29 maggio 1176
Nella battaglia di Legnano le forze dei comuni italiani del Nord Italia, sotto la benedizione del Papa, annientano le forze dell’imperatore Federico Barbarossa.
LEGNANO
Re di Germania, imperatore del Sacro Romano Impero e re d'Italia, e come Federico III duca di Svevia. Figlio di Federico II di Hohenstaufen, duca di Svevia, e nipote di Corrado III di Germania fu da quest'ultimo indicato come successore ai principi elettori tedeschi. Quando Corrado morì (1152), Federico Barbarossa salì sul trono di Germania; in cambio del sostegno ricevuto nell'elezione assegnò la Baviera al cugino Enrico il Leone. Tale gesto era in realtà il primo passo di una politica di pacificazione dell'area tedesca, che portò al rafforzamento della grande nobiltà laica ed ecclesiastica. In seguito ai ricorrenti contrasti che afflissero la politica imperiale in Italia, dove i Comuni avevano usurpato alcuni diritti regi e non riconoscevano più l'autorità dei funzionari imperiali, Federico Barbarossa si accinse alla sua prima discesa in Italia: dopo aver ripristinato l'ordine con la distruzione di Tortona, si fece incoronare re d'Italia (1155). Quindi raggiunse Roma, dove soffocò la rivolta autonomista capeggiata da Arnaldo da Brescia; restituita la città al pontefice Adriano IV, si fece da questi incoronare imperatore. Nel 1158 Federico Barbarossa tornò in Italia per riaffermare ancora una volta i propri diritti sui Comuni lombardi.
Milano, Cremona, Bergamo e Mantova considerarono la richiesta della nomina da parte regia dei podestà come inconciliabile con le libertà comunali riconosciute dai precedenti imperatori e si opposero con fermezza: fu l'inizio di una lunga serie di lotte, che si protrasse fino al 1183 (anno in cui venne firmata la pace di Costanza) e che contò ben quattro discese di Federico Barbarossa in Italia. L'ingerenza del Barbarossa nelle questioni pontificie portò ad una grave frattura tra l'impero e il papato, che sfociò in aperta ostilità alla morte di Adriano IV (1159). Il Barbarossa non accettò la legittimità del nuovo pontefice Alessandro III e nominò una serie di antipapi. Il papa reagì stringendo con i Comuni un'alleanza in funzione antimperiale, cui aderirono il regno di Sicilia e Venezia. Nel 1162 Federico Barbarossa condusse una spietata campagna contro Milano, Crema e i loro alleati e rase al suolo le due città. Tra il 1167 e il 1168 occupò Roma e insediò sul soglio di Pietro un antipapa, Pasquale III. In risposta Alessandro III, rifugiato in Francia, lo scomunicò.
Nel 1176 il Barbarossa scese ancora in Italia ma, sconfitto nella battaglia di Legnano dalle milizie della Lega lombarda, dovette alla fine accettare i termini della pace, firmata sette anni dopo a Costanza. Conclusa la campagna in Italia, Federico Barbarossa si impegnò per accrescere il proprio potere nell'Europa centrale: costrinse la Polonia a versare un tributo all'impero, elevò la Boemia a regno e trasformò il margraviato d'Austria in un ducato ereditario indipendente. Nel 1180 riuscì a porre fine alla lotta contro i guelfi (sostenitori della casa di Baviera) reprimendo la rivolta capeggiata dal cugino, Enrico il Leone, e privando quest'ultimo di quasi tutti i suoi possedimenti. Nel 1186 combinò il matrimonio tra il figlio Enrico e Costanza d'Altavilla, erede del regno di Sicilia, grazie al quale il potere degli Hohenstaufen si espanse nell'area del Mediterraneo; a questo obiettivo Federico Barbarossa finalizzò anche la sua partecipazione alla terza crociata, nel corso della quale morì mentre guadava a nuoto il Fiume Salef, nell'odierna Turchia.
Condottiero lombardo. L'identificazione del personaggio, di cui non si hanno peraltro notizie documentarie certe, con il comandante della "Compagnia della morte", la milizia composta di giovani soldati che combatté eroicamente nella battaglia di Legnano contro l'esercito imperiale di Federico Barbarossa, risale all'opera del cronista trecentesco milanese Galvano Fiamma.
Alcuni studiosi hanno voluto attribuire una precisa identità storica alla figura di Alberto da Giussano, riconoscendolo in uno degli Alberti attestati come firmatari di uno degli atti costitutivi della Lega lombarda, datato Cremona, marzo 1167; più probabilmente, tuttavia, Alberto da Giussano è frutto della tradizione orale che, dopo la battaglia di Legnano, diede vita a una fortunata leggenda popolare sopravvissuta a lungo.
