23 agosto 1942 – 2 febbraio 1943
(parte III) La vittoria sovietica
Con una gigantesca manovra a tenaglia, l'Operazione Uranus, ha inizio la fase decisiva nella battaglia di Stalingrado. La grande offensiva di accerchiamento sferrata dall'Armata Rossa per intrappolare le forze della Wehrmacht segna la svolta strategica irreversibile a favore dell'Unione Sovietica. Poi il successo dell'Operazione Piccolo Saturno decretò definitivamente il fallimento dei piani tedeschi, l'Operazione Tempesta invernale, per liberare le forze intrappolate a Stalingrado. La lunga battaglia volgeva ormai al termine con esiti disastrosi per le armate tedesche.
A cura di Giuseppe Bufardeci
STALINGRADO
Dal quartier generale di Hitler di Rastenburg. (Commento ironico ai vaghi sospetti del servizio d’informazioni della 6a armata che sia a nord che a sud di Stalingrado si stiano concentrando truppe nemiche).
Il piano per una grande controffensiva contro la 6a armata, considerando la disastrosa impazienza di Stalin dell’estate precedente, aveva avuto una gestazione piuttosto lunga.
Il 12 settembre, Stalin disse ai generali Vasilevskij (capo di Stato Maggiore generale) e Žukov: “Andate allo Stato Maggiore generale e riflettete molto attentamente su quello che si dovrebbe fare a Stalingrado”.
Tornarono la sera successiva, colti di sorpresa da una borghese stretta di mano di Stalin. “Bene, che cosa avete escogitato?” chiese. “Chi riferisce?” “Entrambi” rispose Vasilevskij. “Siamo dello stesso parere”.
La città di Stalingrado, sostennero, doveva essere tenuta con una battaglia di logoramento, con truppe sufficienti a tenere in piedi le difese. Non si dovevano sprecare formazioni in attacchi minori, a meno che non fosse assolutamente necessario distogliere il nemico dalla conquista dell’intera sponda occidentale del Volga. Poi mentre i tedeschi si concentravano interamente sulla conquista della città, lo STAVKA avrebbe riunito in segreto armate fresche dietro le linee in vista di un grande accerchiamento, effettuando attacchi in profondità.
All’inizio Stalin non manifestò un grande entusiasmo. Temeva si potesse perdere Stalingrado e subire così l’ennesima umiliazione, ma alla fine capì i vantaggi di quell’operazione molto più ambiziosa.
Al contrario di Hitler, Stalin non aveva remore ideologiche. Dopo i disastri del 1941, non gli ripugnava affatto riprendere l’odiato pensiero militare degli anni venti e dei primi anni trenta. La teoria delle “operazioni in profondità” con “armate d’assalto” meccanizzate per annientare il nemico non doveva più essere considerata eretica. Diede il suo pieno appoggio e raccomandò la massima segretezza. “Oltre a noi tre nessuno per il momento deve venirlo a sapere”. L’offensiva sarebbe stata chiamata operazione Uranus.
La vittoria ha sempre molti padri, così la paternità della vittoria di Stalingrado fu rivendicata da molti, ma in realtà fu il frutto della collaborazione straordinaria tra Stalin, Vasilevskij e Žukov, ciascuno dotato a modo suo di talento.
Žukov non voleva ripetere gli errori di attacchi a nord di Stalingrado con truppe poco addestrate, perciò formò e mandò divisioni di riserva d’armata in zone relativamente tranquille del fronte per un addestramento sotto il fuoco. Questo aveva inoltre il vantaggio non intenzionale di confondere i servizi d’informazione tedeschi. Il colonnello Gehlen, il capo molto abile, ma sopravvalutato, dell’intelligence dell’esercito dell’Ostfront, sospettava che i sovietici stessero preparando un’offensiva diversiva contro il gruppo di armate di Centro.
Segreto assoluto e piani diversivi erano fondamentali per nascondere i preparativi, ma l’Armata Rossa aveva altri due vantaggi, ancora più efficaci, a suo favore. Il primo era che Hitler si rifiutava di credere che l’Unione Sovietica avesse armate di riserva, tantomeno le grosse formazioni corazzate necessarie alle operazioni in profondità. Il secondo pregiudizio tedesco era ancora più utile ai sovietici, anche se Žukov non volle mai riconoscerlo. Tutti gli attacchi inefficaci lanciati contro il XIV Panzerkorps sul fianco settentrionale vicino a Stalingrado, avevano fatto apparire l’Armata Rossa incapace di organizzare un’offensiva pericolosa nella regione, e meno che mai un rapido e massiccio accerchiamento dell’intera 6a armata.
Durante l’estate, il generale Halder aveva detto ad Hitler che l’Unione Sovietica produceva 1.200 carri armati al mese, mentre la Germania 500. Hitler aveva risposto che era semplicemente impossibile. Eppure quella cifra era lontana dalla realtà. Nel 1942 la produzione sovietica di carri era cresciuta da 11.000 durante i primi sei mesi a 13.600 durante la seconda metà dell’anno, a una media di 2.200 carri al mese. Anche la produzione di velivoli era passata negli stessi periodi dell’anno da 9.600 a 15.800. Il solo suggerimento che l’Unione Sovietica, priva delle zone più importanti, potesse produrre più del Reich, riempiva Hitler di rabbia e incredulità. I leader nazisti si erano sempre rifiutati di riconoscere il sentimento patriottico russo. Sottovalutavano inoltre l’implacabile programma di evacuazione dell’industria e la militarizzazione della mano d’opera. Più di 1.500 industrie erano state smontate e riassemblate a est del Volga, in particolare negli Urali. Fu il grande sacrificio della popolazione, forzoso e volontario, ma con risultati impressionanti.
In un periodo in cui Hitler rifiutava di impiegare donne e bambini nell’industria, la produzione sovietica dipendeva dalla mobilitazione di massa di madri e figlie. Esse credevano appassionatamente in quello che facevano per aiutare i loro uomini al fronte.
L’aiuto alleato, per motivi di propaganda, non è citato molto spesso nei resoconti sovietici, ma il contributo al mantenimento della capacità di combattimento dell’Armata Rossa nell’autunno del 1942 non deve essere sottovalutato. I veicoli americani, specialmente jeep Willys e camion Ford Studebaker e i viveri, dal grano alla carne in scatola, aiutarono enormemente, anche se non fu riconosciuto, la capacità di resistenza dell’Unione Sovietica.
Žukov voleva i comandanti adatti in una guerra meccanizzata. Convinse Stalin a nominare il generale Konstantin Rokossovskij, comandante del fronte del Don che si allungava dall’estremità settentrionale di Stalingrado verso ovest fino a Kletskja, poco al di là della grande ansa del fiume. Nello stesso tempo il generale Nikolai Vatunin assunse il comando del nuovo fronte del sud occidentale sul fianco destro di Rokossovskij, di fronte alla 3a armata rumena.
Il 17 ottobre in una fascia di 25 chilometri dalla linea del fronte fu ordinato lo sgombero di tutti i civili. Fu un’operazione notevole, dal momento che essi avrebbero portato via tutto il cibo e bestiame. Oltre ai motivi di sicurezza i militari volevano avere la possibilità di nascondere le truppe nei villaggi durante le operazioni di avvicinamento al fronte.
Dalla nuova linea ferroviaria Saratov-Astrakhan molte diramazioni giungevano alle stazioni terminali nella steppa, dove le truppe si sarebbero concentrate prima di portarsi al fronte. Furono inviati 1.300 vagoni al giorno ai tre fronti, lo sforzo per le ferrovie sovietiche fu enorme. La confusione inevitabile. Una divisione fu caricata su convogli ferroviari e poi lasciata in attesa per quasi due mesi e mezzo in una stazione secondaria nell’Uzbekistan.
Il piano dell’operazione Uranus era semplice eppure audace ed ambizioso nei suoi scopi. L’attacco principale doveva svolgersi a più di 160 chilometri a ovest di Stalingrado, sarebbe stato lanciato in direzione sud-est dalla testa di ponte di Serafimocič, una zona a di circa 60 chilometri a sud del Don, che la 3a armata rumena non era riuscita ad occupare per mancanza di forze. Il punto scelto era così lontano dalle retrovie della 6a armata che non sarebbero potute arrivare in tempo per influire sull’esito della battaglia.
Nel frattempo, un attacco più interno sarebbe partito da un’altra testa di ponte a sud del Don a Kletskja, poi avrebbe colpito alle spalle XI corpo d’armata di Strecker allungato sull’ansa grande e più piccola del Don. Infine da sud di Stalingrado, un altro attacco corazzato in direzione nord-ovest si sarebbe incontrato con il movimento principale attorno a Kalač, completando l’accerchiamento della 6a armata e di parte della 4a Panzerarmee di Hoth. Sarebbero state impegnate circa il 60% delle forze corazzate dell’Armata Rossa.
Le misure di sicurezza per mantenere il segreto sull’operazione furono pressoché perfette. La disinformazione, la mimetizzazione e la sicurezza operativa, traffico radio ridottissimo e ordini recapitati a mano, furono applicati magistralmente.
Naturalmente non si poteva sperare di nascondere completamente l’operazione imminente, ma il risultato più grande fu quello di nascondere la vastità dell’operazione.
La maggior parte dei generali, pur non condividendo l’opinione di Hitler secondo cui l’Armata Rossa era finita, la consideravano sicuramente vicina all’esaurimento. Gli ufficiali di Stato Maggiore invece erano più scettici. Al capo dei servizi d’informazione della 6a armata, colonnello Niemeyer erano chiari i concentramenti di truppe a nord e sud di Stalingrado, ma gli ufficiali superiori, anche se preoccupati di una interruzione delle linee di comunicazione, non consideravano seriamente la possibilità di un accerchiamento. Paulus dopo il dramma, umanamente, si convinse di avere sempre saputo dov’era il pericolo, ma il suo capo di Stato Maggiore, generale Schmidt, fu assolutamente onesto nell’ammettere di aver gravemente sottovalutato il nemico.
In Germania, la maggior parte dei generali era convinta che l’Armata Rossa non fosse in grado di sferrare due offensive, e i servizi d’informazione indicavano che se proprio fosse in preparazione un’offensiva, quelle minacciate erano le armate del gruppo di Centro. La presenza della 5a armata corazzata sovietica sul fronte del Don davanti ai rumeni non era stata individuata.
L’aspetto più incredibile di questo periodo era che Paulus e Schmidt sembravano pensare che, una volta comunicati i rapporti, non restasse nient’altro da fare, dal momento che i settori minacciati erano fuori dalla loro zona. Questa passività era contraria alla tradizione prussiana che considerava l’inattività, l’attesa di ordini e l’incapacità a pensare da soli un difetto imperdonabile in un comandante. Certo, Hitler aveva fatto di tutto per impedire questa indipendenza dei suoi generali, e Paulus, per natura più ufficiale di Stato Maggiore che comandante sul campo, vi si era sottomesso.
A Paulus è stato spesso rimproverato di non aver disobbedito a Hitler in seguito, quando l’ampiezza del disastro divenne chiara, ma il suo vero fallimento consisteva nel non aver saputo prepararsi ad affrontare la minaccia. Era la sua armata ad essere minacciata. Bastava ritirare gran parte dei suoi carri dalla dispendiosa battaglia in città e si sarebbe ritrovato con una massiccia forza meccanizzata pronta a reagire con rapidità. Riorganizzando i depositi di munizioni ed equipaggiamenti, si sarebbe assicurato una pronta capacità di movimento dei suoi veicoli, anche con un breve preavviso. Questi preparativi relativamente esigui e la disobbedienza al quartier generale del Führer, avrebbero permesso alla 6a armata di difendersi efficacemente nel momento cruciale.
Hitler, fin dal 30 giugno, aveva stabilito che le formazioni non avrebbero dovuto mettersi in comunicazione con le unità limitrofe, ma questa volta l’ordine fu ignorato. Schmidt distaccò un ufficiale della 6a armata, il tenente Stöck1, con un apparecchio radio presso l’armata rumena.
I primi segni di un concentramento di truppe era apparso già dai primi di ottobre. Il generale Dimitrescu comandante della 3a armata rumena, sosteneva che avrebbe potuto difendere il suo settore solo se avesse tenuto la sponda del Don, usando il fiume stesso come principale ostacolo anticarro. Egli aveva già in settembre ripetuto il concetto agli alleati tedeschi, ma questi pur riconoscendo la fondatezza del suggerimento, rifiutarono di distrarre truppe dall’obbiettivo Stalingrado, la cui cattura era ritenuta imminente.
I rumeni quando cominciarono a notare il concentramento di truppe nemiche divennero sempre più ansiosi. Le loro divisioni erano a ranghi incompleti, non avevano efficaci armi anticarro, l’artiglieria era a corto di munizioni perché la priorità del rifornimento spettava alla 6a armata ed infine anche i carri leggeri Skoda di cui erano forniti non potevano certo competere con i T-34 russi.
Lo Stato Maggiore rumeno riferì le sue preoccupazioni anche il 29 ottobre, ma Hitler che aspettava notizie dell’imminente caduta di Stalingrado, era distratto anche da altri eventi di capitale importanza. Rommel si stava ritirando dalla battaglia di El Alamein e c’erano notizie di una flotta angloamericana diretta verso il nord Africa (operazione Torch). Un altro problema era che i rumeni si aspettavano sempre che l’offensiva si scatenasse nelle ventiquattro ore successive e quando non succedeva niente, in particolare dopo che il venticinquesimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre era trascorso senza che succedesse niente, la cosa cominciava ad avere lo stesso effetto della nota esclamazione: “Al lupo, al lupo”.
D’altro canto il generale von Richthofen era sempre più convinto delle prove fornitegli dalla sua ricognizione aerea. Aveva scritto: “Sul Don, i russi continuano decisi la loro preparazione per un’offensiva contro i rumeni. Quando mi chiedo ci sarà l’attacco?” I suoi bombardieri cominciarono ad attaccare queste truppe per ostacolarne la marcia di avvicinamento al Don.
Gli avvertimenti al quartier generale di Hitler si moltiplicavano. Egli si metteva al riparo emanando ordini per il rafforzamento dei rumeni con truppe tedesche e campi minati, ma rifiutava di accettare il fatto che non fossero disponibili né risorse né formazioni di rincalzo.
Teoricamente c’era di riserva, per rafforzare il fianco settentrionale, il XXXXVIII Panzerkorps, una grossa forza formata dalla 14a e 22a Panzerdivision oltre a un battaglione controcarri e uno d’artiglieria motorizzata, ma, ad un esame più attento, tale forza era molto meno impressionante di quel che appariva. La 14a, appiedata durante i combattimenti a Stalingrado non era ancora stata riorganizzata e la 22a era rimasta a corto di carburante. Durante il periodo di immobilità, i topi avevano cercato riparo dal maltempo negli scafi dei carri rosicchiandone i cavi elettrici, che al momento non c’era possibilità di sostituire.
In fin dei conti nonostante gli avvertimenti provenienti da più parti, la minaccia al fianco settentrionale non era stata presa sul serio.
Le condizioni atmosferiche e la logistica ai primi di novembre ritardarono la marcia di avvicinamento dell’Armata Rossa. A Žukov toccò il non invidiabile compito di comunicare ad un ansiosissimo Stalin che l’offensiva andava rimandata al 19 novembre.
In questo periodo, la preoccupazione principale a Mosca era la mancanza di informazioni attendibili sulla situazione del morale della 6a armata. Finalmente il 9 novembre, al generale Ratov dei servizi d’informazione venne consegnato un documento proveniente dalla 384a divisione di fanteria dall’altra parte dell’ansa piccola del Don, composta da reggimenti sassoni e austriaci. Capì immediatamente di essere in possesso della prova che avevano atteso da tanto tempo. Copie tradotte furono mandate a Stalin ed ai maggiori dirigenti sovietici. Ratov immaginava già la gioia che il contenuto di quel documento avrebbe suscitato nel cuore del Grande Leader. Era doppiamente incoraggiante dal momento che questa formazione di Dresda non era rimasta coinvolta nei combattimenti a Stalingrado.
“Sono perfettamente consapevole dello stato della divisione”, scriveva il generale von Gablenz a tutti i comandanti della 384a divisione di fanteria. “So che non ci sono rimaste più forze. Non mi sorprende e farò ogni sforzo per migliorare le condizioni della divisione, ma la battaglia è ancora aspra e diventa ogni giorno più aspra. E’ impossibile cambiare la situazione. Lo stato letargico in cui versa la maggior parte dei soldati deve essere corretto da una guida più attiva. I comandanti devono essere più severi. […]”. Gli ufficiali erano incaricati di avvertire i soldati che “dovevano presumere di rimanere in Russia tutto l’inverno”.
Sui tre fronti “dell’asse Stalingrado”si trovava concentrato poco più di un milione di uomini. Il generale Smirnov, capo della sanità, aveva preparato 119 ospedali da campo con 62.000 posti letto. Gli ordini furono consegnati solo tre ore prima dell’attacco. Le truppe erano eccitate e orgogliose al pensiero che i tedeschi non sapessero cosa li avrebbe colpiti.
In quella vigilia, i tedeschi non si accorsero che il giorno successivo sarebbe stato molto diverso. Il rapporto della 6a armata era breve: “Nessun mutamento rilevante su tutto il fronte. Sul Volga banchi di ghiaccio più sottili di ieri”.
Quella notte un soldato in attesa di licenza, scrisse a casa, riflettendo sul fatto che si trovava “a 3.500 chilometri dalla frontiera tedesca”.
1 Gerhard Stöck (28 luglio 1911 – 29 marzo 1985) vincitore della medaglia d’oro nel 1936 alle Olimpiadi di Berlino nel lancio del giavellotto.
STALINGRADO
Questi gli ordini di battaglia tedeschi e sovietici al 19 novembre 1942.
