono spada e lancia. Ma oltre a queste, l'arsenale comprendeva una serie di piccoli armamenti come pugnali, asce da combattimento, mazze, picche e molti altri. La cavalleria polacca non differiva troppo in questo equipaggiamento da quelle del resto d'Europa, e la spada che veniva utilizzata comunemente non era diversa dalle spade utilizzate in Occidente: era diritta, con una lama di 80-120cm di lunghezza e 1,0-1,8kg di peso. Anche la lancia, era di 3,5-4,5m di lunghezza, con punta di forma angolare, e contrappeso vicino alla parte terminale.
L'armamento difensivo - la classica armatura - includeva, in un primo momento il gambesone, divenne poi brigantina e armatura a scaglie, seguita da usberghi, e poi posta con alcuni elementi di lamiera fino alla fine del XVI secolo, quando acquisita la sua forma "perfetta", proteggendo l'intero corpo di un cavaliere, e qualche volta anche il suo cavallo.
Alla vigilia dello scontro con i mongoli il processo di evoluzione della cavalleria in Polonia, non subisce sviluppi e variazioni significative. Al fine di ricreare l'immagine dell'esercito di quei tempi, è fondamentale conoscere le funzioni di particolari classi di società, servizio militare, di lavori specifici per le esigenze dell'esercito e servizi in natura per il già citato servizio militare. Il primo tipo di servizio poggiava principalmente nelle mani di soldati (nobili come nel resto d'Europa) mentre gli altri due erano di competenza dei borghesi e (la maggior parte) dei contadini. Questo periodo è poco approfondito dalle ricerche storiche, ma la battaglia di Liegnitz è così ricca di iconografie che è possibile tentare di fare alcune stime.
L'armatura di un soldato semplice era cambiata molto poco, ma i cavalieri eminenti (come pure Enrico II il Pio), avevano i loro usberghi arricchiti con elementi in lamiera di ferro, elmi grandi e ben decorati. Leszek Czarny, solo per fare un altro esempio, morto nel 1288, è raffigurato sulla sua lapide di Cracovia nella sua armatura a piastre completa.
Le tattiche polacche sul campo di battaglia non erano invece poi così complicate. I cavalieri (insieme ai loro scudieri) rimanevano in formazione chiusa con la fanteria sui fianchi, e - dopo il tiro iniziale di arcieri e/o balestrieri - iniziava la carica. Nel momento in cui il comandante - che combatteva a capo del distaccamento principale - perdeva il controllo sulla sua unità di cavalleria e la battaglia degenerava in una mischia e nel disordine, la possibilità di panico diveniva l'elemento cruciale della lotta, e la battaglia - apparentemente vinta dopo la prima carica - poteva essere persa.
La sconfitta di Liegnitz arricchì sicuramente l'orizzonte strategico della Cavalleria polacca, che però, nonostante fosse riuscita a comprendere l'importanza della mobilità in battaglia delle proprie formazioni a cavallo, tentò di non discostarsi mai troppo dalle tendenze cavalleresche dell'Europa occidentale, tentando un mix tattico, ancora oggi non del tutto approfondito a dovere dagli storici.
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I cronisti dell'epoca affermano che "c'erano molte unità di tartari, ciascuna delle quali superiore, da sola, dell'intero esercito polacco". In realtà, i mongoli erano in inferiorità numerica, e se fosse arrivato anche Venceslao probabilmente non avrebbero avuto alcuna possibilità. Lo stesso Dlugosz, d'altronde, afferma che Orda schierò i suoi su quattro linee. Sebbene si sia arrivati ad attribuire a Enrico anche 40.000 uomini, si ritiene che il suo esercito assommasse a 10.000 effettivi, un numero che non dava alcuna garanzia di fronte al tumen nemico, soprattutto su uno scacchiere piatto, come quello inopinatamente scelto dal principe, che favoriva in modo lampante la dinamica cavalleria mongola.
Che i polacchi fossero più numerosi, lo prova il fatto che furono loro a inaugurare la battaglia, con una carica della prima linea che non avrebbero osato fare, se si fossero trovati in inferiorità; secondo una cronaca di un frate francescano, rinvenuta negli anni sessanta del ventesimo secolo, gli effettivi agli ordini di Orda non superavano un tumen, ovvero 10.000 uomini.
