27 - 28 Maggio 1905
Con questa vittoria contro la flotta russa, il Giappone si afferma come nazione egemone dell'Asia Orientale e si impone all'attenzione mondiale come grande potenza militare.
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Dall'atmosfera di ipocrisie, invidie, ambizioni e adulazione, che caratterizzava la Flotta Imperiale Russa, emerse gigantesca la figura dell'ammiraglio Rozestvenskij. Nominato capo della Flotta di soccorso il 5 maggio 1904, senza che avesse ancora mai comandato una squadra, anch'egli si illudeva che la flotta russa fosse almeno al livello di quella giapponese, ma, dopo un esercitazione, e dopo i primi intoppi nella sua azione di comando, si rese conto della reale situazione.
Seppe, però, imporsi subito contro il nemico interno, la disorganizzazione e l'imperizia che regnavano nei cantieri navali russi: la sua flotta, anche se partita in ritardo, riuscì in un modo o nell'altro a navigare per 20.000 miglia, tra insidie e difficoltà, non esclusi l'ostilità della stampa internazionale e l'esplicito boicottaggio dei porti "neutrali". Ciò nonostante, dopo la sconfitta, finì per divenirne il capro espiatorio, coinvolto di riflesso nel processo contro l'ammiraglio Nebogatov responsabile della resa finale.
In realtà l'occidente non riusciva a farsi a una ragione della sconfitta di una potenza europea per mano di una nazione "inferiore", e così stampa e addetti militari continuarono ad interrogare ossessivamente Rozestvenskij sulle "vere" ragioni della sconfitta, arrivando anche ad offrirgli somme considerevoli per le sue memorie o rapporti riservati. L'Ammiraglio, che morirà poco meno di quattro anni dopo la battaglia, si astenne sempre da ogni commento, trincerandosi in ogni occasione dietro la stessa lapidaria risposta: «I Giapponesi colpivano e noi no». Nessun errore può essergli effettivamente imputato, qualora si considerino a fondo la situazione tattica e l'inferiorità tecnica della sua flotta, come infatti dovettero riconoscere anche i più implacabili critici militari.
Fronte rasata, due spade alla cintura, kimono e sandali, come tutti i rampolli della bellicosa stirpe dei Satsuma, Togo vide le prime navi dalla torre di qualche antico castello del Giappone, ancora arroccato nel Medioevo. Quando il Tenno (l'Imperatore) decise di approntare una flotta, il giovane Heinachiro si recò ad apprendere l'arte della navigazione militare presso la migliore Marina Militare del mondo: la Royal Navy.
Viceammiraglio nel 1900, comandante in capo della flotta del 1905, a Tsushima non concesse tregua ai Russi (arrivando perfino a ritardare il soccorso ai naufraghi e a proseguire il bombardamento su navi già arrese), ma dopo la battaglia tenne un nobile e generoso comportamento verso lo sfortunato Rozestvenskij e i numerosi prigionieri russi. La sua strabiliante efficienza (l'appuntamento del "T" con la flotta russa non coincise per soli 2 minuti!) era il risultato della combinazione dello spirito combattivo tipico del bushido (il codice d'onore militare giapponese) e di una fredda determinazione: analogamente, il suo Paese aveva saputo far convivere, e anzi esaltare a vicenda, Medioevo e Progresso, riuscendo a superare d'un balzo lo svantaggio tecnologico iniziale, e raggiungendo così risultati brillantissimi, tanto da gettare nello sgomento il mondo occidentale.
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Tutto il complesso sistema di regole su cui si fondava l'ordinata ed immobile società feudale giapponese crollò d'un tratto, nel 1868, con la modernizzazione forzata imposta dall'imperatore Mutsu-Hito, che rovesciò il potere personale dello shogun, ridusse i feudatari daymio a semplici prefetti delle provincie ed arruolò i samurai tra gli ufficiali dell'esercito. Il progresso comprese anche la concessione (nel 1889) di una Costituzione di tipo europeo e l'abolizione delle caste. Infine l'imperatore si apprestò a dar vita a una potente Marina militare.
I giovani ufficiali giapponesi appresero tutti i concetti della guerra moderna nelle Accademie militari e navali dell'Occidente; ingegneri, tecnici e scienziati si formarono all'estero con una rapidità inverosimile e l'industria, altrettanto rapidamente, fornì risorse per mettere in pratica gli ultimi ritrovati della tecnica. Era nato il Meiji, l'"età illuminata".