LEGNANO
Per lungo tempo una certa storiografia ha visto la battaglia di Legnano, combattuta il 29 maggio del 1176 tra l'esercito imperiale di Federico Barbarossa e le milizie cittadine della Lega lombarda, come uno dei primi sussulti nella lunga lotta per la liberazione e l'unificazione d'Italia. Oggi questa visione storiografica, che faceva dell'idea d'Italia un continuum sotterraneo sotteso ad ogni fase della storia della Penisola, è largamente superata. L'episodio di Legnano, però, resta importante, assieme a tutte le vicende che lo precedettero e seguirono, e vale la pena di soffermarcisi un poco.
Innanzi tutto sarà bene capire con esattezza che valore assegnare al termine medievale di libertà. Nel Medioevo un po' in tutta Europa la parola libertates, le libertà, non significava esattamente libertà in senso moderno. Sotto la categoria delle libertates, infatti, si riuniva tutto quell'insieme di privilegi, di norma concessi dal potere signorile, spesso ottenuti a scapito di privilegi revocati ai propri vicini, altre libertates ma decadute, che ogni comunità custodiva gelosamente all'interno del proprio patrimonio tradizionale di leggi e di costumi.
Non è un caso che ogni tentativo di riforma, di razionalizzazione e di modernizzazione dei nascenti stati nazionali si sia dovuto scontrare, fin dall'inizio, con la persistenza sul territorio di sistemi di "libertà" diffuse, spesso contraddittorie, che in quanto garanti della conservazione di usi ormai stratificati facevano da freno ed opposizione ad ogni tentativo di trasformazione del sistema sociale e politico.
L'Italia del XII secolo, e l'Italia settentrionale in particolare, non faceva eccezione. Non è nostro obiettivo, in tal sede, approfondire l'analisi della formazione della società comunale nell'ltalia alto medievale, ma schematizzando si potrebbe dire che l'elemento progressivo, nella vicenda che vide a lungo contrapposte le città lombarde (non tutte dato che molte, proprio nella speranza di accrescere le proprie "libertà" a scapito delle vicine, erano schierate nel campo imperiale) e Federico Barbarossa, l'elemento di modernità e, forse, di progresso stava proprio dalla parte dell'imperatore tedesco.
La politica degli imperatori a partire da Ottone il Grande era sempre stata, infatti, quella di istituire e nel caso imporre la supremazia dell'impero, potremmo quindi dire dello stato, sulla congerie di poteri feudali, ecclesiastici o cittadini che, profittando della lunga vacanza dei poteri legittimati, avevano usurpato la gestione del territorio tanto sul piano econoinico che su quello politico e militare. Con gli imperatori delle casate di Sassonia e degli Hohenstaufen questo conflitto, in special modo in Italia, si era radicalizzato, trasformandosi in breve in uno scontro frontale con la Chiesa e col suo potere temporale.
Dentro le pieghe di tale scontro si erano inserite le città del nord della Penisola che speravano, liberandosi dal controllo dei funzionari imperiali, di godere di sempre maggiori franchigie e di essere in grado di rafforzare i loro interessi localistici e di piccola potenza.
In questo quadro, contraddittorio ma estremamente vitale, si andarono a collocare gli avvenimenti di quel 1176, che si conclusero col sangue versato a Legnano.
LEGNANO
Nel 1152 Federico Barbarossa era stato designato alla successione di Corrado III; la scelta fu accolta favorevolmente da tutte parti, sia per le sue qualità personali, sia perché, essendo egli il figlio di una sorella di Enrico il Superbo e quindi cugino del duca di Baviera Enrico il Leone, sembrava adatto a pacificare e unire nella sua persona le due dinastie rivali. In Federico Barbarossa si realizzò subito un'intesa con la casa guelfa. Allo stesso tempo si ebbe lo spostamento dei confini della lotta dai paesi tedeschi all'Italia e la trasformazione anche interna dei due partiti storici alimentati per parecchio tempo dalle vicende del potere regio imperiale in Germania. Federico Barbarossa, infatti, indirizzò la sua politica verso il ripristino dell'autorità imperiale, in primo luogo nei confronti di quelle istituzioni comunali che, in Italia, avevano già affermato la loro autonomia nei confronti dell'Impero, in questo non ostacolate, se non proprio protette, dalla Chiesa. Agli occhi di Federico Barbarossa, i Comuni erano degli usurpatori dell'unico potere legittimo, quello imperiale.