- XXXXVIII CORPO CORAZZATO (Panzerkorps)
Generale delle truppe corazzate Ferdinand Heim
• Sicherungs-Regiment 57
• Beute-Panzer-Kompanie 221
• Beute-Panzer-Kompanie 318
• Flak-Regiment 104
• Kampgruppe Simons
• 14a divisone corazzata (Panzerdivision): Tenente generale Braessler
• 22a divisone corazzata (Panzerdivision): Tenente generale Rodt
• 1a divisone corazzata romena: Generale di divisione Gerghe
• 294a divisione di fanteria: Generale di fanteria Block
• 382a Feldausbildungs Division: Maggiore generale Hoffmann
• 403a Sicherungs-Division: Tenente generale Russwurm
Generale di corpo d'armata Dumitrescu
- Riserva d'armata
• 7a divisone cavalleria romena: Generale di brigata Munteanu
• 15a divisione di fanteria romena: Generale di brigata Sion
• Reggimenti d'artiglieria pesante motorizzata: 2o, 4o, 5o, 8o
• 41o Battaglione autonomo artiglieria pesante motorizzata
• Squadriglie ricognizione: 11a, 12a, 13a
• 2a Squadriglia ricognizione lontana
• 112a Squadriglia collegamenti
- I CORPO
Generale di corpo d'armata Ionsecu
• 8o Reggimento Călărași
• 7a divisione di fanteria romena: Generale di brigata Trestioreanu
• 2a divisione di fanteria romena: Generale di brigata Nedelea
- II CORPO
Generale di corpo d'armata Dascalescu
• 4o Reggimento Călărași
• 9a divisione di fanteria romena: Generale di brigata Panaitiu
• 14a divisione di fanteria romena: Generale di brigata Stavrescu
- IV CORPO
Generale di corpo d'armata Sanatescu
• 7o Reggimento Călărași
• 1a divisione di cavalleria romena: Generale di brigata Bratescu
• 13a divisione di fanteria romena: Generale di brigata Ionescu-Sinaia
- V CORPO
Generale di corpo d'armata Sion
• 6o Reggimento Călărași
• 5a divisione di fanteria romena: Generale di brigata Mazarini
• 6a divisione di fanteria romena: Generale di brigata Lascar
Generale di corpo d'armata Constantinescu-Claps
- Riserva d'armata
• Squadriglie ricognizione: 15a, 16a, 17a
• 114a Squadriglia collegamenti
• 6o Reggimento Roşiori motorizzato
- VI CORPO
Generale di corpo d'armata Dragalina
• 1a divisione di fanteria romena:Generale di brigata Mihaescu
• 2a divisione di fanteria romena: Generale di brigata Tudose
• 18a divisione di fanteria romena: Generale di brigata Baldescu
• 20a divisione di fanteria romena: Generale di brigata Tataranu
- VII CORPO
Generale di corpo d'armata Mitronescu
• 4a divisione di fanteria romena: Generale di brigata Alienescu
• 5a divisione di cavalleria romena: Generale di brigata Mainescu
• 8a divisione di cavalleria romena: Generale di brigata Korne
Colonnello Generale Hoth
- Riserva d'armata
• 16a divisone di fanteria motorizzata: Maggior generale von Schwerin
• 9a divisone Flak
• 2 Battaglioni Festungs-Bau
• 21 Battaglioni Brücken-Bau (meno 1 compagnia)
• 218 Battaglioni Eisenbahn-Bau
• 507 Battaglioni Strassen-Bau
• 1 batteria Sturmgeschütz
- XIII CORPO
Generale di corpo d'armata Straube
• 82a divisione di fanteria: Maggior generale Hofbach
• 385a divisione di fanteria: Maggior generale Eibl
• 11a divisone corazzata (Panzerdivision): Colonnello generale Balck
- XXIV CORPO CORAZZATO (Panzerkorps)
Generale delle truppe corazzate von Langermann
• 3a divisone di fanteria motorizzata: Maggior generale Schlömer
• 9a divisone corazzata (Panzerdivision): Maggior generale Baesler
Generale delle truppe corazzate Paulus
Maggior generale Schmidt
• Ia Operazioni: Colonnello Elchlepp***
• Ib Approvvigionamenti: Maggiore von Kunowski
• Ic Servizi d'informazione: Tenente colonnello Niemeyer***
• IIa Aiutante: Colonnello W. Adam
• Comandante dell'artiglieria: Maggior generale Vassoll
• Comandante delle trasmissioni: Colonnello Arnold* (sostituito dal colonnello Van Hooven***)
• Comandante del genio: Colonnello H. Selle* (sostituito dal colonnello Stiotta*)
• Comandante del corpo di sanità: Generale Renoldi
• Ufficiale di collegamento con l'OKH: Tenente colonnello von Zitzewitz*
- TRUPPE: UNITÀ PRINCIPALI
• Reggimenti mortai: 51o, 53o
• Reggimenti Nebelwerfer: 2o, 30o
• Reggimenti d'artiglieria: 4o, 46o, 64o, 70o
• Battaglioni d'artiglieria: 54o, 616o, 627o, 849o
• Battaglioni d'artiglieria pesante: 49o, 101o, 733o
• Battaglioni pionieri: 6o, 41o
- IV CORPO
Generale del genio pionieri Jaenecke*
Colonnello Crome
• 29a divisone di fanteria motorizzata: Maggior generale Leyser
• 297a divisione di fanteria: Tenente generale Pfeffer
• 371a divisione di fanteria: Tenente generale Stempel***
- VIII CORPO
Generale dell'artiglieria Heitz
Colonnello Schildknecht
• 76a divisone di fanteria: Tenente generale Rodenburg
• 113a divisone di fanteria: Tenente generale Sixt von Arnim
- XI CORPO
Tenente generale Strecker
Colonnello Groscurth***
• 44a divisone di fanteria: Tenete generale Deboi
• 376a divisone di fanteria: Tenete generale barone Edler von Daniels
• 384a divisone di fanteria: Tenete generale barone von Gablenz*
- XIV CORPO CORAZZATO (Panzerkorps)
Generale delle truppe corazzate Hube*
Colonnello Thunert*
• 3a divisone di fanteria motorizzata: Tenente generale Schlömer
• 60a divisone di fanteria motorizzata: Maggior generale Kohlermann*
• 16a divisone corazzata (Panzerdivision): Tenente generale Angern***
- LI CORPO
Generale dell'artiglieria von Seydlitz-Kurbach
Colonnello Clausius
• 71a divisone di fanteria: Tenente generale von Hartmann***
• 79a divisone di fanteria: Tenente generale conte von Schwerin*
• 94a divisone di fanteria: Tenente generale Pfeiffer*
• 100a divisone Jäger (cacciatori austriaci): Tenente generale Sanne
• 295a divisone di fanteria: Maggior generale Korfes
• 305a divisone di fanteria: Maggior generale Steinmetz*
• 389a divisone di fanteria: Maggior generale Magnus
• 14a divisone corazzata (Panzerdivision): Maggior generale Lattmann
• 24a divisone corazzata (Panzerdivision): Tenente generale von Lenski
• 9a divisone contraerei (Flack): Maggior generale Pickert
• 4a flotta aerea (Luftflotte 4): Colonnello generale barone von Richthofen
VIII CORPO AEREO (Fliegerkorps) Generale Fiebig
* Uscito dal Kessel prima della resa finale
** Morto prima o poco dopo la resa finale
*** Morto in prigionia
Generale d'armata G. K. Žukov
Colonnello generale d'artiglieria N. N. Voronov
Colonnello generale A. M. Vasil'evskij
Fronte di Stalingrado
Colonnello generale A. I. Erëmenko
N. S. Chruščëv
Generale V. I. Čuikov
- Divisioni fucilieri:
• 13a Guardie (A. I. Rodimcev)
• 37a Guardie (V. G. Žoludev)
• 39a Guardie (S. S. Guriev)
• 45a (Sokolov)
• 95a (V. A. Gorišnij)
• 112a (Ermolkin)
• 138a (I. I. Ljudnikov)
• 193a (F. N. Smekhotorov)
• 196a
• 244a
• 284a (N. F. Batjuk)
• 308a (L. N. Gurtiev)
• 10a divisione fucilieri dell'NKVD (Rogatin)
- 92a brigata di fanteria di marina
- Brigate speciali:
• 42a Brigata fucilieri
• 115a Brigata fucilieri
• 124a Brigata fucilieri
• 149a Brigata fucilieri
• 160a Brigata fucilieri
- Brigate carri:
• 84a Brigata carri
• 137a Brigata carri
• 189a Brigata carri
Generale Šumilov
- Divisioni fucilieri:
• 36a Guardie (Denisenko)
• 29a (Losev)
• 38a (Safuilin)
• 157a (Kirsanov)
• 204a (Skvortzov)
- 154a brigata di fanteria di marina
- Brigate speciali:
• 66a Brigata fucilieri
• 93a Brigata fucilieri
• 96a Brigata fucilieri
• 97a Brigata fucilieri
- Brigate carri:
• 13a Brigata carri
• 56a Brigata carri
Generale F. I. Tolbukhin
- Divisioni fucilieri:
• 169a (Eremenko)
• 422a (Morozov)
- 143a brigata speciale
- Brigate carri:
• 90a Brigata carri
• 235a Brigata carri
- XIII Corpo meccanizzato (T. I. Tanaščšin)*
Generale N. I. Trufanov
- Divisioni fucilieri:
• 15a Guardie
• 91a (Kalinin)
• 126a (Kuropatenko)
• 302a (Makarchuk)
- 38a brigata speciale
- 254a brigata carri
- IV Corpo meccanizzato (V. T. Volskij)*
- IV Corpo di cavalleria (Šapkin)*
Generale V. F. Gerasimenko
- Divisioni fucilieri:
• 34a
• 248a
- Brigate speciali:
• 52a Brigata fucilieri
• 152a Brigata fucilieri
• 159a Brigata fucilieri
- 6a brigata carri Guardie
- 330a divisione fucilieri
- 85a brigata carri
Generale T. T. Khrjukin
Fronte del Don
Colonnello generale K. K. Rokossovskij
Maggior generale A. S. Žadov
- Divisioni fucilieri:
• 64a (Ignatov)
• 99a (Vladimirov)
• 116a (Makarov)
• 226a (Nikitchenko)
• 299a (Baklanov)
• 343a (Chuvashev)
- 58a brigata carri
Generale I. V. Galanin
- Divisioni fucilieri:
• 49a (Matvienko)
• 84a (Fomienko)
• 120a (Dzhakhya)
• 173a (Askalepov)
• 233a (Barinov)
• 260a (Miroshnichenko)
• 273a (Valugin)
- 10a brigata carri
- XVI Corpo corazzato
Tenente generale P. I. Batov
- Divisioni fucilieri:
• 4a Guardie (Lilenkov)
• 27a Guardie (Glebov)
• 40a Guardie (Pestrechev)
• 23a (Vachrameev)
• 24a (Prochorov)
• 252a (Shextmann)
• 258a (Furcin)
• 304a (Merkulov)
• 321a (Makarenko)
- 121a brigata carri
Maggior generale S. I. Rudenko
Fronte sud-occidentale
Generale N. F. Vatutin
Generale I. M. Čistjakov
- Divisioni fucilieri:
• 63a (Kozin)
• 76a (Tavartkiladze)
• 96a (Isakov)
• 277a (Chernov)
• 293a (Lagutin)
• 333a (Matveev)
- Reggimenti carri:
• 1o Reggimento carri
• 2o Reggimento carri
• 4o Reggimento carri Guardie
- IV Corpo corazzato (A. G. Kravčenko)*
- III Corpo di cavalleria Guardie (P. A. Pliev)*
Generale P. L. Romanenko
- Divisioni fucilieri:
• 14a Guardie (Grayznov)
• 47a Guardie (Fokanov)
• 50a Guardie
• 119a (Danilov)
• 159a (Anashkin)
• 346a (Tolstov)
- I Corpo corazzato (V. V. Butkov)*
- XXVI Corpo corazzato (A. G. Rodin)*
- VIII Corpo di cavalleria*
Generale D. D. Leljušenko
- Divisioni fucilieri:
• 1a (Semenov)
• 153a (Karnov)
• 197a (Zaporozchenko)
• 203a (Zdanovich)
• 266a (Vetoshnikov)
• 278a (Monakhov)
- Riserva: I Corpo meccanizzato Guardie
Maggior generale S. A. Krasovskij
* Formazioni d'attacco di prima ondata dell'operazione Uranus
STALINGRADO
La mattina, alle 5:00 del 19 novembre, il tenente Stöck, ufficiale tedesco di collegamento presso la IV armata rumena, chiamò il comando della 6a armata, avvertendo che un ufficiale russo catturato aveva detto che l’attacco sovietico era previsto per le cinque di quel giorno. Visto che l’orario era passato, il generale Schmidt non fu svegliato, diventava furibondo se gli interrompevano il sonno per un falso allarme ed in quel periodo ce ne erano stati parecchi.
In realtà la fitta nebbia aveva fatto riflettere i comandanti russi della possibilità di un rinvio, ma poi optarono per l’attacco. Alle 7:20 iniziò il bombardamento dell’artiglieria.
Questa volta non esitarono a svegliare Schmidt.
Erano stati concentrati 3.500 tra cannoni e mortai pesanti, il terreno tremava come per un terremoto a bassa intensità, dovevano aprire la strada a tre corpi corazzati e due di cavalleria.
Anche i soldati russi del fronte di Stalingrado udirono il rombo lontano e chiesero ai loro ufficiali di che cosa si trattasse. Fu risposto: “Non so”. L'ossessione per la segretezza fece in modo che l'offensiva fu annunciata solo quando il risultato non fu veramente sicuro.
Un milione di combattenti, 13.541 pezzi d’artiglieria, 1.400 carri armati e 1.115 aeroplani si lanciarono contro le forze di Hitler.
La fanteria rumena benché male equipaggiata e scossa dal pesante bombardamento si batté coraggiosamente e respinse i primi due attacchi. I rumeni si opposero con vigore e distrussero numerosi carri armati, ma senza armi anticarro erano destinati ad essere sconfitti. A mezzogiorno cominciarono gli sfondamenti. Il 3o corpo di cavalleria Guardie e il 4o corpo corazzato irruppero attraverso il 4o corpo rumeno nel settore di Kletskaja e si diressero a sud.
Mezz'ora più tardi, a circa 47 km a ovest, la 5a armata corazzata del generale Romanenko travolse le difese del 2o corpo rumeno.
A metà mattinata la nebbia si era dissolta, ciò permise all'aviazione russa di unirsi all'attacco. Sembra che le basi della Luftwaffe non abbiano goduto della stessa visibilità, oppure gli specialisti addetti alle operazioni di volo non avevano voluto correre gli stessi rischi delle loro controparti sovietiche.
Il comando della 6a armata non fu informato ufficialmente dell'offensiva fino alle 9:45 di quella stessa mattina. Una reazione così tardiva indica che, sebbene la minaccia fosse stata presa sul serio, non era certamente considerata letale. Gli attacchi a Stalingrado, anche quelli che interessavano le divisioni corazzate, non vennero bloccati.
Il XXXXVIII Panzerkorps del generale Heim2 che si stava dirigendo verso Kletskaja per bloccare l'irruzione dei corpi corazzati sovietici (oltre 700 carri armati della 5a Armata corazzata e del IV Corpo corazzato), fu ostacolato da difficoltà di comunicazione e dagli ordini contraddittori degli alti comandi, con suo gran furore, era stato deviato a nord da ordini di Hitler dalla Baviera.
Il generale von Sodenstern, capo di Stato Maggiore del gruppo di armate B, suggerì al comando della 6a armata di mandare truppe dell’XI corpo del generale Strecker a rafforzare le difese di Kletskaja, dove la 1a divisione di cavalleria rumena resisteva. Per il momento, però, avevano saputo dell'avvistamento di soli 20 carri nemici, quindi era stato giudicato un debole attacco. Alle 11:30, a un reggimento della 44a divisione di fanteria austriaca fu ordinato di spostarsi a ovest. Questo fu l'inizio di una fase che avrebbe inchiodato parte della 6a armata all'interno dell'ansa del Don e ostacolato gravemente la sua libertà d'azione.
Poche notizie particolareggiate giunsero ai comandi, il primo segno che la situazione potesse essere più pericolosa di quanto si pensasse in precedenza arrivò solo due ore dopo lo sfondamento sovietico. Il panico aveva cominciato già a diffondersi nei comandi di diverse formazioni rumene.
L'idea rassicurante di mandare il XXXXVIII Panzerkorps al contrattacco dimostrava quanto gli ufficiali superiori tedeschi si fossero lasciati sviare dalle illusioni di Hitler. Un corpo corazzato avrebbe dovuto rappresentare una bella gatta da pelare per un armata corazzata sovietica ma, se si contavano i carri utilizzabili in battaglia, la grande unità non ammontava nemmeno a una divisione intera. I carri operativi erano poco più di 30 ed erano talmente a corto di carburante che avevano dovuto ricorrere alle riserve rumene. Le battute sul sabotaggio attuato dai topi avevano ormai fatto il giro dei reparti, ma pochi avevano voglia di ridere non appena ne capirono tutte le conseguenze.
I cambiamenti di ordini avevano solo peggiorato le cose. Invece di schierarsi in blocco con il corpo corazzato di Heim, come previsto, la 1a divisione corazzata rumena era stata deviata quando già si era mossa. Questa separazione aveva condotto a ulteriori disastri. Un attacco di sorpresa sovietico contro il suo comando aveva distrutto l'apparecchio radio dell'ufficiale di collegamento tedesco, unico mezzo di comunicazione con il generale Heim, e tutti i contatti sarebbero rimasti interrotti per i giorni successivi.
La mancanza di reazioni del generale Paulus durante questa giornata fu incredibile. Poiché non era riuscito a organizzare una forza d'attacco meccanizzata prima dell'offensiva nemica, aveva preferito continuare a non fare niente.
Nel corso del pomeriggio del 19 novembre, i carri sovietici avanzarono in colonne verso sud in mezzo alla nebbia gelata dal momento che c'erano pochissimi punti di riferimento in quella distesa di neve. I civili del posto erano stati aggregati come guide alle unità di testa, ma anche questo non bastava. La visibilità era talmente scarsa che i comandanti dovevano orientarsi con la bussola.
I comandanti del IV Corpo corazzato, avanzando nella tormenta verso sud oltre Kletskaja, attendevano con ansia un contrattacco da parte dei tedeschi, sapevano che i rumeni non erano in grado di farlo. Quando, intorno alle 15:30, incominciò a diventare scuro dovettero accendere i fari, non avevano alternative se volevano continuare ad avanzare.
Fu il 1o Corpo corazzato di Butkov a incontrare il XXXXVIII Panzerkorps ulteriormente indebolito. Il combattimento nell'oscurità sempre più intensa era caotico. L'abilità tattica e il coordinamento, che costituivano il solito vantaggio dei tedeschi rispetto ai russi, non servivano a niente.
L'ordine dal comando di gruppo del gruppo di armate di chiudere la falla vicino a Kletskaja con una parte dell'11o corpo e della 14a Panzerdivision era già irrimediabilmente superato quando era stato emanato. I comandi del gruppo di armate B e della 6a armata erano praticamente accecati dalla mancanza di informazioni. I russi erano riusciti inoltre a confondere il quadro lanciando attacchi lungo quasi tutti i settori della 6a armata.
Alle cinque del pomeriggio, quando ormai il IV corpo corazzato russo era avanzato per oltre 35 chilometri, fu ordinato al generale Strecker di creare una nuova linea di difesa verso sud per proteggere le retrovie della 6a armata. Ma i vari comandanti tedeschi non avevano ancora intuito l'obiettivo dell’Armata Rossa.
Solo alle 23:00, ben 17 ore dopo l'inizio dell'offensiva, la 6a armata ricevette l'ordine tassativo del generale von Weichs, comandante delle armate del gruppo B di interrompere i combattimenti a Stalingrado.
Fu ordinato di mandare le unità corazzate e motorizzate a ovest il più presto possibile; data la completa mancanza di preparazione per una simile eventualità, gli spostamenti non furono affatto rapidi come ci si poteva aspettare, in più la 62a armata di Čujkov lanciò massicci attacchi per impedire il disimpegno tedesco.
Anche alla 16a Panzerdivision, “nelle cui file erano stati arruolati molti Hiwis russi per riempirne i vuoti”, fu ordinato di dirigersi a ovest in direzione del Don. Come la 24a Panzerdivision, avrebbe dovuto rifornirsi nei depositi di riserva lungo la strada, dal momento che non c'era sufficiente carburante nelle immediate vicinanze di Stalingrado. Ma prima di tutto la divisione doveva districarsi dai combattimenti attorno a Rjnok. Questo significava che, sebbene parte della divisione si fosse mossa verso ovest la sera successiva, alcuni carri del II reggimento non ricevettero l'ordine di sganciarsi fino alle tre della mattina del 21 novembre, 46 ore dopo l'inizio dell'offensiva sovietica.
Dal momento che gli attacchi russi avvenivano dietro la 6a armata e fuori dalla sua zona di responsabilità, Paulus aveva atteso ordini dall'alto, nel frattempo il gruppo di armate B era costretto a reagire agli ordini inviati da Hitler. La sua volontà di controllare gli eventi aveva prodotto un disastroso immobilismo, proprio nel momento in cui ci sarebbe voluta la massima rapidità, non sembra che qualcuno abbia fatto lo sforzo di mettersi a riconsiderare le intenzioni del nemico. Mandando il grosso dei reggimenti corazzati della 6a armata attraverso il Don per difendere il fianco sinistro posteriore si era perduta ogni flessibilità di manovra. Ma peggio ancora lasciava esposto il fianco meridionale.
Nel fronte a sud di Stalingrado, alle 10:00 del mattino, il generale Erëmenko, comandante del fronte di Stalingrado, ordinò ai reggimenti di artiglieria e di Katjuša di aprire al fuoco. Tre quarti d'ora più tardi, le forze terrestri cominciarono ad avanzare. A sud di Beketovka la 64a e la 57a armata appoggiarono l'attacco del XIII corpo meccanizzato. Una quarantina di chilometri più a sud, vicino ai laghi Sarsa e Tsatsa, il IV corpo meccanizzato e il IV corpo di cavalleria guidarono l'attacco della 51a armata.
I tedeschi vicini alla 20a divisione di fanteria rumena osservarono masse di carri sovietici e ondate di fanteria, in quantità mai viste prima, convergere contro il rumeni. I soldati contadini rumeni si batterono coraggiosamente, considerando che erano stati lasciati soli. I loro ufficiali e sottufficiali non si erano mai visti al fronte e avevano trascorso il loro tempo in vari edifici nelle retrovie ad ascoltare musica e a bere liquori.
I rumeni si batterono bene, ma contro le ondate degli assalti sovietici non avevano alcuna speranza di resistere a lungo.
L’entusiasmo degli attaccanti era chiaro ed evidente. Lo consideravano un momento storico. La Madrepatria veniva finalmente vendicata, ma furono le divisioni rumene, non quelle tedesche, a sopportare il peso maggiore.
I prigionieri rumeni venivano incolonnati, ma prima di essere mandati nei campi di concentramento, molti, forse centinaia, erano stati fucilati da soldati dell’Armata Rossa senza alcun motivo.
Il IV corpo d’armata rumeno era praticamente crollato. Il LX reggimento di cavalleria rumeno era tutto quello che rimaneva tra l’attacco corazzato a sud e il Don.
I fatti suggeriscono che se Paulus avesse organizzato una forte riserva mobile prima dell’offensiva, avrebbe potuto colpire a sud con quella, a una distanza di poco più di 25 chilometri, e avrebbe potuto facilmente spezzare il braccio inferiore dell’accerchiamento. Il giorno successivo avrebbe poi potuto inviarla a nord-ovest, in direzione di Kalač, incontro alla minaccia principale dell’offensiva da nord. Ma questo richiedeva una chiara valutazione del pericolo, cosa di cui mancavano sia Paulus sia Schmidt.
Le formazioni tedesche, con i rumeni il cui crollo stava diventando sempre più catastrofico, cercarono di rischierarsi. Ma per le truppe corazzate la disastrosa situazione del carburante e la penuria di equipaggi che Hitler aveva voluto mandare a Stalingrado come fanteria, stava ostacolando non poco il movimento verso ovest da Stalingrado per rafforzare questo nuovo fronte. Per quanto riguarda l’artiglieria, la decisione di ritirare i cavalli della 6a armata, in questa nuova guerra di movimento improvvisamente imposta dai russi, costringeva ad abbandonarla sul posto.
La mattina del 21 novembre, al comando della 6a armata a Golubinskij, una ventina di chilometri a nord di Kalač, la situazione non sembrava così sfavorevole, evidentemente pensavano che le forze dislocate ad ovest di Stalingrado avrebbero trasformato la situazione. Ma durante la mattinata Paulus e Schmidt ricevettero una serie di brutti colpi. Furono avvertiti che il loro fianco sud era ormai minacciato e il nemico si trovava a meno di 32 chilometri dal loro lato ovest. A peggiorare la situazione, le officine da campo e i depositi della 6a armata erano esposti. Alla fine Paulus e Schmidt riconobbero che il nemico tendeva a un accerchiamento globale. L’attacco in diagonale, sia da nord-ovest che da sud-est, era diretto quasi sicuramente a Kalač.
Le disastrose reazioni tedesche all’operazione Uranus erano causate non solo dal convincimento di Hitler che i russi non avessero riserve, ma anche dall’arrogante presunzione dei generali. “Paulus e Schmidt si erano aspettati qualcosa”, spiegò un ufficiale del comando della 6a armata, “ma non un attacco del genere. Era la prima volta che i russi usavano i carri esattamente come facevamo noi.” D’altro canto, von Manstein pensava (forse con il senno del poi), che il centro decisionale della 6a armata fosse stato troppo lento a reagire ed estremamente inefficiente nella sua incapacità di prevedere la minaccia portata a Kalač, l’ovvio attraversamento del Don tra i due sfondamenti.
Alle 15:25, un messaggio del Führer ordinava alla 6a armata di mantenere le posizioni nonostante il pericolo di un temporaneo accerchiamento. C’erano, però, ben poche speranze di tenere la posizione in quel pomeriggio del 21 novembre. L’accumularsi di ritardi del reggimento corazzato della 16a Panzerdivision aveva lasciato un buco tra l’XI corpo d’armata del generale Strecker e gli altri diversi gruppi che tentavano di formare una nuova linea difensiva. Questa situazione fu sfruttata rapidamente dal III corpo di cavalleria Guardie e dal IV corpo meccanizzato. Alle divisioni di Strecker, sempre più minacciate da nord e anche da nord-ovest, non restava altro che cominciare a ritirarsi verso il Don. La decisione di mandare i reggimenti corazzati della 6a armata a ovest si rivelava ora come una mossa molto pericolosa.
Kalač, il principale obbiettivo dei sovietici, era uno dei punti più vulnerabili di tutto il fronte. Non c’era una difesa organizzata, ma solo una raccolta male assortita di addetti ai rifornimenti e alla manutenzione, un piccolo distaccamento di Feldgendarmerie e una batteria della Flak3. Il 22 novembre, tali scarse difese furono travolte rapidamente senza che i tedeschi facessero in tempo a far saltare il ponte. I sopravvissuti dopo avere incendiato le officine saltarono sui camion per dirigersi verso Stalingrado.
Il giorno dopo le forze sovietiche provenienti da sud e da nord si incontrarono nella steppa aperta vicino a Sovietskij e si lasciarono andare a calorosi abbracci, scena che venne ripetuta più tardi a beneficio della propaganda sovietica davanti alle macchine da presa dei cinegiornali. Gli scambi di vodka e salsicce tra carristi in occasione di quell’incontro non vennero filmati, ma erano di gran lunga più genuini.