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Il 9 aprile l'arciduca uscì da Liegnitz accompagnato da un fosco presagio, poiché una pietra si era staccata da una chiesa sfiorandolo; si spostò verso Wahlstatt e schierò il proprio eterogeneo esercito, disponendolo, secondo il cronista Dluglosz, su cinque linee successive lungo un terreno piatto a ridosso del fiume Nysa. In prima fila pose i combattenti provenienti dalla Germania e da altre parti d'Europa, supportati da alcuni reparti di contadini-minatori. Le due linee successive erano costituite dai cavalieri polacchi, rispettivamente di Cracovia e di Opole, seguiti dai cavalieri teutonici, mentre di riserva Enrico pose se stesso e i suoi cavalieri di Slesia, oltre a un modesto contingente di mercenari. Ma poiché la presenza dell'Ordine teutonico è incerta, si deve considerare la possibilità che le linee fossero solo quattro.
I mongoli da parte loro scelsero una formazione a "T" nella quale le distanze tra i vari reparti misti di cavallerie leggere e cavalieri arcieri fossero ampie in maniera tale da permettere le manovre aggiranti, tipiche del loro stile di combattimento.
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La prima linea mongola lasciò fare la prima carica alle cavallerie polacche, come già detto, arretrando fino a quando i cristiani non si trovarono circondati dagli arcieri nemici e isolati dal resto dello schieramento. Poiché per la gran parte si trattava di combattenti privi di armatura, caddero tutti sotto una pioggia di frecce, "come delicate spighe di grano rotte da chicchi di grandine", tranne alcuni che avevano fatto in tempo a svincolarsi.
Enrico si affrettò a mandare avanti altre due linee, e altrettanto fece Orda, che però disponeva ancora degli effettivi della prima schiera. Tuttavia, la copertura dei balestrieri in forza all'esercito di Enrico si rivelò più efficace di quella degli arcieri mongoli, e i cristiani sembrarono tenere. Alla lunga, però, iniziarono a perdere terreno, ed Enrico si sentì costretto a far entrare in battaglia le sue forze migliori - che si trattasse dei teutonici o della riserva polacca, non è dato sapere. Ancora una volta il comandante mongolo lo imitò trascinando dietro di sè la sua quarta schiera, e si accese di nuovo una mischia furibonda.
Trascorso altro tempo, furono i mongoli a ripiegare e, quando si trovarono a una certa distanza dal nemico, il loro portainsegne agitò lo stendardo, contrassegnato da ossa di pecora incrociate e code di yak. Era il segnale convenuto per attivare gli uomini incaricati di appiccare il fuoco a delle canne, dalle quali si sollevò un denso fumo e un odore insopportabile per i cristiani. Questo i polacchi proprio non se lo aspettavano: "Si sapeva che nelle loro guerre i tartari hanno sempre fatto ricorso alle arti della divinazione e a stregonerie, ed è precisamente ciò che stavano facendo in quella circostanza", scrive sgomento Dlugosz.
I cristiani, confusi, persero qualsiasi residua baldanza e si aggirarono senza costrutto in quella nuvola di fumo. Neanche capirono bene cosa accadde, quando i mongoli ritornarono sui loro passi e iniziarono a sbucare all'improvviso dalla fitta nebbia artificiale, facendosi preannunciare solo dal loro grido di guerra. La cavalleria leggera aggredì i polacchi sui lati con scariche di dardi, mentre il centro li premeva di nuovo. "Ne seguì una strage enorme". Caddero, tra gli altri, il margravio della Moravia e il comandante regionale dei teutonici, ogni opposizione venne meno ed Enrico, che avrebbe potuto darsi alla fuga con la sua schiera, scelse di aspettare che investissero anche lui.
In breve gli furono addosso da tutti i lati. A quel punto, l'arciduca tentò di aprirsi una via di fuga combattendo, insieme a un pugno di seguaci; riuscì a incunearsi nelle file nemiche, ma man mano che avanzava i suoi cadevano, e in prossimità del varco rimase con soli quattro uomini, troppo pochi per impedire che il suo cavallo, già ferito in precedenza, venisse finito dai colpi avversari. Uno dei suoi si affrettò a dargli un'altra cavalcatura, ma ormai i mongoli avevano riconosciuto il principe dalle sue insegne, e chiusero tutti i varchi.
Una lancia tartara penetrò nell'ascella di Enrico, non protetta dall'armatura, proprio mentre l'arciduca levava il braccio per calare un fendente sull'avversario più prossimo. Il principe cadde a terra, e subito i mongoli gli si fecero intorno, trafiggendolo con due frecce; poi lo trascinarono lontano dai suoi e gli tagliarono la testa, spogliando il corpo delle sue insegne e lasciandolo nudo a terra.
La sua testa sarebbe stata conficcata su un palo ed esibita davanti alle mura di Legnica per indurre i difensori ad aprire le porte, cosa che questi ultimi si rifiutarono di fare; scelsero invece di asserragliarsi nella roccaforte dopo aver incendiato la città, senza che i mongoli, i quali temevano di veder arrivare l'armata di Venceslao, li molestassero oltre. Pare invece che il cavaliere che aveva offerto all'arciduca il cavallo se la sia cavata, finendo in seguito in un monastero domenicano, "grato al Signore di averlo salvato da tanti pericoli".