Federico Barbarossa cominciò a rinsaldare la sua posizione in Germania. Restituì a Enrico il Leone il ducato di Baviera (che Corrado gli aveva sottratto) nell'intento di pacificare la Germania instaurando nuovi rapporti di collaborazione e reciproco rispetto fra i principi. I Babenberg, cui fu tolta la Baviera, furono risarciti con l'erezione dell'Austria a ducato. Guelfo VI di Baviera ebbe, a sua volta, l'investitura della Toscana di Spoleto e dei beni lasciati alla morte di Matilde di Canossa. La politica in tal modo instaurata da Federico Barbarossa in Germania muoveva da una concezione della dignità regia come preminenza inter pares, all'interno dei rapporti vassallatici esistenti tra lui e i singoli signori; ma quella dignità comportava anche il diritto alla corona di re d'Italia e al collegato titolo di imperatore, cui Federico Barbarossa guardava con rinnovata attenzione, animato da una concezione altissima e rigorosa della missione universale e del valore sacrale della funzione imperiale. I suoi obiettivi immediati divennero perciò la nomina a imperatore e il ripristino dell'autorità nel regnum Italiae, da tempo disgregato in una molteplicità di poteri locali, in cui i comuni cittadini avevano ormai una parte di primo rilievo.
LEGNANO
Si riscontrano tracce di un carro ferrato conservato in una chiesa a Milano, San Giorgio in Palazzo, diciotto anni prima della battaglia di Legnano. Lo avrebbe istituito l'arcivescovo della città, Ariberto da Intimiano, forse mutuandolo dal più essenziale carro da guerra utilizzato dai longobardi, peraltro privo di valenze simboliche.
Il carattere simbolico del Carroccio, invece, diffusosi in molte realtà comunali dell'Italia centro-settentrionale nei secoli centrali del medioevo, era preponderante, accompagnandosi esso alle peculiarità comunali quale simbolo di autonomia della città stessa.
La descrizione dei cronisti lo presenta come un carro a quattro ruote, trainato da tre coppie di buoi e rinforzato sulle fiancate con piastre di ferro. La sua funzionalità era legata alla presenza di una grande cassa a più ripiani, ricoperta di drappi rossi, nella quale era conservato tutto ciò che serviva per medicare i feriti, dagli unguenti alle bende, dagli olii agli sciroppi. Sopra alla cassa si stagliava un'asta, culminante con una croce d'oro dalla quale pendeva un vessillo con una croce rossa, l'immagine di sant'Ambrogio o quella del Signore.
Dentro il carro trovavano posto trombettieri incaricati di trasmettere gli ordini, mentre il vescovo benediva coloro che si accingevano alla battaglia dal palco. Al Carroccio erano addetti un manutentore e un cappellano stipendiati dal Comune stesso. In battaglia, il mezzo indicava il punto di raccolta della fanteria, il baricentro dell'esercito, una sorta di mastio intorno al quale poteva arroccarsi l'estrema resistenza; come tale, svolgeva pertanto anche una funzione tattica nonché, ancora una volta, simbolica, poiché andava difeso a tutti i costi.
LEGNANO
Il tentativo da parte di Federico Barbarossa di restaurare il potere imperiale nella penisola italiana lo portò ben presto in urto con gli interessi delle città del nord dell'Italia che ormai non accettavano più che un potere lontano, per quanto legittimo, interferisse nei loro affari interni, ad esempio la nomina dei podestà. Tra il 1154 e il 1176 Federico Barbarossa condusse almeno quattro campagne in Italia per indurre alla ragione le città ribelli che nel frattempo, approfittando della lotta tra impero e papato, si appoggiarono al papa Alessandro III che l'imperatore non riconosceva come legittimo.
Dopo la campagna condotta dal Barbarossa negli anni tra il 1158 e il 1162, nel corso della quale l'esercito imperiale prese le città di Crema e di Milano, facendone abbattere le mura, e incendiò altre sei città tra cui Novara, Asti e Tortona, sembrava che la situazione si fosse in qualche modo stabilizzata ma nel 1167 il sovrano svevo fu ancora costretto a scendere in Italia per fronteggiare, senza risultati definitivi, le rinate rivendicazioni delle città lombarde.
Il primo dicembre del 1167 sedici città lombarde tra cui Milano strinsero una Lega giurata, con l'obiettivo di sostenersi a vicenda nella lotta contro l'imperatore Federico Barbarossa per l'affermazione delle loro libertà. Per sottolineare anche in modo simbolico questa loro determinazione i Lombardi decisero di fondare una nuova città, del tutto sottratta all'influenza imperiale: Alessandria, dal nome del papa che appoggiava le rivendicazioni dei Comuni lombardi e che aveva scomunicato Federico Barbarossa.
Fu proprio contro Alessandria che Federico Barbarossa diresse all'inizio la sua campagna nel 1174 ma nell'aprile del 1175, dopo un lungo assedio, l'imperatore fu costretto a ritirarsi su Pavia, città che non aveva mai abbandonato il campo imperiale. Per diversi mesi sembrò che, come spesso accadeva, la situazione potesse essere risolta da una trattativa, ma le città della Lega, saputo che dalla Germania Enrico il Leone non era riuscito, o forse non aveva voluto mandare rinforzi a Federico Barbarossa, ruppero le trattative alla fine dell'inverno del 1176.