La notizia si sparse rapidamente tra i tedeschi, accompagnata dalla frase: “Siamo circondati!” Non tutti manifestarono preoccupazione nell’apprendere le notizie per la prima volta. Accerchiamenti si erano verificati l’inverno precedente, ed erano stati spezzati, ma gli ufficiali meglio informati, dopo averci riflettuto, cominciarono a capire che questa volta non c’erano riserve in grado di correre in loro soccorso. “Diventammo molto coscienti del pericolo in cui ci trovavamo”, ricordava un ufficiale, “tagliati fuori nel cuore della Russia, al confine con l’Asia”.
L’attraversamento di Kalač metteva in pericolo tutte le truppe che si trovavano sulla sponda occidentale del Don. L’XI corpo d’armata del generale Strecker si trovava a combattere una battaglia difensiva su tre lati. La ritirata iniziò già dal 20 novembre, la penuria di cavalli creava problemi nei trasporti; con brutale semplicità vennero usati i prigionieri meno malconci per il traino, i prigionieri che non riuscivano a trainare il trasporto alla velocità pretesa venivano fucilati sul posto. Gli altri, i malati e troppo deboli, furono abbandonati nei campi chiusi da filo spinato all’aperto, vennero lasciati morire di fame e di freddo. Quando furono trovati, solo due su 98 erano ancora vivi, il governo sovietico accusò ufficialmente il comando tedesco di crimini di guerra.
Nella foga di attraversare i ponti per dirigersi verso Stalingrado si verificarono, in particolare nei pressi del ponte di Akimovskij, le peggiori scene di panico. I soldati urlavano e si spingevano, i feriti ed i più deboli venivano calpestati. Gli ufficiali si minacciavano a vicenda per far passare per primi i loro uomini. Per evitare l’imbottigliamento molti cercarono di passare il Don gelato a piedi, ma al centro c’erano molti punti fragili. Chi cadeva in acqua era spacciato. A nessuno veniva in mente di correre in suo aiuto. I paragoni con la Beresina4 erano quanto mai dominanti nei pensieri di tutti.
Dall’altra parte del Don, sulla sponda orientale, i villaggi erano pieni di soldati che avevano perso le loro divisioni, tutti in cerca di cibo e riparo dal freddo terribile. I numerosi soldati rumeni, esausti e mezzi morti di fame, già in fuga da una settimana, non godevano delle simpatie degli alleati tedeschi ed erano costretti a bivaccare all’aperto. Nel frattempo, freneticamente venivano fatti saltare in modo selvaggio magazzini e trasporti.
Le scene più orribili avvenivano negli ospedali da campo. I feriti leggeri dovevano arrangiarsi da soli. C’erano camion parcheggiati nel fango gelato del cortile pieni di feriti con teste bendate e moncherini. Gli autisti erano scomparsi, i cadaveri giacevano con i feriti. I medici e gli assistenti di sanità all’interno avevano troppo da fare e preferivano ignorare le invocazioni d’aiuto. I malati e i feriti in grado di camminare si ritrovavano davanti un sottufficiale incaricato di raccogliere gli sbandati e riunirli in compagnie.
All’interno dell’ospedale l’aria era povera d’ossigeno, ma almeno era caldo, i malati dormicchiavano indifferenti a tutto. Le possibilità di sopravvivenza di un uomo dipendevano sostanzialmente dal tipo di ferita e dal posto in cui era stato colpito. La scelta era molto semplice. Chi aveva ferite alla testa o allo stomaco veniva messo da parte e lasciato morire, perché operazioni del genere richiedevano un’intera equipe chirurgica dai novanta minuti alle due ore e solo un paziente su due sopravviveva. Venivano prima i feriti che camminavano perché poi sarebbero stati rispediti in battaglia. Le fratture venivano curate, praticamente tutte, con rapide amputazioni.
Il 25 novembre la temperatura calò drammaticamente, in tal modo i sovietici riuscivano ad attraversare il Don ghiacciato più facilmente e così avvenne a Peskovatka. Quella sera tutti i reparti tedeschi ricevettero l’ordine di ritirarsi verso Stalingrado.
Il trionfo non addolcì i sentimenti dell’Armata Rossa verso il nemico. Le numerose affermazioni dei sovietici sulle atrocità dei tedeschi sono difficili da valutare. Alcune erano senza dubbio esagerazioni o invenzioni a scopo di propaganda, altre erano fondamentalmente vere. Gruppi di soldati russi, specialmente quando erano ubriachi, si vendicavano su tutti i prigionieri che capitavano nelle loro mani. Nel frattempo squadre dell’NKVD calavano nei villaggi liberati. 450 collaborazionisti furono arrestati. La retata più importante si ebbe a Nižne-Čirskaja un mese più tardi, località in cui i cosacchi avevano denunciato gli agenti dell’NKVD alla polizia segreta tedesca. Furono giustiziate circa 400 guardie dei campi di lavoro, di cui 300 erano ucraine.
Nel frattempo, a Stalingrado, la 62a armata si trovava in una strana posizione. Benché facesse parte del nuovo accerchiamento della 6a armata, era rimasta tagliata fuori dalla sponda orientale del Volga, a corto di rifornimenti e senza poter evacuare i suoi feriti. Ogni volta che un’imbarcazione si azzardava ad attraversare il fiume in mezzo ai pericolosi lastroni di ghiaccio, l’artiglieria tedesca apriva il fuoco. Ma ora gli attaccanti erano diventati gli assediati, l’atmosfera era cambiata. Gli uomini della 62a armata non riuscivano ancora a credere di essere arrivati a una svolta decisiva. I soldati russi, davanti alla prospettiva di non ricevere più tabacco fin quando il Volga non si fosse ghiacciato definitivamente, cantavano per distogliere la mente dal desiderio di nicotina. I tedeschi ascoltavano dai loro bunker, ma non urlavano più insulti.
2 Ferdinand Heim (Reutlingen, 27 febbraio 1895 – Ulm, 14 novembre 1977) è stato un generale tedesco. Ufficiale altamente stimato ed esperto, nel novembre 1942 era al comando del XXXXVIII Panzerkorps, riserva corazzata principale sul fronte del Don durante la Battaglia di Stalingrado. Incaricato della missione quasi impossibile di intervenire in aiuto delle truppe rumene attaccate dai russi (Operazione Urano) a partire dal 19 novembre 1942, non riuscì, con i suoi scarsi mezzi a bloccare l'irruzione dei corpi corazzati sovietici. Hitler, furibondo, lo avrebbe incolpato della catastrofe e trasformato in capro espiatorio, radiandolo dall'esercito e destinandolo alla prigione e alla corte marziale. Fu poi riammesso in servizio dopo pochi mesi. Si arrese nel settembre 1944 a Boulogne.
3 Con l'acronimo tedesco Flak, FlugabwehrKanone (cannone contraereo), erano indicati i cannoni destinati alla difesa contraerea.
4 Beresina (o Berezina) (bielorusso: Бярэ́зіна) è un fiume della Bielorussia tributario del fiume Dnepr. Battaglia di Beresina: l'armata francese di Napoleone Bonaparte subì pesanti perdite nell'attraversamento del fiume nel novembre del 1812 durante la sua ritirata dalla Russia: da allora il termine "Beresina" è usato nella lingua francese come sinonimo di "catastrofe".
STALINGRADO
Hitler era al Berghof5 quando ricevette la notizia del grande sfondamento del 19 novembre. La sua reazione al fallito contrattacco del XXXXVIII Panzerkorps è ancora più indicativa. Dopo che con la sua goffa interferenza non era riuscita ad arrestare il crollo rumeno, voleva un capro espiatorio, e ordinò l’arresto del generale Heim.
Pur senza ammetterlo esplicitamente, Hitler riconosceva ora che l’intera posizione tedesca nella Russia meridionale era in pericolo. Il secondo giorno dell’offensiva, ordinò al feldmaresciallo von Manstein di formare un nuovo gruppo d’armate del Don. Von Manstein era considerato lo stratega migliore dell’esercito e aveva operato con successo con le forze rumene in Crimea.
Paulus e Schmidt, il 21 novembre, si erano spostati a Nižne-Čirskaja, abbandonando il comando di Golubinskij minacciato da una colonna di carri armati sovietici. La scelta era stata fatta perché il comando di quella località, preparato per l’inverno, aveva linee di comunicazione sicure con il gruppo d’armate B e la Wolfsschanze di Hitler. Paulus che aveva istintivamente pensato ad una ritirata dal Volga per unirsi al resto del gruppo d’armate B, era restio ad agire perché non aveva ancora chiara la situazione complessiva.
L’ordine mandato da Hitler alla 6a armata di resistere, nonostante la minaccia di “un temporaneo accerchiamento”, aveva raggiunto Paulus quando era arrivato a Nižne-Čirskaja. Hitler, informato del suo arrivo, sospettò che volesse sfuggire ai russi e gli ordinò di tornare a Gumrak, dentro l’accerchiamento, per unirsi al resto del suo Stato Maggiore. Paulus era sconvolto ed irritato per l’insinuazione.
Schmidt al telefono con le forze d’aria, sottolineò il bisogno della 6a armata di combustibile e munizioni per rompere l’accerchiamento, ma gli fu risposto che “era impossibile rifornire l’intera armata dall’aria. La Luftwaffe non ha abbastanza aerei da trasporto”. Intanto, dal gruppo d’armate B era stato comunicato: “Non abbiamo niente per fermarli. Dovete cavarvela da soli”.
Paulus non voleva passare per il generale responsabile del più grande disastro militare della storia, ma aveva l’istinto dell’ufficiale di Stato Maggiore e non del leader militare di una grande unità che doveva reagire al pericolo. Non poteva prendere in considerazione un contrattacco a meno che non fosse accuratamente preparato e rifornito e facesse parte di un piano complessivo approvato dall’alto comando. Non sembra che lui o lo stesso Schmidt abbiano capito che la rapidità era il fattore decisivo. Non erano riusciti a preparare la massiccia forza che gli avrebbe consentito di spezzare l’accerchiamento prima ancora che si verificasse. Ora non riuscivano a capire che ogni fattore, in particolare le condizioni atmosferiche, una volta che l’Armata Rossa avesse consolidato le proprie posizioni, sarebbe stato sempre più sfavorevole a loro.
Avevano già perso molto tempo mandando reggimenti carri nelle retrovie attraverso il Don. Dopo la conferma della presa di Kalač, dovettero ordinare all’XI corpo d’armata di Strecker e al XIV Panzerkorps di Hube di prepararsi ad arretrare sulla riva orientale per unirsi al resto della 6a armata.
Il 22 novembre, alle 14:00, Paulus e Schmidt tornarono a Gumrak, all’interno del Kessel (così venne chiamata la sacca, letteralmente: calderone), ovvero la zona circondata. Paulus portò con sé una scorta di buon vino rosso e di champagne Veuve-Cliquot, strana scelta per uno che si presumeva stesse progettando di rompere in fretta l’accerchiamento.
Tutti i suoi comandanti di corpo erano dell’opinione che fosse necessario uno sfondamento a sud. Il più deciso era il generale von Seydlitz-Kurbach.
Alle 19:00 Paulus inviò un messaggio in cui il quadro era piuttosto desolante: “L’armata è circondata”, furono le sue prime parole, anche se il cerchio non si era ancora chiuso. Era un segnale debole e mal concepito, che non seguiva la procedura corretta. Peggio ancora, Paulus non proponeva nessuna contromisura efficace.
Alle 22:15 di quella sera ricevette un radiomessaggio dal Führer: “La 6a armata è momentaneamente circondata da forze russe. Conosco la 6a armata e il vostro comandante in capo e non ho dubbi che in questa difficile situazione resisterà coraggiosamente. La 6a armata deve sapere che sto facendo tutto il possibile per alleviare la sua situazione. Emanerò le mie istruzioni a tempo debito. Adolf Hitler”. Paulus e Schmidt, convinti che il dittatore, nonostante quel messaggio, alla fine avrebbe capito, cominciarono a preparare i piani per uno sfondamento a sud-est.
Il generale Jeschonnek, capo di Stato Maggiore della Luftwaffe, nonostante il parere contrario di von Richthofen, aveva assicurato Hitler che un ponte aereo per rifornire la 6a armata, almeno temporaneamente, era possibile.
Il maresciallo Göring6 convocò immediatamente una riunione dei suoi ufficiali addetti ai trasporti. Disse loro che erano necessarie 500 tonnellate al giorno. (La valutazione di 700 tonnellate della 6a armata fu ignorata). Gli ufficiali risposero che 350 tonnellate erano il massimo che potevano garantire e tra l’altro solo per un breve periodo. Göring, irresponsabilmente, assicurò Hitler che la Luftwaffe avrebbe potuto mantenere la 6a armata sulle sue posizioni con un ponte aereo. Il fatto era che, anche considerando la cifra minima, non erano state prese in considerazione le condizioni atmosferiche, aerei inutilizzabili e azioni del nemico.
Il 24 novembre, i generali della 6a armata furono delusi dal messaggio del Führer che delineava i confini di quella che chiamava la “Fortezza Stalingrado”. Il fronte sul Volga doveva essere tenuto “in qualunque circostanza”.
La sera prima il generale Kurt Zeitzler, il successore del generale Halder come capo di Stato Maggiore dell’esercito (OKH), era quasi sicuro che Hitler avrebbe capito. Ora, il Führer dimostrava senza dubbio che l’opinione di tutti i generali responsabili delle operazioni a Stalingrado non contava niente.
I loro sentimenti vennero riassunti da von Richthofen nel suo diario, quando scrisse che ormai erano diventati poco più di “sottufficiali molto ben pagati”. L’idea di Hitler della forza di volontà era lontana mille miglia dalla logica militare. La sua ossessione era che se la 6a armata si fosse allontanata da Stalingrado non vi sarebbe più tornata. Aveva intuito che quello era il limite massimo del Terzo Reich. Inoltre, data la sua maniacalità, era in gioco il suo orgoglio personale dopo le vanterie sulla città di Stalin espresse nel suo discorso alla birreria di Monaco meno di due settimane prima.
Il generale von Seydlitz-Kurbach, comandante dell’LI corpo d’armata, decise di fare da sé. Trovava assurdo che un’armata di venti divisioni dovesse mettersi in posizione difensiva globale, privandosi di ogni movimento. “Le minime battaglie difensive degli ultimi giorni hanno già prosciugato le nostre riserve di munizioni”.
Ordinò quindi alla 60a divisione di fanteria motorizzata e alla 94a divisione di fanteria di bruciare i propri depositi, far saltare le postazioni e quindi ritirarsi sul lato settentrionale di Stalingrado. L’Armata Rossa, allertata dalle esplosioni e i fuochi, colse allo scoperto la divisione già indebolita mentre si ritirava da Spartakovka, provocando circa 1.000 morti e feriti. Anche la 389a divisione di fanteria subì perdite mentre si ritirava dalla fabbrica di trattori.
Venuto a conoscenza della ritirata Hitler si infuriò e credendo von Seydlitz un fanatico della resistenza, se la prese con Paulus e per evitare ulteriori disobbedienze, con una decisione senza precedenti divise in due all’interno del Kessel il comando. Diede a von Seydlitz il comando della parte nord orientale della sacca comprendente Stalingrado. Paulus gli consegnò personalmente il messaggio. “Ora ha il suo comando personale”, gli disse sarcastico, “può rompere l’accerchiamento”. Von Seydlitz non riuscì a nascondere il proprio imbarazzo.
Von Manstein, nominato comandante del gruppo d’armate del Don con l’incarico di rompere l’accerchiamento, terrorizzato all’idea di avere due comandi separati, riuscì a fare in modo che i compiti venissero ridefiniti con maggiore razionalità.
In seguito all’accerchiamento di Stalingrado, l’incontro di Paulus con von Seydlitz non fu l’unico momento di imbarazzo. Alla Wolfsschanze, il maresciallo Antonescu venne sottoposto a una sfuriata dal Führer che addossò alle armate rumene la colpa del disastro. Antonescu, il più fedele alleato di Hitler, replicò con ardore. Ma poi i due si calmarono, non osando compromettere un’alleanza che nessuno dei due poteva permettersi di rinnegare, ma la loro pace non si rifletté ai livelli inferiori.
Gli ufficiali rumeni erano furibondi perché l’alto comando tedesco aveva ignorato i loro avvertimenti. I tedeschi, non tenendo in alcun conto le perdite rumene, li accusavano di essersi dati alla fuga provocando il disastro. Le tensioni salirono così alle stelle che Hitler fu costretto ad emanare una direttiva al comando della 6a armata dove si ordinava che le critiche alle manchevolezze degli ufficiali e soldati rumeni dovevano cessare. Le autorità sovietiche si accorsero della tensione tra i due alleati e organizzarono il lancio di 150.000 volantini sui settori rumeni.
Hitler intanto aveva deciso che il colpevole di tutto era il generale Heim del XXXXVIII che fu sollevato immediatamente dal comando, ma molti ufficiali sospettavano che Hitler volesse usare come capro espiatorio tutto il corpo ufficiale. Molti ufficiali antinazisti pensavano che lo Stato Maggiore non fosse più degno del proprio nome a causa della sua vile sottomissione a Hitler. Eppure il corpo ufficiali rimaneva ancora l’unico gruppo capace di opporsi a uno stato totalitario, a patto di individuare un comandante rispettato e disposto a opporsi a Hitler.
Von Manstein sembrava la figura più adatta, ma le sue tendenze politiche erano molto meno prevedibili, nonostante alcuni incoraggianti aspetti. Disprezzava Göring e detestava Himmler. Con i colleghi più fidati parlava dei suoi antenati ebrei. Era capace di fare del sarcasmo sul Führer. Aveva abituato il suo bassotto Knirps ad alzare la zampa ogni volta che gli diceva “Heil Hitler!”. D’altro canto sua moglie era una grande ammiratrice di Hitler, ancora più importante, von Manstein, emanò un famoso ordine alle sue truppe in cui raccomandava “la necessità di severe misure contro il giudaismo”. Ad una domanda su quale dei feldmarescialli impegnanti in quella guerra sarebbe potuto diventare il “salvatore della patria” in caso di disfatta totale. “Certamente non io”, rispose subito von Manstein.
Hitler aveva dato severe istruzioni affinché le notizie riguardanti l’accerchiamento a Stalingrado non giungessero al popolo tedesco. Il comunicato del 22 novembre parlava solo di un attacco sul fronte nord.
L’8 dicembre, fu ammesso che c’era stato un attacco a sud di Stalingrado, ma non si accennava affatto che la 6a armata fosse rimasta tagliata fuori. Simili finzioni furono mantenute fino a gennaio. Ovviamente le autorità naziste non potevano impedire il diffondersi di voci, soprattutto nell’esercito. Già dopo pochi giorni dall’accerchiamento i civili scrivevano al fronte per sapere se le voci fossero vere.
Le autorità naziste pensavano di sopprimere ogni notizia fino a che una forza di soccorso non fosse stata pronta a rompere l’assedio. Nel frattempo, Paulus era profondamente scettico sulla garanzia di Göring di rifornire la 6a armata, ma non si sentiva di controbattere al suo capo di Stato Maggiore che potevano resistere fino almeno ai primi di dicembre, quando Hitler aveva promesso di attuare uno sfondamento per liberarli.
Paulus si trovava davanti a un caso di coscienza e cioè se disobbedire al proprio superiore allo scopo di gestire la situazione come meglio riteneva. Gli ufficiali che non amavano il regime pensavano che se Paulus si fosse opposto avrebbe innescato una reazione in tutto l’esercito. Il pensiero prevalente era che gli ufficiali superiori avrebbero potuto persuadere Hitler ad abbandonare la carica di comandante in capo. In seguito si sarebbe potuto attuare un cambio di regime senza caos. Era una visione molto ingenua del carattere di Hitler. Anche la minima opposizione avrebbe provocato un bagno di sangue. Erano gli ufficiali più giovani, come von Stauffenberg, a riconoscere che ci si poteva sbarazzare del Führer solo con un assassinio.
Von Manstein sarebbe stato molto più adatto di Paulus a sostenere questa parte, ma come si sarebbe scoperto, il feldmaresciallo non aveva nessuna intenzione di accettare un ruolo così pericoloso. “Un feldmaresciallo prussiano non si ribella”, sostenne l’anno dopo.
Molti storici hanno dato l’impressione che quasi tutti gli ufficiali della 6a armata pensassero che fosse necessario fare un tentativo immediato di rompere l’assedio. Non è vero. Comandanti di corpo e di divisione e ufficiali di Stato Maggiore erano sicuramente favorevoli a un contrattacco, ma a livello di battaglioni e reggimenti di fanteria erano molto meno convinti. Le loro truppe, soprattutto quelle che si erano sistemate nei bunker, non volevano abbandonare le posizioni e gli armamenti pesanti per mettersi a marciare nella neve.
Infine erano anche restii a muoversi perché credevano nella promessa di un massiccio contrattacco che li avrebbe salvati. Lo slogan alla fine dell’ordine di Paulus del 27 novembre: “Resistete! Il Führer ci tirerà fuori”, era risultato molto efficace. (In seguito Schmidt cercò di negare che questo slogan provenisse dal comando della 6a armata e suggerì che fosse stato inventato da un comandante subordinato).
All’interno del Kessel i soldati erano propensi a credere allo slogan come a una promessa sicura. Lo stesso valeva per molti ufficiali, ma altri avevano intuito la realtà. Uno di loro disse privatamente ad un collega: “Non ne usciremo mai, è un’occasione unica che i russi non si lasceranno certo sfuggire”.
5 Il Berghof era la casa di Adolf Hitler sulle Alpi vicino Berchtesgaden nella Germania meridionale in Baviera, a una ventina di chilometri da Salisburgo in Austria.
6 Hermann Wilhelm Göring (Rosenheim, 12 gennaio 1893 – Norimberga, 15 ottobre 1946), famoso aviatore durante la prima guerra mondiale e nazista della prima ora. Fece rapidamente carriera nel partito fino ad essere nominato da Hitler suo successore e reichmarshall (carica istituita solo per lui) che lo rese il più alto ufficiale della Werhmacht. Pienamente coinvolto nella risoluzione della “questione ebraica”, a causa dei fallimenti militari della Luftwaffe, in particolare dopo Stalingrado, perse la fiducia di Hitler e fu emarginato da tutte le questioni militari. Consegnatosi agli americani l’8 maggio 1945, fu processato a Norimberga e condannato alla pena capitale mediante impiccagione per “crimini contro l’umanità”. A poche ore dalla sentenza si suicidò con una pasticca di cianuro, forse introdotta nella sua cella di nascosto da un tenente americano con cui intratteneva rapporti amichevoli.