La società nipponica diede prova di una stupefacente agilità culturale e superò con un balzo fulmineo i tre secoli che la separavano da quella europea, pur conservando la tradizionale disciplina e la laboriosa frugalità che avevano caratterizzato il periodo shogunale. Quanto più convinto era il suo stato di isolamento dal resto del mondo nei secoli precedenti, tanto più rapidamente ora il Giappone cominciò ad imporre la propria volontà di espansione territoriale e militare. Il torto degli occidentali, e in particolare degli Europei, fu quello di non prendere sul serio, o almeno di non comprendere fin dalle prime mosse, la potenzialità aggressiva del rinato Stato asiatico.
La rivoluzione, o meglio, l'esplosione del Meiji non aveva ancora compiuto trent'anni che già il Giappone muoveva guerra al più grande, vecchio e malato impero dell'Asia: la Cina. L'obiettivo primario era il possesso della Corea, che formalmente era un regno vassallo della Cina. Disordini interni scoppiati nel 1894 fecero intervenire nella penisola coreana un corpo di spedizione cinese ed uno nipponico, ma il rifiuto dei Giapponesi di tornare in patria dopo la cessazione delle violenze, fu la miccia che fece detonare il conflitto.
Un solo mese di guerra vide la Cina soccombere nella battaglia terrestre di Phyong-Yang ed in quella navale dello Yalu; il diktat imposto agli sconfitti fu particolarmente umiliante: Formosa, le isole Pescadores e la penisola di Liao Tung furono cedute al Giappone; la Corea, rimasta indipendente, passò sotto il protettorato giapponese. La decrepita Cina, naturalmente, non era oggetto degli appetiti soltanto nipponici, ma anche di quelli occidentali, che per di più non accettavano nessuna forma di concorrenza. Russia, Francia e Germania, imposero la revisione del trattato di Schimonoseki e la restituzione della penisola di Liao-Tung.
Successivamente lo Zar Nicola II, in cambio dei suoi "buoni uffici", ottenne dalla Cina l'autorizzazione a proseguire la costruzione della ferrovia Transiberiana, attraverso la Manciuria cinese, fino a Vladivostok, oltre alla concessione in affitto di Port Arthur. Le proteste dell'Inghilterra vennero tacitate con la concessione in affitto, a condizioni identiche a quelle accordate alla Russia, del porto di Wei-hau-Wei sulla penisola di Shan-Tung, che si erge di fronte a Port Arthur. Era l'avvio del cosiddetto break up of China (la "spartizione della Cina"), che in pochi anni avrebbe annullato l'indipendenza di quell'Impero e dalla quale il Giappone fu accuratamente tenuto fuori. Mutsu-Hito dovette accettare questa esclusione poiché la sua Marina da guerra non disponeva ancora né delle potenti navi da battaglia né degli incrociatori corazzati a disposizione degli Europei. Ma a ciò avrebbe ben presto rimediato: tra il 1894 e il 1903 la lacuna era completamente colmata.
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Nel 1900 la "società di giustizia e di concordia", conosciuta in europa per un'erronea traduzione come società dei "Boxer", scatenò in Cina una rivolta xenofoba sostenuta, quasi apertamente, dalle autorità cinesi. Le potenze occidentali, fra cui l'Italia, intervennero militarmente, costringendo l'Imperatrice madre a sottoscrivere nuove concessioni.
Sedata la rivolta, tutte le potenze rilevarono i propri corpi di spedizione, tranne la Russia che, anzi, occupò la Manciuria e sconfinò a sud verso la Corea, suscitando le proteste degli inglesi e degli americani. Tokio inviò a San Pietroburgo una dura nota diplomatica, in risposta alla quale lo Zar ribadiva con ostentato disprezzo l'intenzione di non abbandonare la Manciuria, proponendo al Giappone la spartizione della Corea lungo il 39° parallelo.
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Una cosa i Giapponesi non hanno mai appreso dagli occidentali: il complesso rituale, scandito da preliminari contatti tecnici d'ambasciata, che per consuetudine precede ogni dichiarazione ufficiale di guerra. Anzi, per essere precisi, hanno sempre adottato nella loro storia la barbara, ma efficace prassi di scatenare un attacco micidiale prima di dichiarare guerra.