Nonostante avesse molte grane oltralpe, Federico Barbarossa si rendeva conto che farsi sfuggire di mano il controllo dei territori italici, dove confluivano gli interessi di molti soggetti politici europei e non, significava condannarsi all'isolamento internazionale. Si sentì pertanto costretto a una nuova campagna, che fece inaugurare all'arcivescovo di Magonza Cristiano di Buch nell'aprile 1173 con l'assedio della bizantina Ancona. Ma neanche allora le forze imperiali riuscirono a impossessarsi di quella preziosa testa di ponte sull'Adriatico, nonostante sei mesi di sforzi. Toccò quindi allo stesso Federico Barbarossa, che nel settembre 1174 valicò il Moncenisio e si gettò su Susa, cui fece pagare il mancato apporto durante la sua drammatica fuga di sette anni prima. In un attimo, tutte le entità politiche di tradizione filoimperiale che avevano aderito alla lega lombarda ripassarono dalla sua parte, il che fu sufficiente a gettare in una temporanea empasse gli altri membri della coalizione. Toccava adesso ad Alessandria, un simbolo dell'opposizione al potere imperiale che andava spazzato via senza indugio. Ma anche le fortificazioni di Alessandria e la tenacia dei suoi difensori si rivelarono un ostacolo troppo arduo da superare, nonostante che l'imperatore del Sacro Romano Impero potesse fruire degli effettivi e di tutti macchinari ossidionali necessari per espugnare una città. A partire da fine ottobre, l'esercito tedesco trascorse un rigidissimo inverno davanti alle porte della roccaforte, ottenendo il solo risultato di dar modo alla lega di riprendersi e radunare un cospicuo esercito da contrapporgli. Per un bel pezzo Federico Barbarossa riuscì a scongiurare la minaccia di essere stretto tra le mura e l'armata alleata, sguinzagliando Cristiano di Buch in Romagna e costringendo così i nemici a dividere le loro forze.
Ma l'assedio non si risolveva, e nell'aprile 1175 Federico Barbarossa tentò il tutto per tutto cercando di entrare in città tramite le gallerie scavate dai suoi minatori. Ma i difensori se ne accorsero e, dopo aver eliminato il pericolo uccidendo gli addetti allo scavo, condussero una sortita che permise loro di incendiare le macchine tedesche. All'imperatore Federico Barbarossa non rimase che rinunciare alla prospettiva di conquistare la città e prepararsi ad affrontare l'esercito della lega, ormai prossimo. Le due armate si avvistarono il 12 aprile, sabato santo, tra Casteggio e Voghera, accampandosi a una distanza di cinque chilometri l'una dall'altra. Tuttavia, Federico Barbarossa era in netta inferiorità numerica, gli alleati pervasi da un certo timore reverenziale; così, invece di combattere, i contendenti presero a trattare: ma i comuni non vollero rinunciare alle loro richieste di una moderata autonomia, né Federico alla pretesa di cancellare Alessandria dalla faccia della terra, e non se ne fece nulla. L'imperatore raggiunse indisturbato Pavia, dove trascorse il resto dell'anno e l'inverno successivo a ricercare alleati e rinforzi. Si incontrò col cugino Enrico il Leone in gennaio a Chiavenna, ma i due non si misero d'accordo e il Barbarossa dovette fare a meno del prezioso aiuto del duca di Sassonia. Quando arrivò la stagione bellica, Federico Barbarossa poteva disporre di un modesto contingente arrivato da oltralpe attraverso il passo di Lucomagno; al suo comando c'era il cancelliere dell'impero, l'arcivescovo di Colonia Filippo, e tra i suoi maggiorenti spiccavano l'arcivescovo di Magdeburgo, il langravio di Turingia, il duca di Zahringen e il conte di Fiandra.
Federico Barbarossa li ricevette a fine maggio a Como, e di lì i tedeschi si spostarono per congiungersi con le forze alleate italiane, principalmente da Pavia e dal marchesato del Monferrato. Per una delle campagne che reputava più importanti per il suo prestigio Federico Barbarossa, il sovrano più potente dell'impero d'occidente disponeva solo di un migliaio di cavalieri tedeschi e di qualche migliaio di alleati italiani, in gran parte provenienti da Como, sebbene si aspettasse di rimpinguare le proprie forze a Pavia.
Si era alla fine dell'inverno del 1176; il Barbarossa doveva fare affidamento soprattutto sulle milizie delle città italiane avversarie delle sedici riunite nella Lega, oltre ai suoi cavalieri tedeschi. La Lega lombarda riuscì a mobilitare altri 2.500 cavalieri e 900 fanti dalla città di Milano. La soluzione al conflitto sarebbe stata trovata sul campo di battaglia, nei pressi della città di Legnano.