STALINGRADO
Durante la prima settimana di dicembre, i russi effettuarono numerosi attacchi, decisi a dividere la 6a armata. I comandanti sovietici, però, capirono che gli assediati non erano affatto sconfitti. Nell’importantissimo settore sud-occidentale, la 57a armata aveva subito gravi perdite. Le spiegazioni del fallimento sovietico erano interessanti. Un rapporto, “artiglieria e fanteria non hanno interagito molto bene durante l’attacco alla linea difensiva nemica”, assomigliava a una circonlocuzione per gravi perdite dovute a fuoco amico. “I soldati non sono stati ben istruiti sulla necessità di scavare trincee”, osservava un altro rapporto. Una simile incapacità aveva condotto a “perdite irreparabili da parte di carri e aerei tedeschi”. Non si parlava del fatto che il terreno era ghiacciato e che mancassero quasi del tutto zappe e vanghe.
I servizi d’informazione del fronte del Don cercavano d’individuare le divisioni demoralizzate su cui concentrare gli attacchi. Gli attacchi si erano poi concentrati molto sulla 44a divisione di fanteria austriaca Hoch-und-Deutschmeister che non era riuscita a costruire nella steppa bunker adatti. Inoltre l’NKVD aveva notato che ogni volta che un austriaco veniva catturato, la designazione nazista “Ostmark”, il nuovo nome dell’Austria dopo l’annessione, spariva con incredibile rapidità dal suo vocabolario.
Eppure il morale della 6a armata rimaneva nel complesso molto buono. I fanti, particolarmente quelli nella steppa coperta di neve, scherzavano a proposito della “fortezza senza tetto”. I più giovani, cresciuti in un regime totalitario, non si aspettavano che qualcuno spiegasse la situazione. Per loro, l’assicurazione del Führer era una promessa che sarebbe stata mantenuta.
Ben presto le razioni furono ridotte drasticamente, ma ufficiali e sottufficiali assicurarono che la Luftwaffe li avrebbe riforniti di tutto. Qualche ufficiale di scarsa fantasia assicurò i soldati che entro Natale sarebbero stati a casa, von Manstein li avrebbe liberati.
I responsabili della gestione delle operazioni di rifornimento aereo erano molto meno ottimisti. Il quartiermastro della 6a armata, il 7 dicembre, segnalò: “Bisogna ridurre le razioni di un terzo o della metà, in modo che l’armata possa reggere fino al 18 dicembre. La mancanza di foraggio significa che la maggior parte dei cavalli dovrà essere macellata entro la metà di gennaio”.
Gli ufficiali della Luftwaffe dell’aeroporto di Pitomnik non si facevano illusioni, sapevano che per ripristinare le capacità di combattimento della 6a armata erano necessari un minimo di 300 voli al giorno, e non era possibile effettuarli.
In ogni caso l’aviazione dell’Armata Rossa, rafforzata e sempre più audace, e il fuoco concentrato della contraerea intorno al Kessel, rappresentavano una formidabile sfida per i trimotori Junkers 52.
Göring non aveva considerato che gli aeroporti potessero trovarsi nel raggio d’azione dell’artiglieria sovietica e, peggio ancora, non aveva tenuto in nessun conto le condizioni atmosferiche. Ci sarebbero stati molti giorni con visibilità zero e molti altri con temperature così basse da impedire la messa in moto dei motori dei velivoli, anche con i fuochi accesi sotto. Tuttavia, a parte von Richthofen, nessuno degli ufficiali fuori e dentro il Kessel osavano parlarne. “Se esprimevi i tuoi dubbi, ti consideravano un disfattista”, disse uno di loro.
Oltre a portare carburante, munizioni e viveri, gli aerei avrebbero dovuto evacuare i feriti dell’ospedale da campo vicino Pitomnik. L’indizio più evidente del pessimismo diffuso era la decisione segreta di evacuare, prima dei feriti, le infermiere tedesche per impedire che cadessero prigioniere dei russi. Nonostante gli sforzi per mantenere il segreto, gli ufficiali del 369o reggimento croato vennero a saperlo e cercarono di convincere gli ufficiali della Luftwaffe a evacuare le loro amanti travestite da infermiere.
Gli accampamenti, i bunker e le tende erano sparsi intorno all’area dell’aeroporto, i russi effettuarono in tre giorni, dal 10 al 12 dicembre, 42 incursioni aeree.
Nonostante la loro attività aerea sopra il Kessel, i russi non avevano ancora chiaro quanto grande fosse la forza che avevano intrappolato. Per i servizi d’informazione dell’Armata Rossa del fronte del Don, si trattava di circa 85.000 uomini. La cifra più probabile tenendo conto degli alleati e degli Hiwis, era quasi tre volte e mezza maggiore: circa 290.000 uomini. Tra gli alleati c’erano i resti di due divisioni rumene, un reggimento croato e una colonna autotrasportata di italiani che avevano scelto un pessimo momento per andare a raccogliere legna tra le rovine di Stalingrado.
Con la 6a armata ridotta in condizioni simili a quelle della prima guerra mondiale, i soldati più anziani si ritrovavano a ricordare le condizioni di vita sul fronte occidentale. Dopo il freddo di metà novembre, era seguito un periodo di disgelo con l’apparizione del “Generale Fango” poco prima del “Generale Inverno”. Alcuni erano tornati alle pratiche della vita da trincea, come ricorso all’unica fonte sicura di liquido caldo (l’urina) quando si lavavano per togliere il fango secco dalle mani.
Dopo aver demolito le abitazioni dei civili per costruirsi dei ricoveri, i soldati rivelavano un desiderio istintivo di trasformare i loro ricoveri in nuove case. Gli ingressi dei ricoveri e dei bunker non lasciavano trapelare quello che uno avrebbe potuto trovarci all’interno. I soldati costruivano cornici con le foto della famiglia ricevute da casa. Gli ufficiali si assicuravano di avere un tavolino, una panca ed un lettino.
Il generale Edler von Daniels si era fatto costruire un bunker da uno dei suoi ufficiali di Stato Maggiore in base a impeccabili progetti architettonici. Un altro ufficiale aveva un bunker abbastanza ampio da ospitarci un pianoforte. E lì, sotto terra, senza che nessuno lo sentisse all’esterno, suonava Bach, Hendel, Mozart e la Patetica di Beethoven. Le sue interpretazioni erano splendide, ma per qualcuno ossessive, infatti continuava a suonare anche quando le pareti tremavano per i bombardamenti e dal soffitto cadeva terriccio.
Molti non avevano fatto in tempo a ricevere l’abbigliamento invernale, perciò sotto le uniformi mettevano divise sovietiche, camicie a girocollo, larghi calzoni trapuntati. Il desiderio di avere dei guanti di pelliccia li induceva ad uccidere cani e a spellarli. Alcuni cercavano anche di farsi dei giubbotti con la pelle malamente conciata comprata dal macellaio della divisione, ma erano capi poco confortevoli, allora bisognava ricorrere a pagamento a qualche ex sellaio o ex calzolaio.
Quelle che stavano peggio erano le truppe nella steppa aperta. Vivevano in condizioni estremamente insalubri, coperti di pidocchi e con la dissenteria. Erano costretti a defecare in secchi dentro le loro buche e poi a gettare il contenuto fuori. In genere nelle lettere a casa i soldati risparmiavano i particolari peggiori della loro vita miserabile.
I tedeschi assediati immaginavano che i soldati dell’Armata Rossa davanti a loro avessero tutto in termini sia di razioni che di abiti caldi, ma spesso non era affatto così. I soldati meglio equipaggiati erano i cecchini (ai quali non si negava niente), anche se le loro perdite erano molto più alte di quelle in città, dove avevano maggiori possibilità di nascondersi o fuggire.
L’ossessione delle autorità russe per la segretezza aveva fatto sì che gli uomini non direttamente coinvolti nell’operazione Uranus erano venuti a saperlo solo cinque giorni dopo l’inizio. A prima vista, l’aspetto più sorprendente di quest’epoca di trionfi è il numero di disertori dell’Armata Rossa che continuavano ad attraversare le linee per arrendersi all’esercito tedesco, entrando così nella trappola, ma il paradosso si può spiegare in gran parte con un misto di ignoranza e sfiducia. Il colonnello Tulpanov, un raffinato ufficiale dell’NKVD, incaricato di “convincere a collaborare” gli ufficiali tedeschi, aveva detto in tutta franchezza a uno dei suoi prigionieri: “Quei russi rimanevano di stucco quando venivano a sapere dai tedeschi la stessa storia che era stata divulgata dalla loro propaganda. Non avevano creduto che i tedeschi fossero circondati”.
Ora i soldati dell’Armata Rossa, come era prevedibile, si divertivano a schernire a loro volta lo stesso nemico che fino a poco tempo prima li aveva scherniti.
Molto più organizzate erano le compagnie di propaganda dell’NKVD. Per ore e ore gli altoparlanti trasmettevano tanghi, che avrebbero dovuto creare un’atmosfera convenientemente sinistra, interrotti da messaggi incisi su dischi in cui si ricordava agli assediati la loro posizione senza speranza. All’inizio queste attività furono ininfluenti, ma in seguito, quando le speranze tedesche cominciarono a svanire, l’effetto raddoppiò.
L’attività di pattuglia da ambo le parti divenne molto intensa. A volte, quando le pattuglie russe e tedesche passavano le une accanto alle altre di notte nella terra di nessuno, facevano finta di non vedersi. Ognuna aveva l’ordine specifico di perseguire il proprio obbiettivo senza lasciarsi distrarre da un combattimento a fuoco. Ma quando si incontravano frontalmente, allora la lotta veniva condotta in un silenzio mortale con coltelli e baionette affilate.
Il flusso costante di nuovi rimpiazzi riportò le divisioni sovietiche alla forza prevista. Per una recluta unirsi a un plotone di soldati induriti dalla battaglia era sempre uno shock, ma approfittare della loro esperienza offriva migliori possibilità di sopravvivenza dell’essere aggregato a un reparto di novellini. Quando la recluta aveva accettato il concetto che la sopravvivenza era relativa e non assoluta e aveva imparato a vivere minuto per minuto, la tensione spariva.
Per un giovane cittadino sovietico, l’esperienza più traumatizzante non era la rudezza militare, ma il modo franco di parlare di argomenti politici dei frontoviki. Molti si esprimevano in un modo che induceva i nuovi arrivati a guardarsi alle spalle allarmati. Sostenevano che la vita dopo la guerra sarebbe stata diversa. L’esistenza tremenda di quelli che lavoravano nelle fattorie collettive e nelle fabbriche doveva essere migliorata e i privilegi della nomenklatura limitati.
A questo punto della guerra il rischio di essere denunciati al fronte era davvero irrisorio. (Il pericolo si ripresentò verso la fine della guerra, durante l’avanzata in Germania. Il compito dell’esercito era quasi esaurito e i dipartimenti speciali dell’NKVD, che ormai si chiamava SMERŠ, non persero tempo a imporre di nuovo il terrore stalinista).
All’interno del Kessel, invece, la disciplina della 6a armata rimaneva rigida.
Nel frattempo Hitler, cercando al suo solito di assicurarsi la lealtà, aveva cominciato a diventare generoso, elargendo medaglie e promozioni. Paulus era stato nominato colonnello generale. Per i soldati la principale fonte di consolazione era la promessa che il Führer avrebbe fatto il possibile per liberarli.
Persino gli ufficiali antinazisti non riuscivano a credere che Hitler avrebbe avuto il coraggio di abbandonare la 6a armata. Secondo loro, il colpo al morale della popolazione tedesca sarebbe stato troppo violento.
Nonostante la promessa di più di cento voli al giorno di rifornimenti con gli Junkers 52, nella prima settimana del ponte aereo, iniziato il 23 novembre, i decolli non raggiunsero i 30 al giorno. Solo il 24 novembre 22 aerei andarono persi. Gli Heinkel 111 dovettero essere distolti dai bombardamenti per utilizzarli come trasporti nel tentativo disperato di compensare le perdite.
I voli non riuscirono nemmeno a raggiungere il minimo promesso di 300 tonnellate al giorno, raggiunsero in una settimana appena 350 tonnellate. Anche nella seconda settimana le cose non migliorarono.
Per far fronte alla penuria di cibo, dovettero essere macellati gli animali da tiro. Nonostante la drastica riduzione delle razioni comunque il morale della truppa rimaneva alto, perché tutti convinti che quella situazione non sarebbe durata a lungo.
Stalin eccitato dei risultati conseguiti e, come al solito impaziente, spingeva per la distruzione definitiva della 6a armata e si attuasse la seconda parte della strategia, l’operazione Saturno, che prevedeva l’annientamento dell’8a armata italiana e l’avanzata a sud, verso Rostov, per tagliare fuori il resto del gruppo d’armate del Don oltre intrappolare la 1a Panzerarmee e la 17a armata del Caucaso. La data fissata era il 10 dicembre. Vasilevskij, però, sapeva che anche con sette armate sovietiche schierate contro la 6a armata, distruggere le divisioni di Paulus sarebbe stato molto più difficile di quel che si pensasse ed, in più, non si sapeva quale sarebbe stata la reazione di von Manstein per salvare l’armata assediata.
Žukov e Vasilevskij in privato convennero che con molta probabilità avrebbero dovuto rimandare l’operazione Saturno ed attuare l’avvio di un’operazione Piccolo Saturno, consistente in un attacco alle retrovie ed al fianco sinistro dell’armata di von Manstein. Questo avrebbe comportato il brusco arresto di ogni tentativo di liberare la 6a armata.
Il piano di von Manstein per salvare la 6a armata, operazione Tempesta d’Inverno, era stato sviluppato in pieno accordo con il quartier generale del Führer. Lo scopo era creare un corridoio per rifornirla e nel contempo rafforzarla in modo che, secondo i desideri di Hitler, potesse mantenere la sua posizione sul Volga in previsione delle operazione del 1943. Tuttavia von Manstein, consapevole che l’armata non sarebbe sopravvissuta all’inverno, preparò un ulteriore piano nel caso Hitler diventasse più ragionevole. Quest’ultimo, operazione Rombo di Tuono, comprendeva il successivo sfondamento della 6a armata se la prima fase si fosse svolta senza intoppi e la sua successiva incorporazione nel gruppo di armate del Don.
Come Žukov aveva previsto, l’offensiva tedesca si sarebbe sviluppata partendo dalla zona di Kotelnikovo, a sud, a 160 chilometri dalla 6a armata, dove si trovava solo il LVII Panzerkorps appoggiato dai resti eterogenei della 4a Panzerarmee di Hoth.
La LVII Panzerkorps (generale Kirchner) non appariva come un’unità forte. Era formata da due divisioni di cavalleria rumena e dalla 23a Panzerdivision, che poteva contare su una trentina di carri utilizzabili. Era arrivata dalla Francia anche la 6a Panzerdivision (generale Raus) a ranghi completi, 160 carri Mark IV con pezzi a canna lunga e 40 cannoni d’assalto. In uno scontro il 3 dicembre inflisse gravi perdite al IV corpo di cavalleria sovietico. L’arrivo della divisione confermò i sospetti che i tedeschi si accingevano a colpire a nord-est da Kotelnikovo, e Stalin continuava a rifiutare di trasferire riserve nel settore minacciato. Ma i tedeschi avevano già perso fin troppo tempo. La 17a Panzerdivision che avrebbe dovuto completare la forza d’attacco, fu tenuta di riserva per ordine di Hitler dietro l’8a armata italiana e si unì solo dopo quattro giorni dall’inizio delle operazioni. Tuttavia il Führer insisteva che non si doveva perdere tempo. Era anche impaziente di scoprire come si comportava il nuovo carro Tiger con il cannone da 88 mm di cui un primo battaglione era stato aggregato alle forze di Kirchner.
Il 12 dicembre, dopo un breve bombardamento d’artiglieria, i carri di Hoth attaccarono verso nord. Il rombo lontano della battaglia faceva crescere ulteriormente la fiducia ai soldati tedeschi nella sacca di Stalingrado. Ma Hitler non aveva nessuna intenzione di permettere alla 6a armata di rompere l’accerchiamento. Aveva dichiarato al generale Zetzler che era impossibile ritirarsi da Stalingrado perché ciò avrebbe comportato la rinuncia “all’intero significato della campagna”. Proprio come pochi giorni prima von Kluge aveva detto a von Manstein, era ossessionato dagli eventi dell’inverno precedente, quando aveva ordinato al gruppo d’armate di Centro di tenere duro. “Quando un’unità comincia a scappare”, declamò al capo di Stato Maggiore dell’esercito, “i vincoli della legge e dell’ordine si allentano rapidamente durante la fuga”.
I sovietici non si aspettavano l’inizio dell’offensiva così presto. Erëmenko temeva la perdita della 57a armata che teneva l’angolo sud-ovest della sacca. Vasilevskij, che era al comando della 51a armata, cercò di mettersi in contatto con Stalin, ma non ebbe successo. Allora chiese al generale Rokossovskij, comandante del fronte del Don, di trasferire la 2a armata Guardie al comando del fronte di Stalingrado per bloccare l’offensiva. Rokossovskij protestò vivacemente e quando Vasilevskij, la sera, riuscì a parlare con Stalin, scoprì, sgomento, che il Supremo era furioso per quello che riteneva un tentativo di costringerlo a prendere una decisione. Il Grande Leader si rifiutò di dargli una risposta e Vasilevskij trascorse una notte insonne.
La 6a Panzerdivision era a una cinquantina di chilometri, alla fine, dopo discussioni al Cremlino e altre telefonate, Stalin autorizzò il trasferimento dell’unità entro un paio di giorni.
Il secondo giorno dell’offensiva, la 6a Panzerdivision raggiunse il villaggio di Verkne-Kumskij, dove si svolse una furiosa battaglia di carri di tre giorni. I tedeschi si assicurarono il successo avanzando fino al fiume Miškova, ma tali eventi furono irrilevanti per le sorti della 6a armata. Decisivi furono invece quelli che si svolsero a 185 chilometri a nord-ovest.
Stalin capì perfettamente che Žukov e Vasilevskij avevano ragione. Il modo più efficace di vanificare il tentativo di liberare l’armata di Paulus, era bloccare l’avanzata di Hoth sul fiume, sferrando il colpo decisivo altrove. Accettò l’idea di rivedere l’operazione Saturno. Gli ordini vennero modificati alla versione emendata dell’operazione, nota come Piccolo Saturno.
Il piano prevedeva l’attacco all’8a armata italiana e alle retrovie del gruppo d’armate del Don, rinunciando a colpire Rostov.
Il 19 dicembre, von Manstein aveva mandato in aereo il responsabile dei suoi servizi d’informazione all’interno della sacca. La sua missione consisteva nell’informare Paulus e Schmidt dell’operazione Rombo di Tuono in modo che preparassero la 6a armata. E’ chiaro che von Manstein evitò ancora di assumersi la responsabilità di disobbedire a Hitler. Non aveva dato a Paulus informazioni chiare e aveva rifiutato, per validi motivi di sicurezza, di volare nel Kessel a discutere di persona la questione. Eppure doveva sapere fin dall’inizio che Paulus, fermo sostenitore della catena di comando, non avrebbe mai spezzato l’accerchiamento senza un ordine ufficiale dall’alto.
Nelle sue memorie, gli sforzi di von Manstein di assolversi da ogni colpa per il destino della 6a armata sono stranamente eccessivi, oltre che sleali nei confronti di Paulus. Sembrerebbe che abbia sofferto di una cattiva coscienza, ma nessuno glielo rimproverò.
Il 16 dicembre, a quattro giorni dall’inizio dell’offensiva tedesca, i sovietici, 1a a 3a armata Guardie, oltre alla 6a più a nord sul corso del Don attaccarono verso sud.
Dopo un’iniziale accanita resistenza, l’8a armata italiana era crollata in capo a due giorni.
Non c’erano riserve per contrattaccare, ora che la 17a Panzerdivision era stata mandata di rinforzo per le operazioni a est del Don. La minaccia principale per i tedeschi era l’avanzata di 200 chilometri del XXIV corpo corazzato che, il 23 dicembre, aveva occupato Skassirskaja a nord di Tatsinkaja, la principale base di Junkers 52.
L’ordine del Führer era di non far alzare gli aerei finché non fossero stati minacciati dall’artiglieria. Nessuno dell’entourage di Hitler sembrava avere preso in considerazione la possibilità che una colonna corazzata potesse arrivare ai bordi della base aerea ed aprire il fuoco.
Gli ufficiali dell’aeroporto erano furiosi. Si poteva sempre riconquistare un aeroporto, ma se si perdevano gli aerei da trasporto per la 6a armata non c’era più nulla da fare. Non avevano mezzi per difenderlo, si potevano solo far decollare rapidamente gli aerei, ce n’erano così tanti che la cosa non risultò facile, in più c’era nebbia fitta.
Alle 5:20, all’esplodere dei primi proiettili, iniziarono i decolli, ma per i russi era come sparare al bersaglio a una fiera. Un carro arrivò addirittura a speronare uno Junkers in rullaggio. Esplosero tutti e due. Nel complesso si salvarono 108 Junkers 52 e 16 Junkers 86, ma la perdita di 72 velivoli rappresentava il 10 per cento di tutta la flotta da trasporto della Luftwaffe.
La formazione russa fu ribattezzata II corpo corazzato Guardie e il suo comandante fu il primo a ricevere il nuovo Ordine di Suvorov.
L’esito della missione di Hoth era già scontato e la possibilità di sfondamento in direzione di Rostov costrinse von Manstein a rivedere tutte le posizioni. La 6a Panzerdivision aveva perso 1.100 uomini in un giorno. Il 23 dicembre, il corpo corazzato di Hoth ricevette, senza spiegazioni, l’ordine di ritirarsi. Anche all’ultimo dei soldati era chiaro che il destino della 6a armata fosse segnato. Non sapevano i motivi, ma avevano la netta sensazione che doveva essere successo qualcosa di tremendo.
La notte stessa del 23 dicembre, Paulus chiese di poter tentare uno sfondamento, ma von Manstein rispose che non aveva ancora ottenuto l’approvazione dal comando supremo. Se Paulus avesse avuto le carte con la situazione aggiornata, si sarebbe reso conto che per la 6a armata non c’era più nulla da fare.
Intanto dal 16 dicembre tutto venne avvolto dal gelo ed il Volga era finalmente diventato attraversabile. Questo per l’armata di Čujkov era il massimo della gioia, finalmente potevano ricevere i rifornimenti. Si erano sostentati fino a quel momento con le riserve d’emergenza di 12 tonnellate di cioccolata e gli scarsi lanci di viveri dei biplani Polikarpov U-2.
Nel corso delle settimane successive più di 30.000 veicoli di ogni genere e cannoni attraversarono il fiume. La scarsità di proiettili d’artiglieria dei tedeschi, non consentiva loro di battere il fiume continuamente. I soldati russi adesso potevano andare a gruppi sul ghiaccio nei bagni costruiti sull’altra riva e ritornare puliti e spidocchiati.