Non si può imputare al governo dello Zar la leggerezza di non aver previsto una tale mancanza di bon ton nella diplomazia del Sol Levante, né ai militari la colpa di essersi fatti cogliere impreparati: all'uno e agli altri si può invece rimproverare l'incosciente sicurezza ed il facile ottimismo con cui affrontarono il conflitto: un complesso di onnipotenza a cui l'imperialismo e il colonialismo avevano educato gli Europei, convinti dell'eccellenza dei propri sistemi militari e della superiorità dell'uomo bianco su tutte le razze.
Si trattava di un pregiudizio duro a morire, se ancora nel 1940 gli stati maggiori Britannici in Oriente erano convinti in buona fede di poter facilmente annientare gli occhialuti e gracili soldati nipponici che avevano osato insidiare il loro impero. La controproposta del Giappone, non troppo diplomatica, alla sprezzante offerta russa, consistette nella attacco navale a Port Arthur, pochi minuti dopo la mezzanotte dell'8 febbraio 1904.
Nella base navale russa erano alla fonda 7 corazzate e 6 incrociatori, oltre a numerose unità minori: in 24 ore, la squadra navale di Togo aveva danneggiato 3 corazzate e 4 incrociatori, senza lamentare perdite, e aveva realizzato, immediatamente dopo, un potente blocco navale. L'opinione pubblica russa mostrò due reazioni, altrettanto violente ma del tutto contrastanti: da un lato, migliaia di persone scesero in piazza chiedendo vendetta; dall'altro ci furono imponenti manifestazioni contro il conflitto, che costituirono in qualche modo gli embrioni della futura rivoluzione d'Ottobre.
Lo stato maggiore russo si trovava a dover condurre una guerra decentrata migliaia di chilometri, tentando da una parte di liberare la flotta di Port Arthur dal blocco giapponese, dall'altra di portare aiuto all'esercito in Manciuria e in Corea, dove, nel frattempo, erano sbarcati i giapponesi del generale Kuroki. Ad aggravare la situazione, la crisi economica e politica che dilaniava il paese rendeva il popolo sempre meno solidale con lo Zar. Il mondo intero grazie a i corrispondenti di guerra, cominciò a familiarizzare con nomi quali Yalu, Nanshan, Liao Yang.
Le armate russe continuavano sistematicamente a perdere terreno e il 2 gennaio 1905 Port Arthur, assediata dalla terra e dal mare, cessava la resistenza. Circa tre mesi dopo, la 1a Armata Kuropaktin venne annientata a Mukden, in Manciuria, dai Giapponesi di Oyama nel corso della più gigantesca battaglia campale. Dei 380.000 Russi con un migliaio di cannoni, 30.000 furono uccisi, 40.000 feriti e altri 40.000 fatti prigionieri. Ma quando Port Arthur era ancora in mano ai russi, lo Zar, per rinsaldare il suo prestigio sempre più appannato, anelava ad una vittoria smagliante: raggiungere Port Arthur con una strabiliante spedizione navale che, salpata dal Baltico, distruggesse la flotta giapponese dopo 20.000 miglia di navigazione, gli avrebbe fornito il risultato propagandistico desiderato. Il comando della lunga spedizione navale, preceduta da un'efficace campagna di stampa, fu affidato al viceammiraglio Zinovij Petrovic Rozestvenskij, un eccellente marinaio.
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Tra le navi giapponesi in azione a Tsushima ve ne erano alcune frutto del genio cantieristico italiano che proprio in quegli anni aveva iniziato a "farsi un nome". La Kasuga e la Nisshin, due incrociatori corazzati, erano infatti della classe "Garibaldi", progettata e costruita in Italia dalla Ansaldo di Genova-Sestri a partire dal 1898.
Queste navi disponevano di una buona protezione, dislocamento di 7750/7822 t, due torrette con un cannone da 254 mm o due da 203 mm, quattordici cannoni da 152 mm, dieci da 76 mm, sei da 47 mm, due mitragliere Maxim MG e quattro tubi lanciasiluri da 450mm. Gli incrociatori corazzati vennero sviluppati dalla Russia, intorno agli anni Settanta-Ottanta. Ebbero subito un successo travolgente. Concepiti per lunghe crociere corsare, a questo tipo di navi si richiedeva una velocità sufficiente a sfuggire alle corazzate, ma corazzatura ed armamento superiori rispetto a qualsiasi altra nave militare dell'epoca.