LEGNANO
Per la battaglia di Legnano l'esercito della lega si era organizzato radunando a Milano un numero di effettivi assolutamente imprecisabile, stante l'estrema laconicità delle fonti. Lasciando perdere i numeri paradossali di provenienza imperiale, che vanno da un massimo di 100.000 uomini a un minimo di 12.000, le uniche cifre di cui abbiamo certezza sono quelle fornite da un informato cronista milanese coevo, Sire Raul, che parla della presenza a Legnano di 50 cavalieri di Lodi, 200 di Piacenza e 300 di Vercelli, cui andrebbero sommati almeno 900 cavalieri milanesi. A questi numeri vanno aggiunti gli altri contingenti di cavalleria forniti da città come Verona, Brescia e Novara, e dall'intera Marca Trevigiana, oltre a un adeguato numero di fanti, tre o quattro migliaia, permettendoci di immaginare a Legnano un'armata non più grande di qualche migliaio di effettivi.
Una menzione a parte su Legnano merita il contingente cui era assegnata la protezione del Carroccio, simbolo dell'autonomia comunale, corredato di gonfalone cittadino. L'esistenza a Legnano di una guardia del genere è attestata solo da un cronista di molto posteriore all'epoca della battaglia di Legnano, Galvano Fiamma, rivelatosi confusionario e poco credibile in ripetute circostanze. Tuttavia, il suo racconto della battaglia di Legnano è entrato a far parte della tradizione più nota legata al combattimento, e la "Compagnia della morte" accettata come realmente esistita. Si trattava di 900 cavalieri, che un giuramento comune impegnava a non fuggire mai - pena la morte con la scure -, a «contrastare l'imperatore in qualsiasi circostanza, in marcia, sul campo», e che il comune aveva premiato con un anello d'oro ciascuno. Il loro comandante era Alberto da Giussano, personaggio del quale non si è ancora attestata l'esistenza storica e che, per ora, è più prudente ritenere il prodotto di una tradizione orale sorta dopo la battaglia di Legnano. Agli effettivi montati si sommava un'altra compagnia di 300 fanti, ma non è proprio possibile accettare la notizia secondo la quale a Legnano esisteva anche una compagnia di 300 carri falcati, su ciascuno dei quali agivano dieci giovani scelti.
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Sebbene pressoché tutte le fonti dell'epoca e quelle posteriori accennino a uno scontro avvenuto tra i comuni della lega e l'imperatore, non si hanno notizie che superficiali e frammentarie della battaglia di Legnano, la cui unica e inequivocabile certezza è rappresentata dalla vittoria lombarda, ammessa anche dalle fonti germaniche. Per il resto su Legnano, bisogna affidarsi all'interpretazione degli accenni offerti dai cronisti, traendo un racconto compiuto sullo sviluppo della battaglia di Legnano dall'accostamento e dalla fusione dei dati disponibili.
È certo che la mattina del 29 maggio 1176 l'esercito della lega si incamminò a scaglioni alla volta di Legnano, ai margini dell'area sotto il controllo di Milano, per bloccare la via d'accesso a quest'ultima. Il trasferimento a Legnano avvenne con una relativa calma, nella convinzione che Federico Barbarossa fosse ancora lontano: si diceva, secondo quanto riportato negli annali piacentini, che fosse addirittura a Bellinzona. In realtà Federico Barbarossa, che stava tornando a Pavia, aveva pernottato a Cairate, sull'Olona, a nord-ovest di Legnano, e la mattina stessa si era rimesso in marcia alla volta della linea del Ticino.
Nel borgo di Legnano, distante poco più di venti chilometri dalla città milanese, arrivò per prima la cavalleria bresciana e milanese, dalla quale si staccò un contingente di 700 effettivi con il compito di perlustrare la zona verso Como. Poi a Legnano arrivò anche il Carroccio con parte della fanteria, che si dispose davanti a un fossato, forse costruito per l'occasione alle spalle dei combattenti allo scopo di impedirgli di scappare, in ottemperanza al giuramento della "Compagnia della morte"; ma forse si trattava, più semplicemente, di un dirupo che assicurava una difesa naturale da tergo.
L'esercito lombardo, dunque, a Legnano non intendeva far altro che difendere i propri confini, che si aspettava di veder violati da un momento all'altro. Ma gli esploratori non fecero neanche cinque chilometri che, tra Legnano e Borsano, verso mezzogiorno si ritrovarono di fronte l'avanguardia dell'esercito imperiale, costituita da 300 cavalieri germanici. I due contingenti vennero subito alle armi, e probabilmente i lombardi vennero raggiunti da altri reparti di cavalleria, che resero ancor più pesante la superiorità numerica degli italiani. Avvertito dello scontro in atto vicino Legnano, Federico Barbarossa rifiutò di accettare il consiglio del suo stato maggiore, che gli suggeriva di sottrarsi a un combattimento prima di aver riunito tutti gli effettivi a disposizione; «ritenendo indecoroso per la dignità imperiale fuggire di fronte al nemico», scrive un annalista di Colonia, il Barbarossa intervenne nella battaglia alla testa del resto della cavalleria.