Čujkov si recò sull’altra riva per la prima volta da ottobre, recandosi ad una festa data dal comandante delle truppe dell’NKVD, generale Rogatin. Al ritorno, ubriaco, cadde in una buca nel ghiaccio e dovette essere ripescato dall’acqua gelida. Per poco il comandante della 62a armata non fece una fine ignominiosa e poco gloriosa.
Se i russi erano felici del gelo, i medici tedeschi invece lo temevano molto. La capacità di recupero di feriti e malati diminuiva. A causa del suolo gelato, le ferite da scheggia da Katjuša o mortaio aumentavano, i casi di congelamento si moltiplicavano. Inoltre i medici avevano notato un altro fenomeno inquietante: un numero sempre maggiore di soldati moriva improvvisamente senza aver ricevuto ferite o subito malattie diagnosticabili. Certo le razioni erano molto ridotte, ma non sembravano giustificare la morte per fame.
Il dottor Girgensohn, patologo della 6a armata, che all’epoca si trovava fuori della sacca, ricevette l’ordine di recarvisi e investigare sul fenomeno. Egli visitò tutta l’area (c’era una tale scarsità di legno che i cartelli tattici più importanti erano attaccati ad inusuali paletti di zampe di cavalli macellati). Dovendo eseguire delle autopsie, aveva il problema che i cadaveri erano tutti congelati. Una notte un infermiere fu incaricato di girare una salma vicino al fuoco per scongelarla, ma si addormentò ed il risultato fu che metà cadavere era congelato e l’altra metà carbonizzato. Il medico riuscì ad eseguire cinquanta autopsie. In metà dei casi trovò chiari sintomi di morte per inedia.
Nel tentativo di compensare la dieta di pane e “wassersuppe” con pezzetti di carne congelata, venivano buttate dentro il contenuto di scatolette di carne di cavallo ad alto contenuto di lipidi, ma risultò controproducente. Molto spesso un sergente faceva il giro delle sentinelle e capitava che un soldato gli dicesse: “Sto bene, adesso mangerò qualche cosa”, e poi consumasse quella carne conservata ad alto contenuto di lipidi. Quando il sergente compiva un secondo giro di ispezione, scopriva che l’uomo era morto.
Il patologo, che trascorse parecchi anni in un campo di lavoro russo e continuò a studiare il fenomeno, aveva sempre rifiutato la teoria di un malessere da stress come spiegazione di quelle morti inspiegabili. Tuttavia ricerche successive avevano dimostrato che i topi deprivati del sonno dopo circa tre settimane morivano: probabilmente questo si può applicare anche agli esseri umani. L’abitudine dei russi di attaccare di notte e la continua attività senza riposo avevano senza dubbio contribuito a logorare gli uomini, come Gingensohn poi ipotizzò. Ma anni dopo diede una spiegazione più complessa. Egli si convinse che l’insieme di spossatezza, stress e freddo avesse alterato il metabolismo di molti soldati. Questo voleva dire che se anche ricevevano 500 calorie giornaliere, in realtà ne assorbivano molto meno. Perciò si potrebbe dire che la tattica sovietica, le condizioni atmosferiche e la penuria di cibo, abbiano causato un’accelerazione del processo di morte per inedia o almeno vi abbia contribuito.
Naturalmente aumentarono i casi e la mortalità anche delle malattie dovute alle scarse condizioni igieniche come il tifo e il paratifo, il tifo esantematico, la dissenteria e l’epatite virale.
Nella steppa non c’era acqua per lavarsi il corpo e gli abiti e non c’era abbastanza carburante per sciogliere il ghiaccio e la neve. “Ci sono poche novità qui”, scriveva un tenente. “In cima alla lista c’è il fatto che ogni giorno siamo sempre più infestati dai pidocchi. I pidocchi sono come i russi: ne ammazzi uno, ne appaiono altri dieci.” I pidocchi furono la causa principale di malattie epidemiche che decimarono i sopravvissuti di Stalingrado.
Il primo accerchiamento di una grande armata tedesca intrappolata lontana dalla patria, con l’ordine di non muoversi e alla fine abbandonata al proprio destino, ha ovviamente suscitato un vivace dibattito nel corso del tempo. Molti storici e non, hanno rimproverato a Paulus di non avere disobbedito agli ordini e di non avere tentato una sortita. Ma l’unico o almeno uno dei pochi che avrebbe potuto dare un suggerimento a Paulus privo di informazioni, avrebbe dovuto essere il suo superiore diretto, il feldmaresciallo von Manstein.
“Si possono servire due padroni?” annotava il generale Strecker dopo che Hitler aveva respinto l’operazione Rombo di Tuono, il piano di sfondamento che avrebbe dovuto seguire Tempesta d’Inverno. Ma l’esercito tedesco aveva un solo padrone. L’accondiscendenza mostrata fin dal 1933 dalla maggior parte degli ufficiali superiori lo aveva lasciato senza più onore e impotente dal punto di vista politico. Stalingrado era il prezzo che ora l’esercito tedesco aveva dovuto pagare per gli anni di privilegi e protezione da parte dei nazisti.
E’ stato dedicato molto tempo a discutere la fattibilità di uno sfondamento nella seconda metà di dicembre, ma persino i comandanti carristi riconoscevano che le possibilità di riuscita diminuivano di settimana in settimana. La fanteria si faceva ancora meno illusioni.
Perciò il dibattito sullo sfondamento o la difesa ad oltranza è una diversione del tutto accademica dai veri problemi. In realtà, si può presumere, che von Manstein, della cui intelligenza non si può dubitare, ne fosse perfettamente consapevole a quell’epoca. La missione del 19 dicembre nel Kessel per preparare la 6a armata all’operazione di sfondamento era stata tutta una scena. Von Manstein sapeva già che Hitler, il quale aveva riconfermato la sua decisione di non muoversi dal Volga, non avrebbe cambiato idea. In ogni caso egli aveva anche capito che il tentativo di salvataggio era destinato a finire male. Le truppe corazzate di Hoth erano già ridotte male ad ancora 50 chilometri dalla sacca e il grosso delle truppe sovietiche si dovevano ancora schierare. E, consapevole delle condizioni dei soldati della 6a armata, sapeva che le truppe non avrebbero mai marciato né tantomeno combattuto per decine di chilometri in mezzo a tempeste di neve e intense gelate. La 6a armata con meno di 70 carri e per di più a corto di rifornimenti, non aveva alcuna possibilità di sfondare sul fronte della 57a armata russa. In più l’operazione Piccolo Saturno, con tre armate russe che attaccavano le sue retrovie, avrebbe cambiato irrevocabilmente la situazione.
Von Manstein capì che, agli occhi della storia e dell’esercito, doveva apparire come quello che aveva fatto ogni sforzo per salvare l’armata assediata, anche se pensava del tutto correttamente che l’unica possibilità di salvare la 6a armata era svanita almeno un mese prima.
Chi sosteneva la necessità di uno sfondamento nella seconda metà di dicembre non teneva conto anche di un fattore psicologico importante: si avvicinava il Natale. Nessuna formazione della Wehrmacht era più preoccupata dell’evento della 6a armata assediata. Gli sforzi assolutamente straordinari dedicati all’osservanza della festività nei bunker sotto la steppa non sembravano indicare un irresistibile desiderio di rompere l’accerchiamento. L’apatia dovuta alla denutrizione e i sogni ad occhi aperti avevano senza dubbio la loro parte, come anche la mentalità da “Fortezza” che Hitler contribuiva a diffondere. Ma nessuno di questi aspetti spiega in modo soddisfacente la concentrazione emotiva quasi ossessiva che la prospettiva del Natale suscitava in questi uomini intrappolati lontani da casa.
I preparativi iniziarono molto prima dell’offensiva di von Manstein. Fin dai primi giorni del mese i soldati incominciarono a mettere da parte piccole quantità di cibo, non come preparazione di uno sfondamento attraverso la neve, ma come doni per festeggiare il Natale. Un’unità della 297a divisione di fanteria macellò un cavallo per fare salsicce come regalo natalizio. Piccoli alberi di Natale venivano incisi nel legno.
Questo sentimentalismo non era limitato solo ai soldati. Un generale decorò il proprio bunker con un albero di Natale, sotto il quale c’era una culla con la foto del “figlio del Kessel” nato subito dopo l’accerchiamento. I commilitoni erano diventati il surrogato della famiglia. “Ognuno cercava di procurare un po’ di felicità agli altri”, scrisse un ufficiale dopo avere visitato i suoi uomini.
Kurt Reuber7, ufficiale, teologo e medico, amico di Albert Schweitzer8, era anche un artista dilettante talentuoso. Aveva trasformato il suo bunker in uno studio medico e dipinse sul retro di una mappa catturata ai russi, il disegno (che si trova attualmente nella chiesa commemorativa del Kaiser Guglielmo) intitolato “La Madonna della Fortezza”, una madre che accoglie protettiva il figlio nel proprio grembo e sotto le parole di San Giovanni Evangelista “Luce, Vita, Amore”. Era appeso sulle pareti del suo bunker, con grande imbarazzo di Reuber, ognuno che entrava e lo vedeva, scoppiava a piangere. Il bunker divenne una specie di santuario.
Non ci possono essere dubbi sulla spontaneità e sulla generosità di quel Natale. Un tenente rinunciò alle sue ultime sigarette per regalarle ai suoi uomini. “Per me non è niente”, scrisse a casa, “eppure è stato uno dei Natali più belli e non lo dimenticherò mai”. Oltre a regalare le sigarette, i soldati donavano anche il pane, pur avendone un gran bisogno. Altri costruivano faticosamente oggetti utili per i loro commilitoni. Stille Nacht, heilige Nacht fu cantata dappertutto tra singhiozzi soffocati.
Gli uomini si affollarono in un bunker dove c’era una ricetrasmittente per ascoltare “la trasmissione natalizia della Grossdertsche Rundfunk”. Con loro grande meraviglia, udirono una voce che annunciava: “Qui Stalingrado!”, seguita da un coro che cantava Stille Nacht presumibilmente dal Volga. Alcuni accettarono quel sotterfugio, ma altri si irritarono profondamente.
Il giorno di Natale non venne mandato alcun rifornimento. Il 26 dicembre ne giunsero finalmente 108 tonnellate, il comando della 6a armata scoprì che avevano mandato dieci tonnellate di dolci, ma niente carburante.
I cappellani militari celebrarono messe al campo e distribuivano la comunione in mezzo alla neve. In certi casi il conforto spirituale e la giustificazione ideologica si confondevano nella contrapposizione tra la Germania cristiana e la Russia atea.
Anche all’interno del Kessel, Natale non fu sempre la celebrazione della buona volontà. 3.500 prigionieri di guerra russi dei campi di Veronovo e Gumrak non ricevettero alcuna razione di cibo. Questa atrocità in parte burocratica, portò a venti il tasso di decessi il giorno di Natale. Anche quando i prigionieri disperati ricorsero al cannibalismo, non si fece niente per migliorarne la condizione, perché avrebbe significato “sottrarre il cibo ai soldati tedeschi”.
La guerra comunque non si fermava, i russi attaccarono la notte di Natale nel settore nord-est. Furono mandate truppe a contrattaccare ad una temperatura di meno 35 gradi e riuscirono a distruggere una settantina di carri. Gli attacchi di solito avvenivano all’alba ed al tramonto, i fanti tedeschi erano talmente spossati che, pur respingendo gli attacchi, poi non avevano la forza di seppellire i cadaveri dei loro commilitoni irrigiditi dal freddo.
Paulus, in contrapposizione ai messaggi pessimistici al gruppo d’armate del Don e alle lettere alla moglie, firmò un vibrante messaggio di Capodanno alla 6a armata: “La nostra volontà di vittoria è intatta e l’anno nuovo comporterà certamente la nostra liberazione! Non posso ancora dire quando ciò succederà. Tuttavia il Führer non ha mai mancato alla sua parola e anche questa volta sarà così”.
Il messaggio di Capodanno di Hitler a Paulus ed alla 6a armata suscitò un entusiasmo quasi maniacale. Solo i più scettici notarono che quel testo non conteneva alcuna garanzia. “In nome di tutto il popolo tedesco, mando a lei ed alla sua valorosa armata gli auguri più sinceri di buon anno. Ho ben presente la difficoltà della vostra pericolosa posizione e ho il massimo rispetto per l’eroica resistenza delle sue truppe. Tuttavia lei e i suoi soldati dovreste intraprendere il nuovo anno con l’incrollabile fiducia che io e l’intera Wehrmacht faremo tutto quello che potremo per liberare i difensori di Stalingrado e che grazie alla vostra fedeltà assisteremo al più glorioso fatto d’armi della storia della Germania. Adolf Hitler”.
Le lettere di molti soldati da Stalingrado riflettevano una nuova atmosfera di determinazione. Ma i battaglioni e le compagnie erano sempre più indeboliti, dei 150.000 soldati rimasti nella sacca meno di uno su cinque apparteneva a truppe di prima linea. La mortalità dei soldati nella steppa aumentava sempre di più.
Il 6 gennaio, Paulus trasmise al generale Zeitzler: “Armata affamata e congelata. Non ho munizioni e non posso più muovere i carri”. Lo stesso giorno, Hitler insigniva il generale Schmidt della Croce di Cavaliere della Croce di Ferro9.
7 Kurt Reuber (1906 – 1944) morì di tifo il 20 gennaio 1944 nel campo di prigionia di Jelabuga, dopo avere dipinto un’altra Madonna per i prigionieri suoi camerati.
8 Albert Schweitzer (Kaysersberg, 14 gennaio 1875 – Lambaréné, 4 settembre 1965) francese alsaziano, medico, musicista, teologo e missionario in Africa (Gabon). Insignito nel 1952 del Nobel per la pace, morì novantenne nel villaggio africano dove lavorò fino all’ultimo e lì è sepolto.
9 Decorazioni del Terzo Reich durante la guerra:
STALINGRADO
Stalin, ancora prima che fallisse il tentativo di Hoth, tormentava i suoi generali perché gli presentassero i piani di annientamento della 6a armata. Il 28 dicembre gli fu consegnata la bozza dell’operazione Anello cui fece apportare delle modifiche, insistendo che la prima fase d’attacco dovesse tagliare il distretto industriale di Stalingrado ed i sobborghi settentrionali.
Inoltre osservò che la rivalità tra il generale Rokossovskij, comandante del fronte del Don e Erëmenko, comandante del fronte di Stalingrado, dovesse essere risolta prima dell’operazione. “A chi daremo la responsabilità della liquidazione definitiva della 6a armata?” chiese. Qualcuno menzionò Rokossovskij. Stalin chiese a Žukov cosa ne pensasse. “Erëmenko si offenderebbe tantissimo”, commentò Žukov. “Non siamo scolarette”, rispose Stalin. “Siamo bolscevichi e dobbiamo mettere al comando leader validi”. Toccò a Žukov comunicare la spiacevole notizia a Erëmenko.
A Rokossovskij furono concesse 47 divisioni, 5.610 cannoni da campagna e mortai pesanti e 169 carri, 300 aerei avrebbero appoggiato questa forza di 218.000 uomini.
L’inizio dell’attacco fu fissato per il 10 gennaio.
Durante la prima settimana di gennaio, ormai molti, tedeschi e russi al fronte di Stalingrado, si stavano chiedendo cosa aspettassero i russi a schiacciare la 6a armata. Ma il volere del Supremo era di preparare e presentare un ultimatum ai tedeschi. La traduzione fu fatta da “antifascisti tedeschi del gruppo capeggiato da Walter Ulbricht10”.
Vennero incaricati della missione il maggiore Aleksandr Michalovič Smjslov dei servizi d’informazione dell’esercito e il capitano Nikolaj Dmitrevič Djatenko dell’NKVD. Nessuno, però, aveva idea delle regole e rituali di una negoziazione di tregua.
Vestiti con le uniformi più belle (bisognava far colpo sui tedeschi) si avviarono verso il settore della 24a armata, ma nonostante i messaggi in tedesco non poterono avvicinarsi perché i tedeschi spararono su di loro. Paulus ha sempre negato di aver dato l’ordine di sparare, ma potrebbe averlo dato Schmidt.
La notte furono lanciati i volantini dell’ultimatum dagli aerei seguiti da bombe, tanto per sottolineare il contenuto del messaggio. La radio dell’Armata Rossa lo diffuse sulle frequenze più utilizzate dai tedeschi e un gran numero di operatori tedeschi lanciò il segnale di “ricevuto”.
I negoziatori stavolta cambiarono settore, dopo un lungo viaggio attraversarono il Don a Kalač e si prepararono ad un nuovo tentativo. Accompagnati da un tenente della 96a divisione fucilieri e da un sottufficiale con una tromba che suonò il segnale di attenzione agitando una bandiera bianca. “Cosa volete?”, rispose un sottufficiale tedesco. Dissero di essere negoziatori, di voler consegnare un messaggio e di essere accolti secondo le convenzioni internazionali. Il tedesco si allontanò tornando con tre ufficiali. Poi i russi bendati furono portati in un bunker all’interno del territorio tedesco. Lì dissero che la loro missione era consegnare un plico al generale Paulus. In un’atmosfera abbastanza cordiale si misero ad attendere che un colonnello a sua volta andasse a riferire al suo comando la richiesta. Quando l’ufficiale tornò, fu solo per riferire che i suoi ordini erano di non accettare nulla, di non parlare e di riaccompagnare i negoziatori incolumi indietro. Raggiunte le trincee i due gruppi si salutarono.
Intanto era chiaro che i rifornimenti via aerea erano una chimera. Raramente era stato usato il termine “ponte aereo”. L’idea di un collegamento permanente appagava solo gli illusionisti chini sulle mappe a Berlino o Rastenburg. Le condizioni del tempo erano spesso non favorevoli per visibilità e ghiaccio, il numero di aerei era insufficiente, l’aeroporto nella sacca era battuto dall’artiglieria e dalla caccia russa. Il generale von Richthofen aveva avvertito (inascoltato) che per un ponte aereo come quello che si pretendeva all’interno del Kessel, sarebbero serviti sei aeroporti con almeno due piste. Gli aeroporti di provenienza erano distanti più di 300 chilometri, quindi l’autonomia massima era al limite.
Gli uomini dell’aeronautica cercavano di eseguire al meglio un compito che sapevano impossibile fin dall’inizio. Ma nonostante tutto questo, Göring aveva dichiarato a Hitler che la situazione dei rifornimenti “non era male”. Saputolo von Richthofen aveva scritto sul suo diario: “A parte il fatto che dovrebbe passare un po’ di tempo nel Kessel, posso solo presumere che i miei rapporti o non sono letti o non sono creduti”.
Mentre Göring non aveva mai fatto niente per nascondere il proprio appetito, il generale Zetzler, in segno di solidarietà con le truppe affamate di Stalingrado, aveva ridotto la propria razione al livello delle loro. Aveva perduto 13 chili in due settimane. Informato, Hitler gli ordinò di tornare a mangiare. Come unica concessione, il Führer bandì il brandy e lo champagne dal suo quartier generale “in onore degli eroi di Stalingrado”. Intanto la stragrande maggioranza dei civili in Germania non aveva la minima idea di quanto la 6a armata fosse vicina alla disfatta definitiva.
Mentre gli assediati attendevano l’offensiva russa, la loro lotta era contro il freddo intenso. Si bruciava tutto il possibile per produrre calore. In mancanza del vero calore l’unico sostituto era l’aria viziata prodotta dall’ammucchiamento dei corpi sotto le tele cerate. Il relativo riscaldamento non faceva altro che mettere in azione i pidocchi, costringendo i soldati a grattarsi selvaggiamente.
I colli erano scheletrici, le guance scavate e con la barba lunga, gli abiti sudici e i corpi pullulavano di pidocchi. La razione di pane scese a meno di 200 grammi, ma più spesso era poco più di 100. L’attività mentale per il freddo e la fame rallentava. Gli ufficiali dell’aeroporto rinunciarono a giocare a scacchi perché non riuscivano più a concentrarsi. I soldati erano per lo più in una condizione di apatia.
Dai primi di gennaio un numero sempre maggiore di tedeschi cominciò ad arrendersi o a disertare.
I feriti in evacuazione aerea fuori dalla sacca, spesso morivano per gli attacchi dell’aviazione russa all’aeroporto, o per la contraerea o spesso perché sovraccarichi. In un quadrimotore Focke-Wulf Condor, mentre cabrava bruscamente per guadagnare quota, il carico umano imponente al suo interno doveva essere rotolato nella parte posteriore. I motori urlarono mentre la prua si levava al cielo quasi in verticale, poi precipitò ed esplose.
Il 9 gennaio, la vigilia dell’offensiva sovietica, il generale Hube tornato nel Kessel, disse a Paulus e Schdmidt che Hitler semplicemente si rifiutava di riconoscere la possibilità di una sconfitta a Stalingrado. Non aveva voluto ascoltare il suo racconto sulle condizioni di vita nella sacca, ma aveva cercato di convincerlo che si sarebbe potuto attuare un secondo tentativo di salvataggio.
Alcuni ufficiali di Hube erano amareggiati che proprio lui, tra tutti, si fosse fatto coinvolgere in una delle sceneggiate di Hitler piene di ipnotizzante ottimismo, la famosa “cura del sole”. Tuttavia altri avevano saputo che Hube aveva persino osato “consigliare ad Hitler di cercare di porre fine alla guerra”. In un certo senso le parti avevano ambedue ragione. Hube si era lasciato coinvolgere in una delle manifestazioni di fiducia del Führer, ma nello stesso aveva anche suggerito ad Hitler di cedere il comando supremo dell’esercito a un generale per evitare di essere danneggiato in caso di perdita della 6a armata. Hube era uno dei comandanti preferiti di Hitler, ma la sua decisa convinzione che la 6a armata non avesse scampo confermava il sospetto che tutti i generali fossero afflitti da pessimismo. Paulus ne era consapevole ed era giunto alla conclusione che solo un giovane guerriero insignito di alte decorazioni avrebbe potuto influire sulle romantiche concezioni di Hitler, collocandosi così in una posizione migliore per convincerlo ad accettare la verità.
Paulus aveva un ottimo candidato per questa missione: il capitano Winrich Behr, carrista, decorato e responsabile dell’aggiornamento delle mappe della sala situazioni, perciò uno degli ufficiali meglio informati del comando della 6a armata. Lasciò la sacca il 12 gennaio, due giorni dopo l’inizio dell’offensiva sovietica. Prima fece rapporto a von Manstein, che gli disse di riferire a Hitler esattamente quello che aveva detto a lui. Giunto a Rastenburg, venne scortato alla sala situazioni, erano presenti venticinque ufficiali superiori. Hitler apparve dopo alcuni minuti salutando il giovane capitano carrista: “Heil Herr Hauptmann”. “Heil mein Führer ”, rispose Behr che era già stato informato su quale fosse la tattica di Hitler quando una “Cassandra” veniva a portare brutte notizie. Cercava invariabilmente di controllare la conversazione, imponendo la propria versione dei fatti e sopraffacendo l’interlocutore, che era a conoscenza di un solo settore del fronte, con la sua possente conoscenza della situazione complessiva. E questo fu esattamente quello che accadde.