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La flotta russa era accreditata come la quinta del mondo, seguita subito dopo da quella nipponica, ma soffriva di alcuni gravi difetti: anzitutto, le navi erano difficilmente inquadrabili in formazione, data la disomogeneità degli armamenti e del munizionamento, oltre che della manovrabilità; in secondo luogo, la corruzione di industriali e militari aveva avuto come conseguenza gravi carenze strutturali, armamentali e logistiche; infine, le ciurme e gli ufficiali, tranne rare eccezioni, erano impreparati: la grande massa dei marinai era costituita dai mugik, tenaci e disciplinati ma assolutamente non in grado di eseguire manutenzione ordinaria anche degli apparati più semplici; gli ufficiali erano generalmente poco competenti e, comunque, invisi ai loro uomini.
Composta di 7 corazzate (4 delle quali neppure collaudate), 2 incrociatori corazzati, 6 leggeri e 9 caccia, la flotta di Rozestvenskij partiva per la più imponente operazione navale della storia senza alcuna probabilità di successo, neppure sulla carta, poiché fin dall'inizio era evidente che, dopo una navigazione di sette mesi, uomini e macchinari sarebbero stati esausti: le caldaie avrebbero fornito una potenza ridotta e le incrostazioni sotto gli scafi avrebbero diminuito la velocità potenziale della flotta.
Inoltre il fattore sorpresa sarebbe mancato del tutto: per conoscere ogni mossa del nemico, e attenderlo dove e quando avesse fatto loro più comodo, ai Giapponesi sarebbe bastato semplicemente leggere i giornali. A causa della distanza, poi, la spedizione avrebbe richiesto un'organizzazione logistica molto onerosa per i Russi (rifornimento di carbone per le navi a vapore, ognuna delle quali aveva un'autonomia massima di 10 giorni, scorte di viveri e acqua), mentre i Giapponesi combattevano a poche miglia dai loro porti. Gli armamenti superati, la scarsità dei pezzi di ricambio e l'inadeguatezza del servizio sanitario di bordo, impotente di fronte a tifo e ad enterite che i climi caldi avrebbero scatenato fra gli equipaggi, avrebbero ridotto ancora di molto la potenzialità bellica dei Russi.
Infine occorre ricordare la quasi totale assenza di efficienti apparati radiotelegrafici sulla flotta russa, al contrario della nemica.
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A Tsushima i Giapponesi impiegarono, per la prima volta, un particolare esplosivo frutto della combinazione del tradizionale shimose con un nuovo prodotto brevettato da un americano. Per i russi avrebbe costituito una amara sorpresa: i colpi dei giapponesi esplodevano sulle corazze delle loro navi senza riuscire a penetrarle, ma producevano uno spostamento d'aria tale da ottenerne lo "scollamento" dello scafo.
L'acqua, allora, penetrava nei punti scalzati rallentando ancor di più le loro già sovraccariche navi, mentre le enormi temperature liberate dall'esplosivo producevano un gas verde-giallo che permetteva ai giapponesi di apprezzare se il colpo tirato fosse o meno a bersaglio e, quindi, di correggere il tiro con rapidità e facilità.
Ai Russi, invece, che usavano ogive di ghisa ed esplosivi senza fumo, riusciva difficilissimo apprezzare il tiro e, anche quando lo avessero centrato, penetrare le corazze avversarie. L'ammiraglia giapponese Mikasa a fine battaglia avrebbe contato 30 colpi incassati e nessuna falla. Le restanti navi giapponesi incassarono complessivamente ben 138 colpi solo dai calibro 305 russi, ma nessuna venne affondata.
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Compattezza, velocità e potenza in battaglia, hanno sempre prevalso sul numero, ma a Rozestvenskij fu imposto di condurre con sé anche navi vecchie, lente e prive ormai di valore bellico. Riuniti nella squadra di Nebogatov e accorporati a quella di Folkersham, il quale morì pochi giorni prima della battaglia, i "ferri da stiro", seguendo una rotta diversa da quella di Rozestvenskij, sarebero entrati nel Mediterraneo per attraversare il canale di Suez, evitando di circumnavigare l'Africa. Comprese queste "vecchie bagnarole", la flotta di Rozestvenskij contava 37 unità.