L'irruzione di Federico Barbarossa sul campo di battaglia sopra Legnano spostò nuovamente l'equilibrio a favore degli imperiali, provocando infine la rotta degli avversari, che parve decisiva e definitiva. Non a caso, i cavalieri bresciani e milanesi proseguirono la loro fuga ben oltre le postazioni della fanteria intorno al Carroccio a Legnano, prendendo la via per Milano e lasciando i fanti privi della loro copertura; qualcuno, a quanto pare, non si arrestò prima di essere rientrato nelle mura, anche se il cardinal Bosone specifica che almeno alcuni drappelli si fermarono a meno di un chilometro da Legnano. A quel punto comaschi e tedeschi pensarono bene di approfittare dell'apparente debolezza del nemico appiedato e caricarono con tutto l'esercito: «L'imperatore allora, vedendo che i militi lombardi si erano dati alla fuga e che erano rimasti solo dei fanti, sia pure in buon numero, credette di poterli facilmente superare», scrive il contemporaneo arcivescovo di Salerno Romoaldo, forse la fonte migliore sull'episodio.
Ebbe inizio una serie di tentativi di sfondamento da parte dei cavalieri germanici, che però andarono a cozzare contro il muro di scudi e lance che i lombardi avevano eretto a difesa loro e del Carroccio. Forse i fanti a Legnano costituirono più linee difensive, di cui gli imperiali riuscirono a valicare le prime quattro, prima di trovare un ostacolo insormontabile nella quinta; almeno, ciò è quanto racconta Goffredo di Viterbo, che su Legnano è uno dei cronisti meno avari di informazioni e più vicini all'evento. Intanto, però, la loro imprevista resistenza diede modo alla cavalleria in fuga di ritornare sui propri passi, di riunirsi ai contingenti che erano usciti da poco da Milano, e di allestire un contrattacco. La sua comparsa sul campo di battaglia di Legnano dovette rappresentare un evento devastante per il morale dei tedeschi, che probabilmente pensavano di essere prossimi alla vittoria. A quanto pare, furono i bresciani ad avventarsi per primi sugli avversari, piombando loro addosso improvvisamente e su un fianco, scompaginandone i ranghi e dando finalmente ai propri commilitoni a piedi il respiro di cui avevano un disperato bisogno. Man mano che anche gli altri contingenti si riversavano addosso agli imperiali, si vide come il numero dei lombardi fosse nettamente superiore a quello dei tedeschi, tanto da far dire ai cronisti germanici che i loro soldati a Legnano avevano combattuto contro un esercito "immenso".
Gli imperiali non furono in grado di opporre resistenza a lungo. Cadde il loro portastendardo, che finì sotto gli zoccoli del cavallo dopo che una lancia lo aveva trapassato, ma il colpo definitivo al morale dei tedeschi a Legnano lo diede la caduta da cavallo dello stesso Federico Barbarossa, che per un pezzo scomparve nella calca. Ciò costituì, verso le tre del pomeriggio - un orario attestato tanto negli annali bergamaschi che in quelli veronesi -, il segnale definitivo della fuga di massa dal campo di battaglia dell'esercito germanico, che proseguì fino al Ticino con il fiato degli avversari sul collo; i lombardi riuscirono a uccidere parecchi nemici mentre attraversavano il fiume, e altri li videro affogare sotto il peso delle loro armature. Quelli che se la cavarono riuscirono a riparare a Pavia, diffondendo la voce che l'imperatore era morto in battaglia. E invece Federico Barbarossa si era salvato dalla battaglia di Legnano, arrivò più tardi, lacero e contuso, a piedi, senza più nulla di regale addosso se non l'orgoglio, peraltro ampiamente ferito. In mano ai lombardi a Legnano aveva lasciato pressoché tutto; nell'annunciare la loro vittoria nella battaglia di Legnano ai bolognesi, i milanesi poterono dire: «Lo scudo dell'imperatore, il vessillo, la croce e la lancia sono in nostro possesso. Trovammo tra le scorte molto oro e argento; il bottino è tale, che non crediamo si possa agevolmente stimare; le quali cose non riteniamo tuttavia di nostra proprietà, bensì desideriamo che siano di comune proprietà del papa e degli italiani», come riportato da Rodolfo di Diceto. Dopo la battaglia di Legnano al bottino già cospicuo rinvenuto nel saccheggio del campo tedesco, si sommavano poi i molti prigionieri, anche di rango, come il conte di Andechs Bertoldo, il nipote dell'imperatrice e il fratello dell'arcivescovo di Colonia, oltre a 500 comaschi.
