27 – 31 gennaio 1941
La battaglia combattuta ad Agordat, che vide contrapposti gli schieramenti italiani e anglo-sudanesi, rappresentò la fase iniziale della Campagna dell'Africa Orientale Italiana. A causa dell’inferiorità, soprattutto qualitativa in mezzi meccanizzati rispetto all’esercito inglese, e incapaci di resistere alla pressione britannica, le truppe coloniali italiane, tallonate da vicino dal nemico, si ritirarono ordinatamente in direzione di Agordat per tentare una prima difesa, attestando le truppe sulla linea Cherù – Aicota.
A cura di Giuseppe Bufardeci
AGORDAT
Orlando Lorenzini è stato un militare, ufficiale e generale di brigata italiano. Caduto nella battaglia di Cheren (2 febbraio - 27 marzo 1941), fu insignito alla memoria della medaglia d'oro al valor militare, in precedenza si era già fregiato di 4 medaglie d’argento al V.M., una medaglia di bronzo e due promozioni sul campo.
Ottenuta la licenza liceale, due anni dopo iniziò la sua carriera militare nel 1910 come soldato semplice. Nel 1912 fu nominato ufficiale. Nella prima guerra mondiale fu al comando di una compagnia di mitraglieri combattendo nella zona del Montello.
Dopo la battaglia di Agordat, con i resti delle sue truppe, si ritirò a Cheren, dove si svolse la decisiva lotta per il possesso dell’Eritrea.
Cadde ucciso da una scheggia di granata.
Venne sepolto nel cimitero di Asmara dopo un austero funerale celebrato il 19 marzo 1941 ed alla sua memoria concessa la Medaglia d’Oro al Valor Militare con Regio Decreto 6 febbraio 1942. Le sue spoglie furono in seguito esumate in Asmara il 18 novembre 1994 e trasportate al cimitero militare di Cheren, ove ora riposano. A suo nome è stata intitolata una strada a Castiglioncello (Provincia di Livorno), dove è ubicata la casa costruita nel 1933, ed a Pisa. Sempre a Pisa gli è stata anche intitolata una scuola elementare.
Fu un ufficiale britannico che raggiunse il grado di tenente generale. Studiò al Wellington College, Berkshire and at the Royal Military Academy, Woolwich.
Beresford-Peirse fu ufficiale della reale artiglieria nel 1907. Servì nella prima guerra mondiale in Mesopotamia, Francia e Belgio. Fu insignito della Distinguished Service Order ( decorazione militare del Regno Unito e del Commonwealth assegnata agli ufficiali delle forze armate distintisi durante il servizio in tempo di guerra).
Nel 1941 fu decorato con l’Ordine dell'Impero Britannico (Knight Commander of the British Empire) ed esercitò diversi comandi in Sudan ed in India.
Si ritirò dal servizio attivo nel 1947.
AGORDAT
L’Africa Orientale italiana nel 1940 non era preparata per sostenere una guerra prolungata. Le scorte disponibili erano valutabili in 6 mesi e la colonia era nell’impossibilità di ricevere rifornimenti. La consistenza numerica delle truppe era decisamente superiore a quella del nemico, ma la scarsità di mezzi e materiali era gravissima.
Per tali motivi le operazioni offensive si limitarono all’occupazione della città di Cassala (4 luglio 1940), venti chilometri oltre la frontiera Eritrea in Sudan e successivamente alla conquista della Somalia britannica e francese. Nonostante ciò, fu subito chiaro quanto la situazione dell’esercito coloniale italiano in Africa Orientale fosse disperata, visti i ritardi dell’operazione Leone Marino (l’invasione dell’Inghilterra da parte dei tedeschi) e gli scarsi progressi in Africa Occidentale da parte del generale Graziani. Le forze in Africa Orientale sarebbero state alla mercé di un nemico che riceveva con continuità aiuti e rifornimenti.
Cassala era stata presa come primo obbiettivo di una strategia di conquista di parte del Sudan, rivelatasi poi velleitaria a causa dell’inferiorità, soprattutto qualitativa in mezzi meccanizzati rispetto all’esercito inglese. Nel gennaio del 1941, incapaci di resistere alla pressione britannica, le truppe coloniali italiane, tallonate da vicino dal nemico, si ritirarono ordinatamente in direzione Agordat per tentare una prima difesa, attestando le truppe, circa 17.000 uomini, sulla linea Cherù – Aicota.