Partite il 15 ottobre 1904, le squadre di Folkersham e Rozestvenskij si separarono all'altezza di Gibilterra (Folkersham si diresse verso il Mediterraneo per attraversare il canale di Suez e Rozestvenskij continuò nell’Atlantico circumnavigando l'Africa) e dovevano riunirsi presso l'isola Saint Marie nel Madagascar (allora possedimento francese). Qui, nella baia di Diego Suarez (attuale Antsiranana punta a Nord-Est del Madagascar), era previsto il rifornimento di carbone e alcune riparazioni. Le autorità francesi, però, negarono l'autorizzazione ed imposero la sosta nella baia di Nosy Be, nella parte Nord-Ovest del Madagascar, meno adatta ad ospitare una flotta da guerra. La flotta giunse così nella baia nei primi di gennaio del 1905. Contrasti diplomatici bloccarono i rifornimenti di carbone previsti (con la società tedesca Hamburg-Amerika Linie) e costrinsero la flotta ad una sosta ben più lunga del previsto.
Alla flotta era stato ordinato di rompere il blocco navale di Port Arthur, ma al largo della costa africana, la flotta venne a conoscenza del fatto che Port Arthur era alla fine caduta, per cui la nuova base, dopo il ricongiungimento con Negobatov, sarebbe stato il porto di Vladivostok, unica base rimasta del Pacifico, per la necessaria messa a punto delle navi prima della liberazione di Port Arthur. La flotta di Negobatov, più lenta, procedette ad oriente dopo l'uscita dal Mar Rosso e si ricongiunse con le altre due davanti a Singapore. I mesi di ritardo risulteranno fatali per la riuscita della missione, infatti i Giapponesi ebbero il tempo di riportare in piena efficienza le loro navi. Il primo obiettivo della flotta russa era non farsi scoprire dai giapponesi fino a Vladivostok. Per alcuni giorni i Giapponesi, che la pedinavano da lontano, persero di vista la flotta russa, ma alle 2 del mattino del 27 maggio, il mercantile armato Shinano Maru, avvistata la flotta in rotta verso Vladivostok, avvertì l'Ammiraglio Togo.
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Togo manovrò per intercettare la flotta russa non appena si fosse inoltrata nel canale di Corea, tra le isole Tsushima e Okishima. Il suo piano prevedeva di bloccare la testa della linea russa con la sua squadra e quella di Kamimura, mentre altre due divisioni navali, provenienti dal Giappone, avrebbero bloccato la coda. La scelta tattica di Togo fu il taglio della "T", operazione contemplata dai manuali di qualunque Accademia navale, che consiste nello sbarrare la via ad una flotta che procede in linea di fila con uno schieramento ad essa perpendicolare proprio come il tratto superiore della T.
In questa posizione, mantenendosi ad una opportuna distanza media per evitare lo speronamento, si può sparare con tutte le artiglierie, mentre chi avanza può fare fuoco soltanto con le torri prodiere delle prime navi. Con il taglio della "T", quindi, i Russi sarebbero stati privati del loro unico vantaggio: il maggior numero di cannoni da 305 mm. I sommergibili giapponesi e gli incrociatori ausiliari (in sostanza mercantili poco o per nulla armati) delle due parti non intervennero nella battaglia e alle torpediniere nipponiche furono affidate l'esplorazione e il colpo di grazia ad unità già agonizzanti.
Questo il conto delle forze in campo:
Tipo nave |
Russe |
Giapponesi |
Corazzate |
8 |
4 |
Guardacoste |
3 |
1 |
Incrociatori corazzati |
3 |
11 |
Incrociatori leggeri |
6 |
12 |
Cacciatorpediniere |
12 |
20 |
Torpediniere |
- |
70 |
Navi ausiliarie(disarmate) |
5 |
10 |
Sommergibili |
- |
13 |
Totali |
37 |
142 |
Tonnellate |
206.300 |
289.000 |
Rozestvenskij era imbarcato sulla corazzata Suvorov, Togo sulla corazzata Mikasa. Alle 10:20 del 27 maggio le navi russe procedevano in rotta per Vladivostok, suddivise in tre divisioni e su due file parallele. Omettendo, per chiarezza, l'indicazione del naviglio minore, eccone la disposizione: in testa Rozestvenskij con 4 corazzate (Suvorov, Aleksandr III, Borodino, Orel); a seguire tre lente corazzate ed un incrociatore (Osljabja, Sissoj Velikij, Navarin, Adm. Nachimov), poi la squadra di Folkersham, la cui morte era stata tenuta nascosta agli equipaggi; in coda Negobatov sulla vetusta corazzata Nicolaj I con tre antidiluviani "guardiacoste" corazzati, aggiuntisi alla flotta in un secondo momento.