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Non si ha modo di sapere quali siano state, in definitiva, le perdite imperiali nella battaglia di Legnano. «Quasi tutta la popolazione di Como rimase soccombente», annota sulla battaglia un annalista milanese, facendo riferimento al fatto che a soffrire gravi perdite a Legnano furono senza dubbio gli alleati italiani di Federico Barbarossa; «Como, dolente, piange per lo sterminio del suo popolo», aggiunge Goffredo di Viterbo, che faceva parte del seguito di Federico Barbarossa nella battaglia di Legnano. E il cardinal Bosone, autore di una vita di Alessandro III, sugli esiti della battaglia afferma: «Quei perfidi comaschi che in maniera irriguardosa e pazzesca si erano staccati dall'unione colla Chiesa e dall'alleanza coi lombardi, rimasero quasi tutti sul campo, trafitti dalle spade, o condotti vergognosamente in prigionia».
Legnano non fu una scaramuccia, come qualcuno ha tentato di farla passare, ma forse neanche una grande battaglia che vide impegnate forze numericamente rilevanti. Probabilmente, non furono che poche migliaia i combattenti coinvolti a Legnano, e forse Federico Barbarossa subì perdite molto minori di quelle che gli aveva inflitto la peste nove anni prima. Tuttavia, a Legnano la sconfitta ci fu - perfino la continuazione della cronaca su Legnano di Frisinga, di matrice prettamente germanica, parla di "sfolgorante vittoria" dei lombardi -, e risultò assai dannosa per il prestigio del Barbarossa e per i suoi piani, permettendo a uno scontro nato casualmente di assurgere a battaglia decisiva nella lotta tra impero e comuni lombardi.
LEGNANO
La sconfitta nella battaglia di Legnano mutò profondamente la politica di Federico Barbarossa nei confronti dell'Italia: deluso di fronte all'ottusità delle borghesie mercantili cittadine, che non riuscivano ad andare al di là dei loro interessi immediati per appoggiare il suo disegno, dopo la battuta d'arresto a Legnano Federico volse il suo interesse verso oriente e, in seguito, verso il Mediterraneo.
Nel 1183, con la pace di Costanza, l'impero riconosceva i privilegi delle città lombarde rinunciando, di fatto, ad ogni ipotesi di intervento modernizzatore e razionalizzatore in Italia. La vittoria alla battaglia di Legnano non tenne unite a lungo le città della Lega.
La struttura comunale, di per se stessa basata sull'interesse particolare, si mostrò incapace di diventare cemento unitario per i cittadini uniti da una medesima lingua ma fortemente divisi per interessi. La vittoria nella battaglia di Legnano si mostrò, in questo senso, come un'occasione doppiamente mancata; avevano fermato il disegno unificatore del Barbarossa ma non erano stati capaci di sostituirgli un'ipotesi di sviluppo e di crescita politica per la società mercantile che stava sviluppandosi. Le lotte fratricide dei secoli successivi e la fine delle libertà cittadine, scomparse nel nulla con l'affermarsi del potere signorile, erano forse già scritte nelle conseguenze immediate della battaglia di Legnano.
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Da Giosuè Carducci, Il parlamento
VI
"Milanesi, fratelli, popol mio!
Vi sovvien" dice Alberto di Giussano "calen di marzo? I consoli sparuti cavalcarono a Lodi, e con le spade nude in man gli giurar l'obedienza.
Cavalcammo trecento al quarto giorno, ed a i piedi, baciando, gli ponemmo i nostri belli trentasei stendardi.
Mastro Guitelmo gli offerì le chiavi di Milano affamata. E non fu nulla."
VII
"Vi sovvien" dice Alberto di Giussano "il dì sesto di marzo? A piedi ei volle tutti i fanti ed il popolo e le insegne. Gli abitanti venian de le tre porte, il carroccio venia parato a guerra; gran tratta poi di popolo, e le croci teneano in mano. Innanzi a lui le trombe del caroccio mandar gli ultimi squilli, innanzi a lui l'antenna del carroccio inchinò il gonfalone. Ei toccò i lembi."
VIII
"Vi sovvien?" dice Alberto di Giussano: "vestiti i sacchi de la penitenza, co' piedi scalzi, con le corde al collo, sparsi i capi di cenere, nel fango c'inginocchiammo, e tendevam le braccia, e chiamavan misericordia. Tutti lacrimavan, signori e cavalieri, a lui d'intorno. Ei, dritto, in piedi, presso lo scudo imperial, ci riguardava, muto, col suo diamantino sguardo."
IX
"Vi sovvien," dice Alberto di Giussano, "che tornando a l'obbrobrio la dimane scorgemmo da la via l'imperatrice da i cancelli a guardarci? E pe' i cancelli noi gittammo le croci a lei gridando - O bionda, o bella imperatrice, o fida, o pia, mercé, mercé di nostre donne! -.