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Sul campo, con Enrico, giaceva gran parte della nobiltà polacca. Si disse che i mongoli, volendo conoscere l'esatto numero dei caduti avversari, abbiano tagliato un orecchio a ciascuno dei cadaveri "riempiendo fino all'orlo nove enormi sacchi".
I polacchi faticarono a ritrovare il corpo senza testa dell'arciduca, almeno fino a quando la vedova non rese noto che suo marito aveva sei dita nel piede sinistro.
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In quello scacchiere, i mongoli non si spinsero oltre, deviando verso la Moravia per ricongiungersi con Batu. L'obiettivo principale dell'avanzata verso occidente rimaneva infatti l'Ungheria, e alla volta di quest'ultima aveva nel frattempo mosso l'armata principale, radunatasi sulla Vistola all'altezza di Halicz. Nella sua marcia verso Pest, Batu aveva diviso la sua armata in quattro tronconi, due ali estreme a nord e a sud, e altre due sezioni centrali, rispettivamente attraverso la Galizia, la Moldavia e la Transilvania. Riunitisi nei pressi della capitale, i tartari furono avvicinati dall'armata di soccorso allestita da Bela, ma si sottrassero allo scontro attuando un ripiegamento verso oriente. Nove giorni dopo, e, secondo la tradizione, due giorni dopo la battaglia di Liegnitz, presso il villaggio di Mohi gli ungheresi si fecero sorprendere nel sonno da una manovra a tenaglia, e fu un'ecatombe, dalla quale a stento si salvò lo stesso sovrano. Pest, naturalmente, fece una brutta fine, e il resto dell'anno gli ungheresi lo passarono a sfamare le armate mongole, prima che queste riprendessero l'avanzata verso occidente, con Vienna quale successivo obiettivo.
Durante la pausa che si presero i mongoli, Bela non riuscì, nonostante i suoi sforzi, a indurre la Cristianità a mettere in atto una crociata per fronteggiare il pericolo rappresentato dagli invasori. Il papa era allora troppo impegnato nelle sue contese con l'impero per prendersi la briga di indire una crociata in uno scacchiere che non fosse quello italico, dove egli vedeva il vero nemico della fede nell'imperatore Federico II. All'appello risposero solo i teutonici, che però preferirono scegliersi un nemico teoricamente più malleabile - e più compatibile con i loro interessi nell'area baltica -, i russi di Novgorod; finì che anche loro rimediarono una memorabile sconfitta, nella battaglia del lago Peipus per mano del principe Nevskij.
Dopo essere stato raggiunto da Kaidu, Batu attese solo che l'inverno gelasse il Danubio per poter riprendere la campagna; il khan giunse a distruggere Zagabria e fin quasi sulle rive dell'Adriatico, nei pressi di Spalato, nel tentativo di raggiungere il re ungherese in fuga, mentre la sua ala destra si spingeva in direzione di Vienna. Ma nel febbraio 1242 giunse la notizia della morte del gran khan Ögödei - avvenuta nel dicembre precedente -, che apriva la questione della successione. Batu era tenuto a partecipare al Kuriltai, e non ebbe altra scelta che tornare indietro abbandonando qualunque velleità sull'Europa.
Le sue ambizioni, tuttavia, furono frustrate dall'elezione di Guyuk, al quale Batu non rese mai omaggio, preferendo tornare ad amministrare come dominio autonomo i territori occidentali, che ormai comprendevano i principati russi, la cui capitale pose a Sarai sul Volga. Nasceva lo stato mongolo - o tartaro, come veniva chiamato dagli europei - indipendente dell'Orda d'Oro, come fu definito per via della tenda dorata di Batu; oltre ai territori russi, esso inglobava una vasta area corrispondente all'attuale Kazakistan, trasformandosi progressivamente in uno stato turco e islamico. Tenne bene ancora per un secolo, per poi subire il ritorno dei moscoviti e, soprattutto, l'aggressione di Tamerlano; in progresso di tempo, finì per dividersi in varie Orde, spesso in guerra tra loro, e perse il controllo sui territori russi, che finirono col rendersi indipendenti. Agli albori dell'età moderna Ivan IV il Terribile diede il colpo definitivo alla Grande Orda, e ai tartari rimase la sola Crimea, dalla quale i mongoli si presero una piccola rivincita riconquistando temporaneamente la capitale moscovita nel 1571, il khanato di Crimea sopravvisse fino alle soglie del XVIII secolo, per essere infine inglobato nell'impero ottomano.
Pubblicato il 10/12/2010