Una quarta divisione, che raccoglieva vari incrociatori, era in posizione più arretrata e parallela di bordo alla divisione Negobatov, con il compito di scortare le navi ausiliarie e logistiche che erano ancora più ad est. Togo, proveniente dalla Corea rotta sud-est, aveva 4 corazzate con se (Mikasa, Asahi, Fuji, Shikishima) e i 2 incrociatori di produzione italiana (Kasuga, Nishin). Da sud, la squadra "Kataoka", con 8 incrociatori, composta dalle divisioni di Uriu e Dewa, affiancava ormai la linea russa, mentre Kamimura proveniva da est con altri 6 incrociatori.
Il contatto visivo era stato stabilito alle ore 09:30. Subito gli equipaggi di entrambe le flotte indossarono biancheria e uniformi pulite, per limitare il rischio di infettare le ferite. Alle 11:30, partì il primo colpo dei Russi contro gli incrociatori giapponesi alla loro sinistra, che si sganciarono subito. Alle 12:00 il rancio: gli ufficiali russi brindarono per l'anniversario dell'incoronazione della coppia imperiale, mentre altrettanto facevano quelli giapponesi per il genetliaco della loro imperatrice.
Poco dopo riapparvero improvvisamente, con rotta ortogonale ai russi, gli incrociatori di Dewa, accompagnati da numerosi cacciatorpediniere. Rozestvenskij accostò (ovvero, cambiò direzione) intendendo prepararsi a respingere l'attacco silurante, ma la Alexandr III non capì l'ordine o comunque lo eseguì male, cosicché le navi russe si scompaginarono su tre colonne e, per riassumere la linea di fila, avrebbero dovuto impiegare almeno un'altra ora. Intanto gli "esploratori" raggiunsero le navi onerarie russe per dirigerle lontano dalla battaglia.
Togo, accortosi di essere in anticipo per effettuare l'esecuzione del taglio della "T", ordinò alla propria squadra una manovra di accostamento, che disegnasse una "alfa" per allontanarsi momentaneamente verso nord. Togo calcolava perfettamente che le navi russe, non ancora in linea, erano troppo lente per effettuare a loro volta il taglio della "T" sul punto d'uscita dell'"alfa" giapponese. Appena Togo iniziò ad allontanarsi, la Suvorov aprì il fuoco, incredibilmente senza ottenere risultati fino al termine della manovra giapponese. Al punto di uscita dell'"alfa", la Mikasa rilevò a 7.000 metri al nemico, seguita dalla Shikishima e poi dalla Fuji, mentre la flotta russa non era ancora allineata!
Lo scontro tra le corazzate, le più potenti armi che la tecnologia avesse mai creato, ebbe inizio alle 14:08. La Mikasa attese che la Suvorov giungesse alla distanza di 6.000 metri per risponderle al fuoco. Shikishima e Fuji invece bombardarono la Orel. Il duello dei "leviatani" (i mostri acquatici della tradizione biblica) era cominciato.
Alle 14:27 la Mikasa aveva incassato 10 colpi da 305 senza accusare danni. I Russi, pur tentando di ribaltare la "T", constatavano la loro lentezza rispetto ai Giapponesi. Dopo circa 30 minuti dal primo colpo, le navi giapponesi erano sulle corazzate russe, in testa alla formazione. Ciascun proiettile giapponese da 305 aveva una potenza doppia del suo equivalente russo, ma fu una nave giapponese, la Asama, a dover abbandonare per prima la lotta, seguita dalla russa Osljabja, che aveva perso il timone. Rozestvenskij, saggiamente, mantenne la rotta per non perdere l'aggiustamento del tiro dei cannoni. Alle 14:50 la Osljabja è un rottame incendiato e la Suvorov si trova sotto il tiro concentrato di 4 corazzate: combatterà fino a che potrà manovrare, poi, rimasta senza timone, cercherà di accodarsi alla disordinata linea di fila russa, ora condotta dalla Aleksandr III, che improvvisamente si dirige a tutto vapore (10 nodi) verso Nord, puntando sulla coda della flotta giapponese, con al seguito le navi superstiti. Le navi da battaglia russe navigano, dunque, di nuovo verso Vladivostok, e Togo è costretto a invertire la rotta, perdendo prima il contatto balistico e quindi quello visivo con la flotta russa.