Quando ebbe finito di descrivere i suoi piani per l’operazione Dietrich, un grande contrattacco con divisioni corazzate SS che tramutavano la sconfitta in vittoria, Hitler disse a Behr: “Herr Hauptmann, quando torna dal generale Paulus, gli dica che il mio cuore e le mie speranze sono con lui e la sua armata”. Ma Behr, ormai a conoscenza del “trucchetto”, non si fece mettere a tacere e chiese il permesso, secondo gli ordini ricevuti dal suo comandante, di riferire il suo rapporto. Davanti a tanti testimoni, Hitler non poté rifiutare.
Riferì tutto, sorprendentemente senza essere interrotto dal Führer, persino il numero crescente di disertori. Alle spalle di Hitler, il feldmaresciallo Keitel, incapace di tollerare tanta franchezza alla presenza di Hitler, agitò il pugno in direzione di Behr nel tentativo di indurlo a tacere. Ma Behr continuò senza interruzioni la descrizione dell’armata esausta, affamata e senza carburante e munizioni per respingere la nuova offensiva russa. Alcuni ufficiali superiori cercarono di ammorbidire le critiche di Behr con domande “idiote”, ma Hitler si rivelò sorprendentemente accondiscendente, forse perché voleva far vedere che difendeva gli interessi delle truppe a Stalingrado contro lo Stato Maggiore generale. Poi, però, si volse verso la grande mappa punteggiata di bandierine, come se nulla fosse cambiato. Behr sapeva che quelle bandierine, le stesse da mesi, rappresentavano divisioni con effettivi di poche centinaia di uomini. Ma Hitler, ancora una volta, ricorse al trucco di rovesciare l’intera situazione con un brillante contrattacco.
“Capii allora che aveva perso il contatto con la realtà. Viveva in un mondo di fantasia fatto di mappe e bandierine”. Per Behr, da sempre un ufficiale nazionalista ed entusiasta, quella rivelazione fu uno shock. “Era la fine di tutte le mie illusioni su Hitler. Ebbi la certezza che adesso avremmo perso la guerra”.
Behr non tornò subito nel Kessel come previsto. Vide di nuovo Hitler il giorno dopo insieme al feldmaresciallo Milch della Luftwaffe, al quale fu ordinato di aumentare gli sforzi per soccorrere Stalingrado. In seguito fu convocato dal primo aiutante di campo di Hitler, generale Schmundt, e sottoposto a una lunga e minuziosa indagine, anche se in tono amichevole. Schmundt, uno dei più leali ammiratori di Hitler (sarebbe morto diciotto mesi più tardi in seguito all’attentato di von Stauffemberg), intuì subito che il giovane capitano aveva perso ogni fede nella causa. Behr lo ammise apertamente. Perciò Schmundt decise di non rimandarlo da Paulus per impedirgli di comunicare le proprie apprensioni.
A Rastenburg il generale Stieff e il tenente colonnello Klamroth11, che conoscevano Behr da prima della guerra, lo presero in disparte e gli chiesero, “in modo criptico”, se volesse unirsi al movimento per abbattere Hitler, ma Behr pensò che non poteva fare un completo voltafaccia. Lo avvertirono comunque di non fidarsi di von Manstein, nonostante in privato parlasse con disprezzo di Hitler, avrebbe sempre fatto quello che il Führer gli chiedeva.
Von Manstein non aveva nessuna intenzione di giocarsi la carriera. Nelle sue memorie ha giustificato il suo comportamento con la motivazione che ad un colpo di stato, il fronte sarebbe collassato e la Germania piombata nel caos.
Il timore di von Manstein di Hitler si rivelò evidente quando emanò un ordine che vietava le conversazioni tra i suoi ufficiali e persino la corrispondenza personale in cui si discuteva sulle responsabilità del disastro di Stalingrado.
Indipendentemente dall’esito, il Führer ora voleva un esempio di eroismo per il popolo tedesco. Il 15 gennaio insignì Paulus delle fronde di quercia sulla sua Croce di Cavaliere e annunciò altre 178 importanti onorificenze. Molti decorati non capirono quanto quegli onori fossero a doppio taglio.
D’altro canto von Manstein, pur disprezzando i motivi di Hitler, anche lui aveva bisogno che l’agonia della 6a armata si prolungasse. Ogni giorno in più di resistenza, gli dava più tempo per riportare le due armate del Caucaso su una linea più difendibile. Hitler, con uno dei suoi grotteschi voltafaccia logici, ora poteva sostenere che la sua decisione di mantenere Paulus sulle sue posizioni era stata corretta.
Fin dall’inizio dell’offensiva sovietica del 10 gennaio, la principale preoccupazione della 6a armata rimase la stessa, “Il nemico numero uno è sempre la fame”, ricordava un medico. I soldati tedeschi cominciarono a correre grandi rischi, avventurandosi nella terra di nessuno per perquisire i cadaveri dei soldati russi in cerca di una crosta di pane o un sacchetto di piselli secchi. La speranza più grande era trovare un cartoccio di sale, di cui i loro corpi avevano un gran bisogno.
I prigionieri russi soffrivano ancora di più. I russi sostengono che quando furono liberati, su 3.500 ne erano rimasti in vita solo 20. I mucchi di cadaveri di soldati russi che l’Armata Rossa trovò, influirono senza dubbio sullo stato d’animo dei sovietici nei confronti degli sconfitti. In generale tutti i prigionieri soffrivano talmente la fame che, quando i salvatori diedero loro pane e salsiccia, la maggior parte morì immediatamente.
Gli Hiwis non stavano molto meglio, anche se in genere ricevevano le stesse razioni dei soldati tedeschi, ma ormai sapevano di essere comunque spacciati. Per loro non c’era posto sugli aerei in partenza e le armate sovietiche che li circondavano erano accompagnate da truppe dell’NKVD che non vedevano l’ora di averli sotto mano.
L’operazione Anello iniziò nelle prime ore della mattina di sabato 10 gennaio con 55 minuti di bombardamento. Era così intenso che un colonnello sovietico notò con sinistra soddisfazione: “Ci sono solo due modi di sfuggire a un assalto del genere: o con la morte o con la pazzia”.
La punta sud-occidentale del Kessel, dopo il bombardamento fu investita da attacchi di fanti in massa ad ondate, ogni 50 metri c’era un carro armato. Le difese della 44a divisione di fanteria vennero travolte e i soldati rimasero alla mercé del nemico.
L’attacco era esteso a tutti i settori, ma lo sforzo maggiore era concentrato sull’avanzata da ovest.
Alla fine della giornata dell’11 gennaio, Marinovka e Karpovka furono prese. I russi contarono 1.600 cadaveri tedeschi.
Se si considera lo stato di profonda prostrazione delle truppe, la difesa della 6a armata aveva qualcosa di prodigioso. La prova più lampante sta nel numero di perdite inflitte al nemico nei primi tre giorni. Il fronte del Don perdette 26.000 uomini e più di metà dei carri. I comandanti sovietici non badavano molto a limitare le perdite. I loro uomini risultavano facili bersagli, avanzando in linee allungate. La rabbia degli ufficiali e soldati sovietici si sfogava sui prigionieri tedeschi scheletrici e infestati di pidocchi. Alcuni vennero uccisi sul posto. Altri morirono marciando lontano dal fronte in piccole colonne, mentre i sovietici li investivano con il fuoco delle mitragliatrici. In un caso, il comandante di una compagnia di punizione costrinse un ufficiale tedesco prigioniero a inginocchiarsi davanti a lui nella neve, gli urlò i motivi per cui voleva vendetta e gli sparò.
Nelle prime ore del 12 gennaio, i sovietici raggiunsero la riva ghiacciata del fiume Rossoka. All’aeroporto regnava un caos da girone infernale, con mucchi di cadaveri da per tutto, i feriti leggeri e i “lavativi” cercavano di raggiungere un aereo non appena atterrava, i più deboli venivano calpestati. La Feldtgendarmerie, che aveva perso del tutto il controllo della situazione, aprì il fuoco in diverse occasioni.
Il sergente Wallrawe, che era stato ferito allo stomaco, una condanna a morte nel Kessel, e si trovava su un camion pieno di feriti senza più carburante a tre chilometri dall’aeroporto, riuscì a salvarsi grazie alla sua determinazione. Strisciò per tutto il percorso fino all’aeroporto, giungendovi a notte. In un’enorme tenda ricevette qualche cura. Poi un attacco aereo distrusse un gran numero di tende. Nel caos che seguì, Wallrawe si trascinò fino a uno Junkers e riuscì a salire alle tre di mattina.
A Pitomnik una pura coincidenza poteva salvare la vita di un ferito, mentre altre centinaia erano lasciati morire nella neve. Alois Dorner della 44a divisione di fanteria, ferito ad una mano ed ad una coscia da schegge, rimase sconcertato alla vista di Pitomnik. “Qui c’era l’infelicità più terribile che avessi mai visto in vita mia. Un interminabile gemere di feriti e di uomini agonizzanti […] molti dei quali non mangiavano da giorni. I viveri erano riservati alle truppe combattenti”. Dorner che non mangiava dal 9 gennaio, si aspettava ormai di morire, quando la notte del 13 gennaio il pilota austriaco di un bimotore Heinkel 111 gli passò accanto e gli chiese da dove venisse. “Vengo dai pressi di Amstetten”, rispose. Il suo concittadino austriaco chiamò un uomo del suo equipaggio e insieme portarono Dorner sull’aereo.
Sul fianco settentrionale la 16a Panzerdivision e la 60a divisione di fanteria motorizzata furono travolte lasciando uno spazio vuoto in quel settore. Mentre, nella stessa Stalingrado, la 62a armata si riprese diversi isolati. Nel frattempo la pressione ad ovest continuava, costringendo i soldati tedeschi a ritirarsi, abbandonando i veicoli e gli armamenti pesanti per mancanza di carburante.
L’aeroporto di Pitomnik fu dichiarato utilizzabile fino al giorno 15. Notizie di attacchi di carri sovietici provocarono “terrore da carro” nelle file tedesche. Nessuno trovò il tempo di riflettere su quanto avessero disprezzato i rumeni per una reazione del tutto simile due mesi prima.
Hitler, in questa fase avanzata della battaglia, decise che bisognava dare un ulteriore aiuto alla 6a armata, istituendo uno “Stato Maggiore speciale” sotto il comando del feldmaresciallo Milch, che avrebbe dovuto dirigere le operazioni di rifornimento aereo. Era una caratteristica mossa che suscitava un grande trambusto e non serviva a niente.
Il 16 gennaio l’aeroporto di Pitomnik fu abbandonato, lasciando i feriti intrasportabili con un medico ed un assistente di sanità. Gli aerei superstiti decollarono per atterrare a Gumrak sotto una forte nevicata. A mezzogiorno iniziò un bombardamento, a quel punto nonostante le proteste di Paulus, von Richthofen ordinò ai superstiti Stuka e Messerschmitt 109 di decollare e lasciare la sacca.
La ritirata sotto la neve ed il ghiaccio fu terrificante, gli uomini che cadevano non si rialzavano più. Intanto le divisioni sovietiche incalzavano da vicino.
Le speranze tedesche dell’arrivo di divisioni corazzate SS e di rifornimenti si dileguarono definitivamente nella maggior parte dei soldati. Diversi comandanti chiesero ai medici veleno per suicidarsi.
Dei 600 medici della 6a armata, nessuno di quelli ancora in grado di operare scappò dal Kessel.
Il Kessel sarebbe crollato molto più rapidamente se alcuni uomini non avessero mantenuto una salda fiducia nella causa per cui combattevano. Un sergente della Luftwaffe scrisse a casa: “Sono orgoglioso di potermi annoverare tra i difensori di Stalingrado. Succeda quel che deve succedere, quando giungerà il momento della morte, avrò avuto la soddisfazione di aver partecipato nel punto più a oriente della grande battaglia difensiva del Volga per la mia Madrepatria e di aver dato la vita per il nostro Führer e per la libertà del nostro paese”. Persino in quella fase avanzata, molte unità combattenti opposero un’accanita resistenza e vi furono atti di eccezionale coraggio. Un certo tenente Hirschmann fermò un attacco di 28 carri russi, operando tutto da solo un cannone contraereo. Nel combattimento distrusse 15 T-34. In quella fase ravvicinata della battaglia l’azione di comando risultava determinante. Apatia e autocommiserazione erano i pericoli maggiori sia per l’ordine militare che per la sopravvivenza del singolo.
Nelle trincee di prima linea, gli uomini erano talmente indeboliti e infreddoliti che i loro movimenti scoordinati li facevano sembrare drogati. Ma c’era sempre un buon sergente a tenerli sotto torchio.
Il 16 gennaio l’aeroporto di Gumrak non assicurava né funzionalità, né un minimo di organizzazione e la Luftwaffe comunicò a Paulus, che non sembrava rendersi conto del caos intorno a lui, che i rifornimenti sarebbero stati paracadutati. Ormai c’erano folle di sbandati affamati e ansiosi di andarsene che pensavano che l’unica speranza fosse concentrarsi all’aeroporto. Il 17 gennaio, la 6a armata era stata costretta a ritirarsi nella metà orientale della sacca. Nei quattro giorni successivi i combattimenti furono ridotti poiché i sovietici si stavano riorganizzando per l’offensiva finale.
Mentre al fronte la maggior parte dei reggimenti obbediva agli ordini, nelle retrovie la disgregazione aumentava rapidamente. Quasi tutti i cavalli erano stati mangiati, il pane era quasi finito e quello che rimaneva era semicongelato. Eppure c’erano depositi pieni di cibo, custoditi da marescialli fin troppo zelanti che poi i russi catturarono intatti.
Alcuni ufficiali presero in considerazione di tentare di passare le linee travestiti da soldati russi aiutati dai loro Hiwis. Un gruppo dell’XI corpo dividendosi in piccoli distaccamenti, fuggì verso sud-ovest. Due ufficiali di Stato Maggiore della 6a armata, il colonnello Echlepp e il tenente colonnello Niemeyer, morirono nella steppa.
É certo che Paulus non prese mai in considerazione l’idea di abbandonare i suoi uomini. Il 18 gennaio, affidò ad un ufficiale che si accingeva a lasciare il Kessel alcune righe di addio alla moglie, le medaglie e la fede.
Il 20 gennaio un elenco di specialisti di corpi corazzati, tra cui il generale Hube, ricevettero l’ordine di lasciare la sacca. Altri furono prescelti per lasciare l’assedio e non rientravano necessariamente nella categoria dei carristi. Un soldato piastrellista, per esempio, e ufficiali di Stato Maggiore. Altri ufficiali, scelti per trasferire documenti della massima importanza, erano stati selezionati sulla base della compassione. Il principe zu Dohna-Schlobitten perché aveva più figli di ogni altro ufficiale.
Il feldmaresciallo Milch, responsabile del ponte aereo, come tutti quelli che non erano stati nel Kessel, non riusciva ancora a capire in quali terribili condizioni si trovassero gli assediati. Dopo avere ricevuto da Paulus un messaggio, il 18 gennaio, in cui gli comunicava che la 6a armata poteva resistere solo pochi giorni perché in pratica non aveva più munizioni né carburante, disse a Göring nel corso di una telefonata: “Sembra che quelli della Fortezza abbiano perso il controllo dei nervi”.
Le conseguenze ben più vaste del disastro incombente erano lasciate alle cure del quartier generale del Führer e del ministero della Propaganda a Berlino. Göbbels dichiarando ad una conferenza che Stalingrado stava per cadere, aveva ordinato che la stampa doveva prepararsi, anche con supplementi, ad un’adeguata copertura del vittorioso esito di questa grande battaglia. Presumibilmente, la “vittoria” aveva un puro valore simbolico.
L’offensiva sovietica riprese il 20 gennaio. L’aeroporto di Gumrak fu dichiarato inutilizzabile il 22 alle ore 4:00. Si sperava di poter utilizzare il nuovo aeroporto di Stalingradkji, ma era una valutazione ottimistica. La pista era troppo piccola per grandi aerei.
Il generale Paulus, ormai era in preda ad una profonda depressione, dichiarò: “Qualunque aiuto giunga d’ora in poi, arriverà comunque troppo tardi. Siamo finiti. I nostri uomini non hanno più forze”. Quando avevano cercato di metterlo al corrente sulla situazione dell’armata del Don a ovest, aveva risposto: “Ai morti non interessa la storia militare”.
Benché il crollo fosse inevitabile, in molti settori i tedeschi si ritiravano combattendo accanitamente e sistemandosi tra le rovine di Stalingrado. Il 22 gennaio, la 6a armata ricevette da Hitler il messaggio che ne segnava il destino. “La resa è fuori questione. Le truppe combattano fino alla fine. Se possibile, tenete la Fortezza ridotta con truppe ancora in grado di combattere. Il coraggio e la tenacia della Fortezza hanno fornito l’opportunità di stabilire un nuovo fronte e di lanciare contrattacchi. La 6a armata ha così portato a termine il suo storico contributo al più grande momento della storia tedesca”.
Nelle cantine e nei tunnel scavati della città oramai si erano accumulati tra malati e feriti più di 40.000 uomini che ricevevano una fetta sottile di pane vecchio al giorno. I medici ne facevano una specie di zuppa che almeno era calda. I pidocchi continuavano ad imperversare, quando venivano cambiate le bende, una massa d’essi strisciavano sui polsi e le braccia degli assistenti di sanità. Quando un uomo moriva, si vedevano i pidocchi abbandonare il suo corpo in massa alla ricerca di carne viva. Un giovane soldato osservando l’infelicità intorno a sé, non poté fare a meno di mormorare: “A casa non dovranno mai sapere che cosa sta succedendo qui”.
In città si ammassarono più di 100.000 soldati, i termini di reggimento e divisione non avevano più significato, la 14a Panzerdivision aveva meno di 80 uomini in grado di combattere. La resistenza continuava in gran parte per il timore della vendetta dei russi, dopo il rifiuto di Paulus di arrendersi.
Il generale Moritz von Drebber si arrese con parte della 297a divisione. Si dice che il colonnello russo venuto ad accogliere la resa gli abbia domandato: “Dove sono i suoi reggimenti?” Moritz von Drebber aveva lanciato un’occhiata al manipolo di uomini rimasti, fiaccati dal freddo e dalla spossatezza, e aveva risposto: “Davvero devo spiegarle, colonnello, dove sono i miei reggimenti?”
Il comandante in capo dei servizi d’informazione della 6a armata, generale Renoldi, fu uno dei primi alti ufficiali ad arrendersi. (Come risultato del suo interrogatorio, l’Armata Rossa venne a sapere per la prima volta che Paulus era molto vicino al collasso). Ma altri generali ebbero un ruolo più attivo. Il sostituto di Hube, Schlömer, fu colpito a una coscia, e von Hartmann della 71a divisione di fanteria fu ucciso da una pallottola alla testa. Stempel, comandante della 371a divisione di fanteria, si suicidò come molti altri.
All’alba del 26 gennaio, i carri della 21a armata incontrarono la 13a fucilieri Guardie di Rodimcev a nord del Mamaev Kurgan, vicino ai fabbricati delle abitazioni degli operai del complesso Ottobre Rosso. Come era immaginabile, la scena fu emozionante, in particolare per la 62a armata, che aveva combattuto per conto suo per quasi cinque mesi.
Il Kessel di Stalingrado era diviso in due, con Paulus e gran parte degli ufficiali superiori imbottigliati nella sacca meridionale, più piccola, e l’XI corpo del generale Strecker nella zona settentrionale della città attorno alla fabbrica di trattori. Il suo unico collegamento con il mondo esterno era l'equipaggiamento radio della 24a Pazerdivision. Nei due giorni successivi, sbandati tedeschi e rumeni, ma anche gruppi di combattimento ancora attivi, si ritirarono nella sacca meridionale sempre meno ampia, dove Paulus e Schmidt avevano stabilito il nuovo comando, sotto il magazzino Univermag della Piazza Rossa. Il 194a reggimento granatieri del colonnello Roske, nel frattempo promosso generale, provvedeva alla difesa.
Un numero sempre crescente di ufficiali superiori che si arrendevano procuravano un incremento di lavoro per il settimo dipartimento del fronte del Don, responsabile della propaganda operativa. Spesso, lo stato di confusione psicologica e la rabbia per la sconfitta rendevano il prigioniero docile e disposto a collaborare, soprattutto nel caso di ufficiali che si sentivano traditi e anche colpevoli nei confronti dei loro uomini per avere assicurato loro che il Führer avrebbe mantenuto la promessa di salvarli. Durante l'interrogatorio, spesso tenevano moltissimo a esprimere pareri decisamente sfavorevoli su Hitler e il regime. Ma ai russi appariva evidente che questi generali avevano riconosciuto il vero carattere del Führer solo quando avevano sperimentato sulla loro pelle il modo proditorio con cui si era comportato nei loro confronti e verso la 6a armata. Pochi lo avevano giudicato un criminale mentre avanzavano in profondità nella Russia e venivano commesse atrocità talmente vicino alla loro linea del fronte che non potevano non esserne a conoscenza. Anzi, alcuni ne erano stati addirittura i diretti responsabili.
Da questi colloqui con gli ufficiali catturati si aveva la netta impressione che Paulus “fosse sottoposto a una grande pressione, dovendo recitare un ruolo che gli era stato imposto”. Erano sempre più convinti che Paulus fosse praticamente un prigioniero del suo stesso comando supremo controllato dal suo capo di Stato Maggiore. Il capitano Djatlenko, esperto inquisitore, non aveva dubbi che Schmidt rappresentasse “il braccio e la mente del partito nazista” nella 6a armata, perché gli ufficiali catturati riferivano che “Schmidt era il comandante dell'armata e dello stesso Paulus”.
Venne riferito che era stato Schmidt e non Paulus a dare l'ordine di rimandar indietro gli ufficiali dell'Armata Rossa inviati per negoziare una tregua.
Il 29 gennaio, la vigilia del 10o anniversario dell'ascesa al potere di Hitler, il comando della 6a armata aveva mandato un messaggio di congratulazioni dalla sua cantina semidiroccata. “Al Führer! La 6a armata saluta il Führer nell'anniversario della presa del potere. La bandiera con la svastica sventola tuttora su Stalingrado. Possa la nostra lotta essere un esempio per le generazioni presenti e future affinché non si arrendano mai in situazioni disperate in nome della vittoria finale della Germania. Heil mein Führer! Paulus”.