Ella trassesi indietro. Egli c'impose porte e muro atterrar da le due cinte tanto ch'ei con schierata oste passasse."
X
'Vi sovvien?" dice Alberto di Giussano: "nove giorni aspettammo; e si partiro l'arcivesvovo i conti e i valvassori, venne al decimo il bando - Uscite, o tristi, con le donne co i figli e con le robe: otto giorni vi dà l'imperatore -.
E noi corremmo urlando a Sant'Ambrogio, ci abbracciammo a gli altari ed a i sepolcri. Via da la chiesa, con le donne e i figli, via ci cacciaron come cani tignosi."
XI
'Vi sovvien" dice Alberto di Giussano "la domenica triste de gli ulivi?
Ahi passion di Cristo e di Milano!
Da i quattro Corpi santi ad una ad una crosciar vedemmo le trecento torri de la cerchia; ed al fin per la ruina polverosa ci apparvero le case spezzate, smozzicate, sgretolate: parean file di scheltri in cimitero.
Di sotto, l'ossa ardean de' nostri morti."
XII
Così dicendo Alberto di Giussano con tutt'e due le man copriasi gli occhi, e singhiozzava: in mezzo al parlamento singhiozzava e piangea come un fanciullo. Ed allora per tutto il parlamento trascorse quasi un fremito di belve.
Da le porte le donne e dai veroni, pallide, scarmigliate, con le braccia tese e gli occhi sbarrati al parlamento, urlavano - Uccidete il Barbarossa.
LEGNANO
La vittoria della Lega a Legnano, non poi così rilevante dal punto di vista militare, ebbe una considerevole importanza politica e morale, infliggendo un duro colpo al prestigio anche in Germania del Barbarossa. Per questo egli si affrettò a concludere una pace separata con il pontefice, stipulata ad Anangni nel 1176, riconoscendo Alessandro III come papa leggittimo e ponendo fine allo scisma, rinunciando inoltre ad interferire nelle vicende romane. La pace che il pontefice concluse senza consultare gli alleati, contribuì a sgretolare la solidità della lega e rappresentò per questo un notevole successo politico dell'imperatore. Anche Cremona, che aveva aderito alla lega, e Tortona stipularono di lì a poco paci separate, poi confermate a Venezia nel 1177. Alessandro III morì nel 1181. Una pace generale si raggiunse, come già detto, più tardi nel 1183, a Costanza.
In apparenza quindi Federico usciva sconfitto da questi avvenimenti, ma per certi versi la sua posizione si era fatta più forte di prima: conciliato con il papa, aveva rafforzato l'immagine sacrale dell'imperatore come protettore della Chiesa; in Germania la sua autorità fu rapidamente ripristinata con il processo e la condanna di Enrico II il Leone, che fu privato di tutti i possessi allodiali e feudali: la Sassonia e la Westfalia furono concesse all'arcivescovo di Colonia, il ducato di Baviera ai Wittelsbach (1180). La pace di Costanza risolse nel modo più onorevole possibile la questione dei rapporti di Federico con i Comuni italiani, riconoscendo di fatto le autonomie cittadine ma sotto forma del "privilegio" imperiale, che significava non solo un importante riconoscimento simbolico della superiore autorità dell'imperatore, ma anche un cospicuo corrispettivo di tributi annui alle sue casse.
Infine il matrimonio del figlio Enrico con Costanza d'Altavilla, figlia di Ruggero II e unica erede del trono siculo-normanno, celebrato nel 1186, fu un'altra grande vittoria politica e diplomatica dell'imperatore, che sembrò avviato a raggiungere, e, per giunta, per via pacifica, il lungamente sperato obiettivo di annessione dell'Italia meridionale all'impero. L'ultimo tentativo di affermazione imperiale nella vita di Federico fu rappresentato dalla sua partecipazione alla terza crociata, indetta da papa Clemente III, si concluse con la sua morte mentre attraversava il fiume Salef in Cilicia il 10 maggio del 1190.
Pubblicato il 07/12/2009
Bibliografia:
Giorgio D'Ilario, Egidio Gianazza, Augusto Marinoni, Legnano e la battaglia, Legnano, Edizioni Landoni, 1976;
F. Cardini, Il Barbarossa. Vita, trionfi e illusioni di Federico I imperatore, Milano, Mondadori, 1985;
L. Cernezzi, La battaglia di Legnano, Milano, E. Gualdoni, 1934;
P. Porro, La battaglia di Legnano, Varese, Tip. Ubicini, 1874;
P. Santarone, La battaglia di Legnano: dalla prima calata del Barbarossa alla vittoria di Legnano, Varese, Varesina grafica editrice, 1971;
L.A. Vassallo, La battaglia di Legnano, Genova, R. stab. Lavagnino, 1876;
A. Frediani, Le grandi Battaglie del Medioevo, Roma, Newton Compton, 2006