Gli incrociatori di Kamimura, filando a 16 nodi, ben presto sono di nuovo davanti alla Aleksandr III, in perfetta linea con le bocche da fuoco convergenti. Alle 16:30 la Suvorov ancora sparava, con un solo cannone da 76 mm; Rozestvenskij, ferito quattro volte, fu trasbordato per due volte, prima di essere fatto prigioniero. La Suvorov venne, infine, silurata. Intanto, si inabissava la Aleksandr III, in seguito ad un'esplosione a bordo, affondando di poppa con l'intero equipaggio di 829 uomini, compreso il comandante Buchvostov, il quale, del resto, aveva brindato alla morte già prima di partire. Sulla Orel, ormai preda delle fiamme, 200 feriti sul ponte furono gettati a mare perché morissero tra le onde piuttosto che bruciati a bordo. Ad una ad una, dunque, le grandi navi russe uscivano dalla linea di battaglia e andavano a morire come animali solitari. Alle 19:30, infine, il crepuscolo fu squarciato da un lampo e da una deflagrazione assordante: la Borodino saltava in aria (ci sarebbe stato un solo superstite).
Mentre si svolgeva questo dramma, poco più a sud 9 incrociatori russi rispondevano alle 17 navi giapponesi che infierivano sulle navi onerarie, lente e disarmate. I giapponesi, in questo episodio, non riuscirono ad imporre la loro supremazia poiché il munizionamento impiegato era ancora quello di tipo tradizionale. Per affondare due onerarie, un incrociatore leggero e catturare una nave ospedale, essi dovettero pagare un prezzo altissimo: la Kasagi, la Chitose e il Takachico dovettero abbandonare il combattimento. Inoltre con il sopraggiungere della divisione "pesante" di Nebogatov, che nel frattempo aveva accostato verso sud, anche il Matsushima fu colpito, così tutte le divisioni "levriere" giapponesi fuggirono verso levante. Paradossalmente, al calare delle tenebre, l'unica squadra rimasta era quella dei "ferri da stiro" di Nebogatov, che inizialmente teneva la posizione di coda nella linea da battaglia russa e che ora poté raccogliere intorno a se alcuni caccia e incrociatori superstiti. Sarebbero riusciti i Russi ad attraversare quel braccio di mare interrompendo il contatto e facendo perdere le loro tracce al nemico?
Con gli ultimi raggi radenti del sole le forze di Togo sembrarono ritirarsi e l'ultimo ammiraglio russo innalzò il segnale "seguitemi". Nebogatov aveva adesso la responsabilità di tutta la flotta, ma con la notte giunsero gli attacchi delle torpediniere giapponesi, che silurarono altre sei unità. Alcune di queste colarono a picco immediatamente, altre, immobilizzate, si autoaffondarono. Al mattino seguente Nebogatov, sulla plancia della sua vecchia corazzata Nikolaj I, contava intorno a se soltanto sette unità russe, tutte già martoriate e ferite. Sull'orizzonte, che andava schiarendosi sempre più, si stagliava il profilo della flotta nipponica, che durante la notte aveva sopravanzato il nemico ed ora lo attendeva per finirlo. Nebogatov, a questo punto, fece alzare sulla Nikolaj I il segnale internazionale XHG, che significa "mi arrendo". Egli era cosciente che questa decisione avrebbe comportato la condanna a morte per viltà inflittagli dalla corte marziale, ma il suo consapevole sacrificio personale intendeva risparmiare alle fiamme o alle onde alcune centinaia di uomini. Poiché Togo, diffidente, faceva continuare il fuoco, sulla Nikolaj I venne issata la bandiera del Sol Levante, ma l'ammiraglio giapponese seguitava a far sparare le proprie navi.
Il capo del suo Stato Maggiore, il contrammiraglio Kato, allora non si trattenne più e gli disse: «Signor ammiraglio, quello che lei fa è contrario allo spirito del Bushido». Togo lo guardò come uscito da un sogno, e, passandosi una mano sugli occhi, ordinò di cessare il fuoco. I comandanti russi che seguirono l'esempio di Nebogatov furono soltanto tre: altri quattro tentarono di fuggire pur di non arrendersi e l'ultimo di questi si inabissò con il suo Ushakov a mezzogiorno. Perché la flotta russa fosse annientata erano state necessarie 31 ore.