Tre giorni di aspri combattimenti consentiranno ai nostri uomini di respingere tutti gli attacchi dei reparti inglesi sia sulla direttrice di Cherù che su quella di Aicota. Fu a questo punto che il comandante dello scacchiere nord, generale Luigi Frusci, ordinò il ripiegamento su Agordat, commettendo un gravissimo errore di valutazione: le truppe inglesi, per lo più meccanizzate, al contrario delle nostre per lo più appiedate, riuscirono ad attaccare separatamente le due colonne in ripiegamento, falcidiandole entrambe. Ulteriore arma di enorme vantaggio per gli inglesi erano i nuovi carri armati Matilda MK II invulnerabili all’artiglieria in dotazione alle truppe italiane. Spesso le truppe italiane dovettero ripiegare disordinatamente per sfuggire al contatto con i carri armati inglesi.
Il 21 gennaio, in un anticipo della battaglia di Agordat, durante il ripiegamento delle truppe italiane verso posizioni fortificate ad Agordat, al tenente Amedeo Guillet, comandante di una formazione di cavalleria indigena, denominata Gruppo Bande Amhara, venne richiesta un’azione quasi suicida e cioè di rallentare il nemico di un nutrito reparto esplorante: la Gazelle Force, pena la cattura di migliaia di uomini in ritirata.
La carica di ottocento cavalieri, portò lo scompiglio fra i terrorizzati soldati anglo-indiani.
Poco dopo, Amedeo Guillet carica una seconda volta scompaginando lo schieramento inglese. Nonostante pesanti perdite subite dal nemico nel frattempo riavutosi dalla sorpresa, la sua fu una vittoria perché lo scopo dell’attacco era stato ottenuto. Le truppe italiane in ritirata raggiunsero indisturbate la loro destinazione.
Quella del tenente Guillet fu l’ultima carica di cavalleria nella storia militare dell’Africa.
La penultima, invece, la comanda il tenente Renato Togni (medaglia d’oro al V.M. alla memoria), vicecomandante del gruppo e amico personale di Amedeo Guillet, che accortosi, dopo il successo della prima carica, che tre carri armati Matilda stavano per prendere alle spalle il suo comandante, lo informa con un laconico messaggio che avrebbe caricato subito gli inglesi con i suoi trenta cavalleggeri. Salvò la situazione, ma, tranne uno, nessun cavaliere sopravvisse. Togni giunse a ridosso dei mezzi inglesi e, falciato, cadde sul cofano di un carro britannico.
Quel giorno il Gruppo Bande Amhara ebbe 176 morti, la perdita di 100 cavalli e 260 feriti.
L'ufficiale britannico che subì l'assalto in seguito così descrisse l'avvenimento:
“Quando la nostra batteria prese posizione, un gruppo di cavalleria indigena, guidata da un ufficiale su un cavallo bianco, la caricò da Nord, piombando giù dalle colline. Con coraggio eccezionale questi soldati galopparono fino a trenta metri dai nostri cannoni, sparando dalla sella e lanciando bombe a mano, mentre i nostri cannoni, voltati a 180 gradi sparavano a zero. Le granate scivolavano sul terreno senza esplodere, mentre alcune squarciavano addirittura il petto dei cavalli. Ma prima che quella carica di pazzi potesse essere fermata, i nostri dovettero ricorrere alle mitragliatrici”.
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Vi erano, inoltre, i resti del Gruppo Bande Amhara (squadroni di cavalleria), una compagnia motorizzata (o autocarrata) tedesca, circa 110 uomini1, tre gruppi di artiglieria e un piccolo reparto di carri armati medi e leggeri.
Totale forze italiane 6/7000 uomini.
Totale forze anglo-sudanesi-indiane tra 9.000 e 12.000 uomini.
1 Si trattava di tedeschi fuggiti dal Kenya e dal Tanganyka poco prima dello scoppio delle ostilità. Furono organizzati come compagnia di una unità meccanizzata maggiore italiana. Anch’essi vennero coinvolti nella ritirata da Cassala ad Agordat e lì persero altri 30 uomini. Seguirono le truppe italiane fino alla resa finale dell’Amba Alagi. Non risulta ci siano stati sopravvissuti.
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Carro armato pesantemente corazzato, in uso per l’appoggio alla fanteria, armato con cannone da 40/67, cioè da 40 mm e lungo 2,68 metri. Creò molti problemi ai carri italiani e tedeschi in Africa occidentale.