È molto probabile che il messaggio, assurdo in quelle circostanze, sia stato scritto dal generale Schmidt. Lo stile ha sicuramente la sua impronta. A quel punto, Paulus era ammalato di dissenteria, scosso dagli eventi e demoralizzato, per cui non è difficile immaginare che il messaggio gli sia stato sottoposto ottenendo un vago cenno d'approvazione. Un ufficiale tedesco, in una lettera di non molto tempo prima, aveva riferito dello stato di disgregazione fisica e morale di Paulus.
Il 30 gennaio giorno dell'anniversario, Göring fece un discorso alla radio paragonando la 6a armata agli spartani alle Termopili. Il discorso non fu bene accolto a Stalingrado, dove lo avevano ascoltato. Il fatto che fosse proprio Göring fra tutti a pronunciare, quella che fu definita “la nostra orazione funebre”, aggiungeva l'ingiuria al danno. Alcuni ufficiali scherzarono amaramente sul fatto che “il suicidio degli ebrei” a Masada sarebbe stato un paragone molto più azzeccato di quello delle Termopili. Non si rendevano conto di quanto fossero nel giusto. Hitler aveva sicuramente contato su un suicidio di massa, soprattutto degli ufficiali superiori.
Il discorso dello stesso Hitler quel giorno, fu pronunciato da Göbbels più tardi, a causa di un'incursione della RAF. Era pieno di un aspro senso di sfida, ma il tono di autogiustificazione era troppo evidente per poterlo nascondere. Una sola frase fu dedicata a Stalingrado, il disastro che gettava un'ombra sul giorno della celebrazione del regime: “L'eroica lotta dei nostri soldati sul Volga dovrebbe costituire un'esortazione per tutti al fare il massimo nella lotta per la libertà della Germania e per il futuro del nostro paese e, in senso più ampio, per la conservazione dell'Europa intera”. Per la prima volta ammetteva che da quel momento la Wehrmacht avrebbe combattuto per allontanare la disfatta.
Il giorno successivo, Hitler, come per scacciare quella sensazione di disastro, creò non meno di quattro nuovi feldmarescialli, tra cui anche Paulus. Era il numero più elevato dai giorni della vittoria sulla Francia. Quando gli giunse il messaggio della promozione, Paulus intuì immediatamente che ormai gli avevano offerto la classica coppa di cicuta, infatti, fino ad allora, nessun feldmaresciallo tedesco era mai caduto vivo nelle mani del nemico. Confidò al generale Pfeffer: “Non ho intenzione di spararmi per quel caporale boemo”. Un altro generale confidò a un investigatore dell’NKVD che Paulus aveva detto: “Sembra un invito al suicidio, ma non gli farò questo favore”. Paulus era istintivamente contrario al suicidio. Quando seppe che alcuni suoi uomini avevano scelto il “suicidio del soldato”, cioè sistemarsi sul bordo della trincea in attesa di essere colpito dal nemico, ordinò di proibire quella prassi.
Ovviamente Hitler non si preoccupava di salvare vite umane, gli interessava solo creare un mito possente. Sperava chiaramente che gli ufficiali superiori dell’armata avrebbero seguito l’esempio dell’ammiraglio Lütjens sulla Bismarck12.
L'eliminazione della sacca meridionale proseguiva rapidamente. Il 30 gennaio, le truppe sovietiche erano penetrate nel centro della città. Nelle cantine, in cui una gran massa di tedeschi era rifugiata per ripararsi dal freddo e dal fuoco dell'artiglieria, c'era un'atmosfera di disperazione e di timorosa attesa. Nell'ex comando dell'NKVD, una bandiera con una croce rossa appesa fuori dell'ingresso aveva fatto irritare un ufficiale tedesco di fanteria, che l'aveva presa per un segno di resa. Era sceso in cantina dove i medici continuavano operare alla luce delle lampade a petrolio, in attesa dell'arrivo dei russi. Macilento e con gli occhi iniettati di sangue, l'ufficiale li minacciò con la pistola: “Che cosa succede qui? Non ci sarà la resa! La guerra continua!” Molti avevano perso il senno a causa dello stress da combattimento o per le allucinazioni dovute a grave denutrizione. Le cantine erano piene di uomini che vaneggiavano deliranti. Il dottor Markstein, originario di Danzica, si limitò a stringersi nelle spalle. “Questa è un’infermeria”, disse. L'ufficiale scomparve come un fantasma nell'oscurità senza dire una parola.
Quando nello stesso edificio, il 25 gennaio, il generale von Seydlitz lasciò ai suoi comandanti divisionali la responsabilità di decidere o no di arrendersi, Paulus lo sollevò dall'incarico, poi passò tutte le sue divisioni sotto il comando del generale Heitz, già capo del VII corpo. Heitz emanò quindi un ordine secondo il quale si doveva sparare a chiunque cercasse di arrendersi. Quando von Seydlitz e più di una dozzina di alti ufficiali si arresero, dalle linee tedesche vennero sparate raffiche di mitragliatrici mentre i russi li portavano via. Von Seydlitz sostenne, in seguito, che due ufficiali tedeschi erano stati colpiti a morte come risultato del disastroso ordine.
Tuttavia, il generale Heitz, pur avendo comunicato: “Combatteremo fino all’ultima pallottola, tranne una”, non sembrava aver compreso sé stesso e il suo comando in questa affermazione. Un ufficiale notò che lo Stato Maggiore, quasi sicuramente con la sua approvazione, aveva già preparato le bandiere bianche.
La notte del 30 gennaio, il comando della 6a armata trasmise un messaggio in cui avvertiva che i comandanti si arrendevano perché non avevano più munizioni, ma adottò frasi retoriche, sostenendo che “stavano ascoltando l’inno nazionale per l’ultima volta con le braccia levate nel saluto tedesco”. Anche in questo caso si scorge più lo zampino di Schmidt che di Paulus. In ogni caso i soldati non avevano più le energie per condividere queste emozioni. “Durante la notte del 30 gennaio”, riferì un sergente, “ognuno era immerso nei propri pensieri, nella propria tormentosa incertezza, tutto preso dalle ferite e dai dolorosi congelamenti, dal ricordo della propria casa e dal destino che lo aspettava”. Gli ufficiali in particolare si aspettavano di essere giustiziati e molti si erano tolti i gradi.
All’alba del 31 gennaio, la Piazza Rossa fu sottoposta ad un pesante bombardamento, prima che i soldati russi iniziassero ad avanzare verso il magazzino Uvermag. I granatieri, appostati sopra il comando di Paulus nello scantinato, alla fine abbassarono le armi. Alle 7:35 al comando del feldmaresciallo Milch fu ricevuto il messaggio: “Russi all’entrata. Ci prepariamo ad arrenderci”. Dieci minuti più tardi, mentre il tenente Fëdor Ilčenko scendeva nella cantina affollata e maleodorante, giunse il segnale: “Ci arrendiamo”.
In Germania, il comunicato ufficiale annunciava: “A Stalingrado la situazione è immutata. Lo spirito dei difensori è intatto”.
Ufficiali di Stato Maggiore del comando del generale Šumilov discussero la resa con il generale Schmidt. Paulus in una stanza accanto era in stato di collasso. Due ore dopo l’arrivo del tenente Ilčenko, la resa fu accettata, il feldmaresciallo Paulus, il generale Schmidt ed il colonnello Adam con i visi non rasati e pallidi emersero all’aperto. Gli operatori dei cinegiornali aspettavano di riprendere la scena.
Quando le truppe sovietiche iniziarono a sgomberare gli edifici dai tedeschi, davano l’ordine: “Chiunque è in grado di camminare, esca e si metta in fila per marciare fino al campo di prigionia”. Quelli che se ne andavano presumevano che i feriti rimasti sarebbero stati curati. Solo più tardi scoprirono che l’Armata Rossa agiva in base al principio che chi non poteva marciare doveva essere ucciso sul posto.
In un paio di casi la rabbia e la disperazione costituirono una miscela esplosiva. Nell’edificio dell’NKVD, tutti i prigionieri si aspettavano di essere uccisi per rappresaglia quando un ufficiale, che aveva nascosto una pistola, aveva sparato a bruciapelo ad un maggiore russo e poi aveva rivolto l’arma contro di sé. In qualche modo l’ira delle truppe russe si placò e i prigionieri furono risparmiati.
La resa di Stalingrado provocò situazioni in cui il destino di ogni soldato tedesco era assolutamente imprevedibile. Due ufficiali della Flak scortati in una stanza dai soldati russi, che pensavano che le mostrine rosse fossero gradi da alti ufficiali, scapparono saltando da una finestra rotta. Finirono in una latrina e, quando apparvero i soldati pronti a sparare, il tenente più giovane salvò la situazione con una brillante trovata e un acuto senso della psicologia. Disse al suo compagno di abbassarsi i pantaloni. I russi scoppiarono a ridere e li risparmiarono. Non potevano sparare a uomini con le brache calate.
Gli uomini dell’NKVD cercavano Hiwis e “cani fascisti” intesi come SS, Gestapo, truppe corazzate e Feldgendarmerie. Un certo numero di soldati tedeschi scambiati erroneamente per SS, furono separati dagli altri e giustiziati. Sembra che soldati di una divisione siberiana si siano voltati dall’altra parte disgustati da quello spettacolo. Ma l’NKVD cercava soprattutto gli Hiwis e lo faceva senza sosta. Un notevole numero d’essi si dimostrò leale ai tedeschi fino alla fine. Nelle rovine di Stalingrado, alcuni soldati della 305a divisione di fanteria stavano morendo di fame. Gli Hiwis che erano con loro sparirono e i tedeschi pensarono che non li avrebbero visti mai più, ma i russi tornarono con del cibo per loro.
La lealtà di questi uomini non era sempre corrisposta. Poco prima della resa un sottufficiale chiese al suo ufficiale: “Che ne facciamo dei nostri otto Hiwis? Devo ammazzarli?” Il tenente, colto di sorpresa da una simile crudeltà, respinse l’idea. Disse agli Hiwis di darsela a gambe o nascondersi il più in fretta possibile.
Il destino degli Hiwis rastrellati a Stalingrado è ancora poco chiaro, in parte perché gli archivi della 10a divisione dell’NKVD non sono tuttora consultabili. Tolti quelli caduti durante l’assedio, alcuni vennero fucilati sul posto, altri utilizzati come interpreti e informatori e, quasi sicuramente, uccisi più tardi, ma molti furono incarcerati nelle prigioni dell’NKVD. Nemmeno i servizi d’informazione dell’Armata Rossa sanno cosa sia successo loro. Ci sono resoconti posteriori di Hiwis catturati e picchiati a morte invece di sparare per risparmiare munizioni, ma nei primi mesi del 1943, il regime sovietico voleva aumentare la sua forza lavoro di schiavi, trasferendo i prigionieri dai gulag. Utilizzare gli Hiwis facendoli lavorare fino alla morte rappresentava sicuramente una vendetta più malvagia dal momento che avrebbe prolungato le loro sofferenze. D’altra parte, sia Stalin che Berija erano talmente ossessionati dal tradimento che solo la morte avrebbe potuto placarli.
Paulus e Schmidt furono scortati ad un’ottantina di chilometri da Stalingrado e alloggiati in una isba13. Due agenti dell’NKVD che li raggiunsero, li informarono che avrebbero dovuto perquisire il loro bagaglio in cerca di “articoli proibiti” che comprendevano oggetti taglienti. Schmidt non si trattenne più. “Un feldmaresciallo tedesco”, urlò, “non si suicida con un paio di forbicine da unghie”. Stanco morto, Paulus fece segno di fare pure.
Verso mezzanotte, i due generali tedeschi furono portati nell’isba del maresciallo Voronov che era stato a capo dell’operazione Piccolo Saturno. Attraverso un interprete venne chiesto al feldmaresciallo Paulus di firmare un ordine di resa per la parte di truppe che ancora resistevano a Stalingrado. Dopo una lunga discussione, Paulus, in maniera singolare, argomentò che poiché lui si era arreso a titolo personale non aveva nessun potere su quegli uomini. La discussione “continuò a girare in tondo”. Il tic nervoso di Paulus era sempre più pronunciato e anche Voronov, sapendo che Stalin attendeva i risultati di quel colloquio, cominciava a manifestare impazienza. Alla fine dovette constatare che qualsiasi altro tentativo di convincerlo sarebbe stato inutile. “Devo informarla signor generale feldmaresciallo che con il suo rifiuto di salvare le vite dei suoi subordinati lei si assume una grave responsabilità agli occhi del popolo tedesco e per il futuro della Germania”. Paulus fissò depresso il muro in silenzio.
Hitler apprese la notizia della resa a Rastenburg, non profferì parola. La voce e la rabbia gli tornarono il giorno dopo, non riusciva credere che Paulus non si fosse suicidato.
Tornò più volte sull’argomento. Era chiaro, nella sua mente, che Paulus avesse irrimediabilmente macchiato il mito di Stalingrado. “Quel che mi fa male è che l’eroismo di tanti soldati sia stato reso vano da un solo individuo debole e senza carattere… Che cos’è la vita? La vita è la Nazione. L’individuo deve morire in ogni caso… Quel che mi fa male personalmente è che l’ho anche promosso feldmaresciallo. Volevo dargli quest’ultima soddisfazione. Avrebbe potuto liberarsi da tutti i dispiaceri e raggiungere l’eternità e l’immortalità nazionale, ma preferisce andare a Mosca”.
La sacca settentrionale con i resti di sei divisioni del generale Strecker intanto continuava a resistere. Dal suo comando nella fabbrica di trattori segnalò: “Le truppe combattono senza armamenti pesanti ed equipaggiamenti. Gli uomini crollano per la stanchezza. Muoiono di freddo con le armi in mano. Strecker”. Hitler rispose: “Mi aspetto che il Kessel settentrionale sia tenuto fino all’ultimo”.
Quattro armate sovietiche si erano schierate per attaccare quest’ultima sacca. Il fuoco concentrato di 300 cannoni a mezzo chilometro di distanza spazzò qualsiasi bunker a portata di tiro.
Strecker credeva che, anche solo per aiutare von Manstein, ci fosse uno scopo militare in quella resistenza, ma rifiutava assolutamente qualsiasi idea di autodistruzione per puri fini propagandistici. “Quando verrà il momento”, gli assicurò l’aiutante, “ci suicideremo”. “Ci suicideremo?”, esclamò Strecker. “Sì Herr General! Anche il mio colonnello si sparerà. Pensa che non dovremmo farci catturare”. “Bè allora lasci che le dica una cosa. Lei non si sparerà e nemmeno il suo colonnello lo farà. Lei andrà prigioniero insieme con i suoi uomini e farà di tutto per dare il buon esempio”. “Vuol dire che…”, gli occhi del giovane ufficiale si illuminarono, “non devo spararmi?”
Strecker aveva già respinto la richiesta di arrendersi dei suoi comandanti di divisione, ma alle 4 del mattino del 2 febbraio i generali von Lenski e Lattmann chiesero di nuovo il permesso e Strecker lo negò ancora. Allora Lenski gli disse che un suo ufficiale era già andato a negoziare i termini con i russi. Strecker capì l’inutilità di continuare. Scrisse il messaggio finale insieme al colonnello Groscurth: “L’XI corpo d’armata con le sue sei divisioni ha compiuto il suo dovere fino all’ultimo uomo in pesanti combattimenti. Lunga vita alla Germania!” Il messaggio fu ricevuto dal gruppo d’armate del Don. Strecker e Groscurth assicurarono che avevano volutamente escluso qualsiasi acclamazione ad Hitler, ma la versione registrata e poi inviata nella Prussia orientale finiva con : “Lunga vita al Führer!” Qualcuno doveva aver pensato bene di rendere il messaggio più accettabile all’inquilino della Wolfsschanze.
Pochi giorni dopo, i giornalisti stranieri vennero portati a fare un giro nella zona industriale. “Nessuno era in grado di dire quale fosse la normale conformazione del terreno”, scrisse un giornalista inglese. “Si avanzava andando su e giù, giù e su. Come sapere qual’era una china naturale o quale il fianco di una dozzina di crateri di bombe. Le trincee correvano attraverso i cortili delle fabbriche, attraverso le stesse officine; in fondo alle trincee giacevano ancora tedeschi congelati verdi e russi congelati grigi e frammenti congelati di forma umana, stesi tra i mattoni frantumati, e gli elmetti pieni a metà di neve. C’erano filo spinato e mine semiscoperte e casse di proiettili, e ancora detriti, e frammenti di muri, e tortuosi intrecci di travi d’acciaio arrugginite. Era difficile immaginare come avessero potuto sopravvivere a tutto questo”.
Come si diffuse la notizia della resa finale, tra le fila della 62a armata la gioia fu incontenibile. I difensori non riuscivano a credere che la battaglia di Stalingrado fosse finalmente finita. Di tutte le divisioni che avevano attraversato il Volga, erano rimaste poche centinaia di uomini.
Nel corso della campagna di Stalingrado, l’Armata Rossa aveva subito 1.100.000 perdite, compresi 485.751 morti.
Era rimasto molto poco di riconoscibile della città esistente prima che i bombardieri di von Richthofen apparissero quel pomeriggio di agosto. L’unico punto di riferimento rimasto intatto era la fontana con giovani e giovinette che vi danzano intorno. Sembrava un incredibile miracolo dopo che tante migliaia di bambini erano morti nelle rovine tutt’intorno.
Per Stalin, 91.000 prigionieri di cui 22 generali tedeschi, erano trofei molto più ambiti delle bandiere o dei cannoni. Paulus, ancora sotto shock, dapprima rifiutò di apparire davanti ai giornalisti mandati da Mosca. “Lei deve fare quello che le è stato detto”, gli tradusse l’interprete. Arrivarono ad un compromesso, sarebbe apparso, ma non avrebbe risposto alle domande. Doveva solo mostrarsi per dimostrare che non si era suicidato.
Secondo i giornalisti, i generali sembravano in buona forma e per niente denutriti. Evidentemente mentre i loro soldati morivano di fame, avevano continuato a prendere regolarmente i loro pasti. L’unico che sembrava in pessime condizioni era lo stesso Paulus. Appariva pallido e malaticcio ed esibiva una contrazione nervosa della guancia sinistra.
La tensione della cattura provocò comportamenti poco dignitosi. Una mattina Adam provocò un ufficiale russo col saluto nazista e un “Heil Hitler”. Ma era Schmidt l’ufficiale che piaceva meno ai russi. Fu costretto a chiedere scusa a una cameriera della mensa che il generale aveva fatto piangere con le sue osservazioni mentre serviva il pranzo. Un generale tedesco ed uno rumeno si picchiarono. Rivalità latenti e antipatie tra generali continuavano a venire allo scoperto. Heitz e von Seydlitz si detestavano a vicenda. Il primo rinfacciava al secondo di avere permesso ai suoi comandanti di divisione di scegliere da soli riguardo alla resa. Heitz, che aveva ordinato ai suoi soldati di combattere “fino all’ultima pallottola tranne una”, si era tuttavia arreso e aveva accettato di andare a cena con un generale russo al comando della 64a armata. Dopo che gli erano stati rinfacciati i suoi ordini di combattere fino all’ultimo, aveva risposto che lui si sarebbe suicidato, ma il suo capo di Stato Maggiore glielo aveva impedito.
Per la Wehrmacht era tempo di fare due conti. Lo Stato Maggiore del feldmaresciallo Milch aveva calcolato la perdita di 488 aerei da trasporto e di 1.000 uomini d’equipaggio durante il ponte aereo. La 9a divisione Flak era stata annientata, insieme con altro personale di terra, senza contare poi le perdite di bombardieri, caccia e stuka della Luftflotte 4 durante la campagna.
Il numero esatto delle perdite dell’esercito è ancora incerto, ma non c’erano dubbi che la campagna di Stalingrado avesse rappresentato la disfatta più catastrofica subita fino a quel momento dalla Germania. La 6a armata e la 4a Panzerarmee erano state distrutte. Analisi del computo tra autori vari e del numero delle razioni distribuite dal comando della 6a armata all’inizio dell’assedio, tra il 21 novembre e il 6 dicembre, dicono che il gli uomini nel Kessel dovrebbero essere stati circa 290.000 (tedeschi, rumeni, italiani e Hiwis).
Sappiamo che dal 22 novembre alla resa finale quasi 60.000 uomini membri della 6a armata caddero e 130.000 furono presi prigionieri. Il numero di Hiwis assediati è stato stabilito tra 20.000 ed i 50.000, ma non si sa quanti ne caddero durante i combattimenti. In ogni caso è ragionevole presumere che se ne siano salvati pochissimi. Si sa con certezza che sono stati evacuati dal Kessel 25.000 tra “specialisti” e feriti, ma di questi non si sa quanti ne siano poi sopravvissuti.
Queste cifre non tengono conto delle perdite a Stalingrado e nei dintorni tra agosto e novembre, dell’annientamento di quattro armate alleate, del tentativo fallito di von Manstein e delle perdite inflitte dall’operazione Piccolo Saturno. Nel complesso, l’asse dovrebbe aver avuto più di 500.000 caduti, ma in totale, in tutta la campagna di Stalingrado (da agosto 1942 a febbraio 1943), tra morti, dispersi, feriti e prigionieri le perdite si attestavano tra 1.000.000 ed 1.100.000.
Presentare una simile catastrofe al popolo tedesco, costrinse Göbbels a usare tutto il suo talento al fine di ottenere la più impudente distorsione della verità. Il regime non aveva nemmeno ammesso che la 6a armata fosse circondata fino al 16 gennaio, quando aveva parlato delle “nostre truppe che per diverse settimane hanno respinto eroicamente gli attacchi nemici da tutte le parti”.
Ora aveva scelto una direzione completamente opposta, sostenendo che non era sopravvissuto nemmeno un sol uomo.
Göbbels mobilitò le stazioni radio e la stampa per unire il paese in un lutto marziale. Alla stampa fu ordinato di usare il termine bolscevico e non russo. Tutti i comunicati e resoconti dovevano essere redatti in modo da creare un mito dell’eroismo. Il comunicato della Wehrmacht doveva essere redatto in maniera tale da “commuovere gli animi nei secoli a venire”. Doveva essere all’altezza dei discorsi di Cesare alle truppe, di Federico il Grande ai suoi generali prima della battaglia di Leuthen e dell’invito di Napoleone alla sua guardia imperiale.
Il comunicato fu trasmesso, come annuncio speciale alla radio, dopo la resa di Strecker: “Dal quartier generale del Führer, 3 febbraio 1943. Il comando supremo della Wehrmacht annuncia che la battaglia di Stalingrado è giunta alla fine. Fedele al suo giuramento di lealtà, la 6a armata, sotto il comando esemplare del feldmaresciallo Paulus, è stata annientata dalla schiacciante superiorità delle forze nemiche […] il sacrificio della 6a armata non è stato vano. In quanto bastione della nostra storica missione europea, ha resistito contro l’assalto di sei armate sovietiche […] Sono morti affinché la Germania possa vivere”.