Delle 37 navi russe 22 erano state affondate, 6 si erano fatte internare in porti neutrali, altre 6 si erano arrese e soltanto 3 avevano raggiunto Vladivostok. I morti nella sola battaglia furono 4.505. I Giapponesi, oltre alle navi danneggiate, persero tre torpediniere ed accusarono la perdita di 177 morti e 282 feriti. Togo in visita a Rozestvenskij, ricoverato all'ospedale di Tokyo, ascoltò da lui queste parole: «Dio non mi ha concesso di morire in battaglia» e gli mormorò all'orecchio: «Capisco la vostra amarezza».
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Dopo Tsushima, il Giappone dominava l'Asia orientale, ma il pubblico mondiale e ancor più, la diplomazia erano costernati. Pochi giorni dopo la battaglia, in Russia si sarebbe scatenato l'ammutinamento della corazzata Potemkin. Chi avrebbe, allora, potuto arginare l'espansione giapponese, tanto più che l'esercito russo, tra l'altro, era ormai allo sbando "rivoluzionario".
Inghilterra e USA costituirono un castello di azioni diplomatiche e propagandarono il concetto che nessuno dovesse calpestare i diritti della Cina, mentre lo Zar, offeso dalle richieste nipponiche, ordinò la mobilitazione in tredici province del suo sterminato impero. Si giunse così a imporre una pace che al Giappone suonò come una grottesca truffa.
Quando il popolo insorse, l'Imperatore rivelò con un proclama pubblico, la verità sulla situazione dell'Impero: il Giappone aveva perso 500.000 uomini, la sua economia era in rovina ed il suo debito alle stelle. Il popolo allora capì, tacque, lavorò, attese. Ma non avrebbe mai dimenticato quella pace: Pearl Harbour e Singapore sarebbero stati gli amari frutti raccolti da Stati Uniti e Gran Bretagna.
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C'era un solo modo per vincere: non appena giunto nelle acque del Madagascar, Rozestvenskij aveva mandato a chiedere allo Zar di utilizzare la flotta come mezzo di pressione per ottenere le migliori condizioni possibili di pace. Egli aveva ben presente, quindi, che anche se fosse riuscito a raggiungere la meta, Vladivostok, null'altro sarebbe accaduto che un nuovo blocco giapponese dal mare, così come per Port Arthur.
I Giapponesi avrebbero minato tutte le uscite del porto e logorato poco a poco le sue già misere scorte; d'altro lato, la Ferrovia Transiberiana non avrebbe mai potuto trasportare i materiali necessari per raddobbi e, al tempo stesso, per l'esercito di terra. Un'eventuale vittoria russa a Tsushima, quindi, non avrebbe potuto essere sfruttata né su un piano politico-diplomatico, né su un piano strategico.
TSUSHIMA
La ventata rivoluzionaria che sconvolse la Russia nel 1905 ebbe tra gli equipaggi della flotta del Mar Nero uno dei suoi punti di forza. Molti di quegli uomini, sconvolti anche per il "tradimento" di Tsushima, si unirono alle dimostrazioni degli operai di Odessa e presto ne condivisero motivi e parola d'ordine. Sulla Kniaz Potemkin Tavricevsky l'equipaggio insorse per un rancio verminoso. Alla spietata e ingiustificata risposta dell'ufficiale in seconda, fucilazione dei responsabili della sommossa, l'equipaggio issò "bandiera rossa" e fece rotta su Odessa per unirsi ai rivoltosi. Ma dell'intera flotta una sola nave si unì alla rivolta, mentre le altre inaugurarono subito la caccia agli ammutinati.
Alla Potemkin non restò che rifugiarsi nelle acque rumene, dove si autoaffondò, e dalle quali verrà recuperata nel Luglio successivo. La nave fu ribattezzata Panteleimon ("cafone", "zotico"), con chiaro intento dispregiativo. I 600 uomini dell'equipaggio si dispersero in Romania. I pochi che tornarono in patria per arrendersi vennero trattati con clemenza. Tempo dopo altre rivolte di marinai vi furono a Sebastopoli e a Kronstandt, ma tutto fu soffocato nel sangue.
Pubblicato il 26/06/2009