L’annuncio fu controproducente, soprattutto per il fatto che non si citavano i 91.000 prigionieri già annunciati dal governo sovietico, notizia che si diffuse in tutto il mondo. Inevitabilmente, un numero molto maggiore del solito di tedeschi si sintonizzò sulle emittenti straniere.
Fu ordinato un periodo di tre giorni di lutto nazionale.
Il servizio di sicurezza delle SS non sottovalutò l’effetto sul morale dei civili. Sapeva anche che le lettere giunte dal Kessel in cui si descrivevano gli orrori e gli squallori, contraddicevano alla base il modo eroico con cui il regime descriveva il disastro. Un rapporto diceva che le descrizioni delle sofferenze di combattimenti ossessiona giorno e notte i parenti. Per tale motivo fin dal 17 dicembre le lettere non furono più consegnate ai parenti. Ma gli sforzi dei sovietici risultarono troppo energici per poterli bloccare. I campi di prigionia dell’NKVD fornivano carta da lettere, ma poiché le autorità tedesche ne avrebbero impedito l’ingresso, erano scritte in carattere piccolo sotto forma di volantini che venivano lanciati sulle linee tedesche. Nonostante rischiassero severe punizioni, i soldati tedeschi li raccoglievano e mandavano lettere anonime agli indirizzi nell’elenco per comunicare che il loro congiunto era vivo. Si firmavano “un compatriota” o anche solo “XXX”. A volte, con grave preoccupazione delle autorità naziste, le famiglie ricevevano persino una copia del volantino sovietico e contattavano chi si trovava nella stessa situazione.
Il regime cercò di trasformare la resa di Stalingrado in una nuova versione della “pugnalata alle spalle del 1918”, solo che stavolta il capro espiatorio non sarebbero stati ebrei e comunisti, ma lo Stato Maggiore dell’esercito e l’aristocrazia, ancora strettamente associati nell’opinione pubblica.
Furono organizzati raduni di fedelissimi del partito inneggianti alla guerra totale. Il simbolismo faceva la parte del leone nelle misure adottate di mobilitazione di massa. Il rame della porta di Brandeburgo fu rimosso per essere usato dall’industria bellica. Furono proibite le manifestazioni sportive. I negozi di lusso vennero chiusi. Tutte le riviste di moda cessarono le pubblicazioni. Göbbels addirittura arrivò a organizzare una campagna contro la moda, in base al concetto che le donne non avevano bisogno di vestirsi elegantemente, perché “ai soldati vittoriosi che tornavano a casa sarebbero piaciute anche vestite di pezze”. Si sparse la voce che sarebbe stata proibita anche la permanente. Hitler che credeva appassionatamente che fosse dovere delle donne essere decorative e basta, vi si oppose e Göbbels fu costretto ad annunciare che “la donna non doveva imbruttirsi”.
Il baratto, primo sintomo di un’economia assediata, cominciò a diffondersi.
Il messaggio, appena velato, che generali corrotti della nobiltà avessero tradito l’ideale nazista fu comunicato in numerosi modi. Non ci volle molto prima che tutti i membri della ex famiglia reale in servizio nelle forze armate fossero obbligati a rassegnare le dimissioni. Persino le passeggiate a cavallo nel Tiengarten furono proibite.
Sui muri apparvero un numero sempre maggiore di slogan nazisti, ma i cinici berlinesi preferivano il graffito: “Godetevi la guerra, la pace sarà molto peggiore”.
Il futuro faceva sempre più paura. Un albergatore della foresta nera in licenza dall’Ostfront dichiarò: “Se ci dovessero restituire un quarto di quello che stiamo facendo in Russia e in Polonia soffriremo e meriteremo di soffrire”.
I tedeschi che non ammiravano i nazisti riconobbero subito l’assurdo paradosso. L’invasione dell’Unione Sovietica aveva costretto i russi a difendere lo stalinismo, adesso la minaccia di disfatta costringeva i tedeschi a difendere il regime di Hitler. La differenza era che i russi avevano un’immensa terra su cui ritirarsi e la Germania era impegnata su due fronti ed era sottoposta a massicci bombardamenti. A peggiorare la situazione, a Casablanca, Churchill e Roosevelt avevano annunciato la loro intenzione di combattere fino alla resa incondizionata.
L’opposizione non era riuscita ad organizzarsi, solo alcuni giovani ufficiali erano decisi ad assumersi enormi rischi nel tentativo di uccidere Hitler, ma questi, che sembrava possedere un fiuto quasi animale per il pericolo, era troppo ben sorvegliato e cambiava continuamente orari.
L’unico chiaro segno di disaffezione in seguito al crollo di Stalingrado venne da un piccolo gruppo di studenti di Monaco, noto come la Rosa Bianca14.
Poco dopo la resa finale di Stalingrado, Hitler ricevette von Manstein che, viste le circostanze, sapeva che stavolta sarebbe stato lui a stabilire la strategia e cioè, al contrario di quello che voleva Hitler, di ritirarsi in posizioni più sicure. In quell’occasione Hitler ammise che la colpa di Stalingrado era solo sua, poi rapidamente si tirò indietro aggiungendo che un po’ di colpa l’aveva anche Göring ma, dal momento che lo aveva designato suo successore, non poteva addossargli la responsabilità. Le maggiori recriminazioni erano riservate a Paulus.
Adesso Hitler si soffermava raramente a parlare a tavola, com’era stata sua abitudine. Preferiva mangiare da solo. Il generale Guderian lo trovò molto cambiato: “La mano sinistra tremava, la schiena era curva, lo sguardo fisso, gli occhi sporgenti, ma senza più lucentezza, le guance erano macchiate di rosso”.
In Unione Sovietica, al contrario, l’entusiasmo era alle stelle, oramai nessuno dubitava più della vittoria. Stalin venne subito nominato maresciallo dell’Unione Sovietica dal Presidium del Soviet Supremo, un tocco leggermente più modesto di quello di Napoleone che si incorona da sé. La storia della guerra fu immediatamente rimodellata. I disastri del 1941 furono presentati come se avessero fatto parte di un piano astutamente escogitato da Stalin. Tutti i disastri e i mali erano attribuiti ad altri, un po’ come i cortigiani fossero i soli colpevoli durante il periodo zarista. Ilja Ehrenburg15, con sorprendente cinismo, fece notare che il popolo “aveva bisogno di credere”. Persino i prigionieri dei gulag scrissero al Grande Padre del Popolo, convinti che sarebbe intervenuto per correggere un tremendo errore giudiziario, impensabile sotto il comunismo. Nessun leader aveva un parafulmine più efficace di Berija.
I generali furono generosamente ricompensati. Le spalline, simbolo di privilegi che alcune folle bolsceviche avevano inchiodato ai corpi degli ufficiali zaristi, vennero ripristinate. (Galloni d’oro furono segretamente ordinati in Gran Bretagna, con gran stupore e disapprovazione dei funzionari di quel paese). Un soldato della divisione Guardie venne a sapere la notizia da un lustrascarpe di una stazione. “Ricominciamo con quelle spalline dorate”, gli disse l’uomo irritato e incredulo. “Proprio come nell’Armata Bianca”. Ma questi malumori furono ignorati.
Il successo dell’Armata Rossa si estese ben al di là delle frontiere sovietiche. La storia del sacrificio dei soldati sovietici ebbe notevole influenza in tutto il mondo, soprattutto nell’Europa occupata.
L’Armata Rossa non si sarebbe fermata, come aveva urlato un ufficiale ai prigionieri di guerra, fin quando Berlino non fosse assomigliata alla città di Stalingrado in rovina.
Circa 3.500 civili furono messi al lavoro per seppellire i cadaveri. I morti tedeschi furono sistemati dentro un enorme fossato. Vennero usati anche 1.200 prigionieri tedeschi che dovevano trainare i carretti pieni di cadaveri. Morirono quasi tutti di tifo. Altri, “dozzine al giorno”, riferì un ufficiale dell’NKVD, furono uccisi dalle scorte mentre li portavano al lavoro.
Al disgelo primaverile vennero alla luce altri cadaveri, ma questi ritrovamenti sarebbero continuati per diversi decenni a Stalingrado. Ogni volta che si scavava per costruire nuovi edifici si trovavano resti umani.
Più sorprendente del numero di morti fu la capacità di sopravvivere degli abitanti. 9769 civili erano sopravvissuti abitando tra le rovine del campo di battaglia. Tra questi c’erano 994 bambini dei quali solo 9 ritrovarono i propri genitori. Le condizioni fisiche e psicologiche di questi bambini erano drammatiche.
Le autorità di partito si reinstallarono immediatamente nei vari distretti. Il 4 febbraio fu tenuto un raduno politico. Il comizio, con i suoi lunghi discorsi di lode al compagno Stalin e della sua leadership, era la versione sovietica di una funzione del Giorno del Ringraziamento.
Messaggi di ricerca dei parenti, scritti con la calce, cominciarono ad apparire sui muri delle rovine, a testimonianza del numero di famiglie disgregate dalla battaglia.
Un grosso contingente di prigionieri, molti troppo deboli per stare in piedi, furono costretti a partecipare a un raduno politico nel centro di Stalingrado e ad ascoltare lunghe arringhe da parte dei tre principali esponenti comunisti tedeschi: Walter Ulbricht, Erich Weiner16 e Wilhem Pieck17.
Il tasso di mortalità dei prigionieri fu altissimo. Difficile stabilire quanto questo tasso sia aumentato a causa delle brutalità, maltrattamenti e, soprattutto, da carenze logistiche. Dei 91.000 prigionieri catturati alla fine della battaglia, quasi la metà morì prima della primavera. La stessa Armata Rossa riconobbe successivamente che gli ordini sul trattamento dei prigionieri furono ignorati ed è impossibile stabilire quanti furono uccisi per vendetta durante o poco dopo la resa.
Nel sistema di tunnel in un avvallamento, ribattezzato “Ospedale per prigionieri di guerra n. 1”, la situazione dei 4.000 feriti era tragica, spesso i medici e gli assistenti di sanità erano più malati dei pazienti stessi. Le attrezzature sanitarie e i farmaci erano stati rubati. I medici sovietici erano atterriti da quelle condizioni. Alcuni cercavano di collaborare senza secondi fini, altri scambiavano pagnotte di pane con gli orologi che i feriti erano riusciti a nascondere al precedente saccheggio.
Non fu organizzato un sistema di fornire razioni alimentari ai prigionieri. Il problema principale era un misto di brutale indifferenza e d’incompetenza burocratica, caratterizzata da una mancanza di coordinamento tra l’esercito e l’NKVD.
C’era anche una profonda riluttanza a concedere razioni ai prigionieri, mentre l’Unione Sovietica era disperatamente a corto di cibo. Molti soldati dell’Armata Rossa erano gravemente denutriti, per non parlare dei civili, perciò l’idea di fornire cibo a chi aveva saccheggiato il loro paese sembrava quasi assurda.
Le razioni arrivarono dopo quattro giorni dalla resa, quando ormai la maggior parte dei soldati non avevano mangiato praticamente niente nelle ultime due settimane. Sarebbe stato illogico aspettarsi un trattamento migliore, specie se si considera il comportamento della Wehrmacht nei confronti dei prigionieri russi, militari e civili, nell’Unione Sovietica18.
I medici temevano specialmente le epidemie di tifo esantematico e supplicarono le autorità sovietiche di mettere in atto delle misure per sterminare i pidocchi, ma molti soldati dell’Armata Rossa e quasi tutti i civili della regione ne erano loro stessi ancora infestati.
Non sorprende quindi che molti morissero, inoltre sembrava che non ci fossero motivi per continuare a vivere. La prospettiva di rivedere le famiglie era remota. La Germania era talmente lontana che sarebbe potuta essere in un altro mondo. La morte prometteva la liberazione dalle sofferenze. Le maggiori probabilità di sopravvivenza si verificarono tra coloro che continuavano a battersi o per fede religiosa o per un ostinato rifiuto di morire in tale squallore o, infine, perché aveva deciso di vivere per il bene della famiglia.
Molte migliaia di prigionieri dovettero fare delle vere e proprie marce della morte, senza cibo né acqua, con temperature dai 25 ai 30 gradi sotto zero per raggiungere, dopo cinque giorni, il campo di raccolta di Beketovka. “Partimmo in 1.200”, raccontò un soldato della 305a divisione di fanteria, “e solo un decimo, circa 120 uomini, era ancora vivo quando arrivammo”.
Il campo di Beketovka era un altro di quei luoghi che avrebbe meritato la scritta all’ingresso: “Lasciate ogni speranza o voi che entrate”. Il campo accolse 50.000 prigionieri. Le autorità erano impotenti perché mancavano di tutto. Non avevano trasporti motorizzati, non c’era acqua, nulla da mangiare. La rabbia per le condizioni induceva i prigionieri a scagliare manciate di pidocchi presi dal proprio corpo contro le guardie. Chi protestava in tal modo veniva giustiziato sul posto.
Fin dall’inizio i prigionieri vennero separati secondo le nazionalità, poi secondo concezioni politiche. I prigionieri rumeni, italiani e croati avevano il privilegio di lavorare nelle cucine, dove i rumeni in particolare, diedero il meglio di sé stessi per vendicarsi dei loro ex alleati. Non solo i tedeschi li avevano trascinati in quell’inferno, ma avevano anche ridotto le loro razioni nel Kessel per nutrire meglio le loro truppe. Bande di rumeni assalivano soldati tedeschi isolati per requisire quel poco di cibo che avevano raccolto. I tedeschi rispondevano mandando scorte a sorvegliare la distribuzione del cibo.
“Poi ci fu un altro sconvolgimento”, ricordava un sergente della Luftwaffe. “All’improvviso i nostri camerati austriaci smisero di essere tedeschi. Si facevano chiamare Austritsj nella speranza di assicurarsi un trattamento migliore, come effettivamente accadde”. I tedeschi provavano amarezza nel constatare che tutte le colpe della guerra ricadevano su quelli di loro che rimanevano “tedeschi”, in particolare a causa del fatto che gli austriaci con uno sconvolgimento della logica, tendevano a incolpare i generali prussiani, invece dell’austriaco Hitler, della loro situazione.
Ogni giorno, fu calcolato, morivano 50 – 60 uomini. Nella sola Beketovka, fu annotato sul registro alla data del 21 ottobre 1942, erano morti 45.200 prigionieri.
Specialmente tedeschi e rumeni cominciarono a ricorrere al cannibalismo. I pezzetti di carne tagliati dai cadaveri venivano bolliti. Il prodotto finale veniva offerto come “carne di cammello”. Chi lo mangiava era facilmente riconoscibile, perché il colorito acquisiva un accenno di rosso invece del pallore grigiastro usuale.
Le autorità ordinarono altri viveri, ma la corruzione e l’incompetenza del sistema vanificarono ogni sforzo.
Spesso sopravvivevano quelli che sembravano avere minori probabilità. I primi a morire erano quelli alti e grossi, i piccoli e magri avevano maggiori probabilità di farcela. Le scarse razioni uguali per tutti producevano l’effetto di sovvertire il normale concetto della sopravvivenza del più adatto, perché non tenevano conto delle dimensioni dell’individuo.
All’arrivo della primavera i 235.000 prigionieri dei campi della regione furono riorganizzati. I primi ad andarsene furono i generali, la loro destinazione era un campo vicino Mosca. Partirono a bordo di quello che gli ufficiali inferiori chiamarono cinicamente “treno bianco”. Suscitava grande amarezza constatare che proprio quelli che avevano ordinato di battersi fino all’ultimo, non solo fossero sopravvissuti alla loro retorica, ma ora godessero di condizioni enormemente migliori di quelle dei loro uomini. Le probabilità di sopravvivere dipendevano dal grado che uno aveva. Più del 95 per cento dei soldati e dei sottufficiali era morto, il 55 per cento degli ufficiali di grado inferiore e solo il 5 per cento di quelli di grado superiore. Come avevano già notato i giornalisti, pochi ufficiali superiori avevano mostrato segni di inedia poco dopo la resa, perciò le loro difese immunitarie non erano indebolite come quelle dei loro uomini. Ma il trattamento privilegiato ricevuto dai generali era rivelatore del profondo senso della gerarchia dei sovietici.
Il resto dei prigionieri viaggiarono in convogli non certo così confortevoli. In marzo, in un convoglio di 1.800 uomini ne morirono 1.200. La diaspora dei soldati e ufficiali inferiori fu notevole, essi vennero distribuiti in moltissime località dell’Unione Sovietica.
La sorpresa peggiore, oltre alle condizioni di vita, fu la scoperta che alcuni militari tedeschi si erano uniti ai sovietici come guardie. “Nessun russo mi aveva mai trattato con altrettanta brutalità”, scrisse di uno di loro un prigioniero. Alcuni campi erano migliori di altri. In uno di questi, i prigionieri italiani erano ben organizzati e si dedicavano alla caccia ai passeri per migliorare la zuppa. Molti prigionieri furono utilizzati per lavorare. A Stalingrado, per esempio, nel recupero delle imbarcazioni affondate nel Volga. Il direttore di un cantiere russo, impressionato dal numero dei prigionieri che morivano durante i recuperi, costrinse la figlia a giurare che non ne avrebbe parlato con nessuno prima di descriverle quegli episodi.
I tedeschi capirono che sarebbero tornati a casa dopo molto tempo quando Molotov dichiarò che nessun prigioniero sarebbe stato rilasciato fin quando Stalingrado non fosse stata ricostruita.
Nel 1949 un’ondata di nuove epurazioni staliniste spazzò l’Unione Sovietica. I prigionieri tedeschi si trovarono d’improvviso di fronte a processi per “crimini di guerra” artefatti. La Guerra Fredda era al massimo della tensione. L’asso Erich Hartmann19 fu accusato di avere distrutto aerei di proprietà del governo sovietico. Il generale Strecker venne riportato a Stalingrado, dove una corte marziale lo giudicò colpevole di aver distrutto la fabbrica di trattori, anche se il suo corpo d’armata era stato da tutt’altra parte fino alla fine della battaglia.
Come la maggior parte degli accusati di questa ondata di epurazioni, fu condannato a morte, condanna automaticamente commutata a vent’anni di prigione. Il tenente Gottfried von Bismarck fu condannato a venticinque anni di lavori forzati perché prigionieri di guerra russi avevano lavorato nella sua proprietà di famiglia in Pomerania. Nel luglio 1950, il generale von Seydlitz, nonostante avesse “collaborato” con le autorità, amareggiato e ormai privo del tutto di illusioni, fu arrestato e condannato a venticinque anni di prigione come criminale di guerra e “generale reazionario revanscista”.
Nel 1945 erano stati rilasciati circa 3.000 prigionieri di Stalingrado, più che altro perché ritenuti inadatti al lavoro ed era stato loro concesso di tornare in patria. Nel 1955 c’erano ancora 9.626 prigionieri di guerra tedeschi dei quali solo 2.000 erano i sopravvissuti di Stalingrado.
Questi prigionieri vennero liberati dopo la visita del cancelliere Konrad Adenauer20 a Mosca nel settembre 1955.
10 Walter Ulbricht (Lipsia, 30 giugno 1893 – Döllnsee, 1, agosto 1973) comunista tedesco. Rifugiato in URSS dopo la presa del potere dei nazisti, tornò in Germania al seguito dell’Armata Rossa. Divenne il primo leader della Germania dell’est (DDR).
11 Impiccati l’8 e il 24 agosto 1944.
12 Corazzata tedesca entrata in servizio il 24 agosto del 1940, famosa per avere affondato l’incrociatore inglese da battaglia Hood e per la caccia che ne seguì. Fu affondata il 27 maggio del 1941.
13 Tipica abitazione contadina russa in legno.
14 La Rosa Bianca è il nome che si diedero un gruppo di studenti cristiani che si opposero in modo non violento al regime. La Rosa Bianca fu attiva a Monaco di Baviera dal giugno 1942 al febbraio 1943, quando i principali componenti del gruppo vennero arrestati. Il gruppo era composto da cinque studenti: i fratelli Hans e Sophie Scholl, Christoph Probst, Alexander Schmorell e Willi Graf, tutti poco più che ventenni. Ad essi successivamente si unì un professore, Kurt Huber. Distribuirono e spedirono clandestinamente diversi opuscoli in cui si incitava alla resistenza passiva contro il regime. Sophie Scholl prese la coraggiosa decisione di salire in cima alle scale dell'atrio e lanciare da lì gli ultimi volantini sugli studenti sottostanti. Venne individuata da un bidello nazionalsocialista che la bloccò e la consegnò assieme al fratello alla polizia di regime. Furono torturati per quattro giorni, meravigliando gli inquisitori della Gestapo per la determinazione e il coraggio. Inutilmente tentarono di proteggere gli altri membri del gruppo, che vennero anch’essi individuati. Furono processati il 22 febbraio del 1943 e ghigliottinati il giorno stesso. Medesima sorte qualche tempo più tardi per gli altri membri del gruppo.
15 Giornalista e scrittore sovietico.
16 Scrittore e membro del KPD, il partito comunista della Repubblica Democratica tedesca (DDR).
17 Segretario in esilio del KPD e poi primo presidente della DDR.
18 La guerra costò all’Armata Rossa quasi 9.000.000 di morti e 18.000.000 di feriti. (Di 4.500.000 prigionieri in Germania ne tornarono solo 1.800.000). Le perdite tra i civili sono molto più difficili da stabilire, ma si pensa si aggirino attorno ai 18.000.000, portando il totale delle perdite di guerra dell’Unione Sovietica a più di 26.000.000, ovvero più di cinque volte il totale delle perdite tedesche.
19 Erich Hartmann (Weissach, 19 aprile 1922 – Weil im Schönbuch, 20 settembre 1993) fu il miglior pilota da caccia (asso) della storia dell’Aviazione. Arruolatosi a 17 anni, nel 1940 nella Luftwaffe, in quasi tre anni abbatté 352 aerei, di cui 345 sovietici, in 825 combattimenti e 1.404 missioni. Volò sempre con il caccia Messerschmitt Bf 109 e non perse mai un gregario (pilota di supporto). Condannato a 25 anni di prigione dai sovietici, fu poi liberato nel 1955. Rientrato nella Luftwaffe, si ritirò nel 1970 per i contrasti che ebbe con i superiori e che ne rallentarono la carriera, a causa delle sue critiche sulla sicurezza del Lockheed F-104 Starfighter causa di numerosi incidenti mortali in volo. La Russia lo prosciolse dalle accuse di crimini di guerra solo nel 1997.
20 Konrad Herman Josef Adenauer (Colonia, 5 gennaio 1876 – Bad Honnef, 19 aprile 1967) cancelliere della Germania occidentale dal 1949 al 1963.
Pubblicato il 02/10/2013