I cannoni più potenti delle forze dell’Asse, i pezzi da 47 e 75/18 mm degli italiani e i pezzi da 50 e 75/24 mm dei tedeschi, non riuscivano in alcun modo a perforare la corazza del Matilda. I tedeschi risolsero il problema con l’uso del cannone Flak da 88 mm. Gli italiani riuscirono solo ad arginare il problema, usando sempre il cannone da 47/32, ma addestrandone bene i serventi, insegnando loro a mirare soprattutto ai cingoli o anche sul fondo quando i carri superavano un ostacolo; a volte riuscivano a tirare proprio nell'ingranaggio che congiunge lo scafo alla torretta, bloccandola, ma si trattava più di colpi di fortuna che non di addestramento.
Dopo il 1942, il Matilda Mk II verrà sostituito dai più potenti carri Churchill, infatti nel corso della guerra, questo carro evidenziò il suo tallone d'Achille proprio nella limitata velocità e nell'armamento sempre più mediocre col passare del tempo, perdendo man mano il vantaggio della corazza spessa. Ciò nonostante, fino al giugno 1941, il Matilda si dimostrò vulnerabile solo alle mine anticarro e alle artiglierie antiaeree e da campagna impiegate in funzione anticarro a breve distanza.
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Il 25 gennaio, le truppe italiane erano attestate in due capisaldi: Agordat e Barentu.
Mentre forze della IV Divisione di fanteria indiana si dirigevano verso Agordat, la V Divisione di fanteria indiana andava a Barentu. La linea di comunicazione tra i due capisaldi fu tagliata, isolandoli l’uno dall’altro.
“Per difendere il caposaldo di Agordat, il cui perimetro ha uno sviluppo di 22 chilometri...Lorenzini ha a sua disposizione 10 battaglioni indigeni, un battaglione di camicie nere, i resti della banda amhara a cavallo del tenente Guillet, una compagnia di volontari tedeschi, reparti della PAI...In tutto 6/7 mila uomini, e non 12 mila come sostiene la relazione inglese, in gran parte provati da dieci giorni di combattimenti, dagli attacchi aerei e dai 200 chilometri di ritirata.” Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa orientale.
Il morale delle nostre truppe coloniali, nonostante fossero piuttosto stremate, era buono. Gli ascari dimostravano grande coraggio contro la fanteria, incuranti di eventuale inferiorità numerica, ma sopportavano meno il fuoco di artiglieria, carri armati ed aerei, ai quali non potevano rispondere con efficacia. Inoltre la loro prestazione di combattimento era direttamente proporzionale alla qualità del loro comandante. I comandanti non erano tutti all’altezza della situazione. Rispetto al passato, la necessità di nuovi ufficiali per l’aumento delle unità in vista della guerra aveva imposto di prendere quello che c’era a disposizione, a scapito della qualità. Molti rapporti e memorie di veterani mettono in luce questo aspetto.
Le forze inglesi erano costituite da due brigate indiane (con un battaglione inglese ciascuna) e da un nutrito reparto esplorante (Gazelle Force), appoggiati da forte artiglieria, dall’aviazione e da alcuni carri armati. L’impatto morale dei carri Matilda, invulnerabili ai cannoncini degli ascari anche da breve distanza, si rivelò determinante. La fanteria inglese e indiana era di buona qualità, ma se priva dell’appoggio di armi pesanti non si dimostrava superiore agli ascari.
Il 26 gennaio, le truppe italiane cominciarono ad essere sottoposte ad un pesante bombardamento d’artiglieria, nel frattempo la South African Air Force (aviazione sud africana) distrusse buona parte dei velivoli italiani, per lo più a terra, degli aeroporti di Asmara e Gura. Da quel momento gli inglesi ebbero sempre una netta superiorità aerea in Africa Orientale Italiana.
La sera del 28 gennaio, il comandante inglese mosse il III battaglione del 14o Reggimento del Punjab (XI Brigata indiana) alla conquista del monte Cochen verso sud. Il 29 gennaio, a questa unità si unì il 1o battaglione del 6o Reggimento fucilieri del Rajpuana.
Il 30 gennaio, queste unità subirono un forte contrattacco da parte di cinque battaglioni delle nostre truppe coloniali con l’appoggio dell’artiglieria da montagna.
I battaglioni indiani, sotto questa pressione, furono costretti a retrocedere, ma si riorganizzarono e contrattaccando la mattina del 31 gennaio, riguadagnarono tutto il terreno perso il giorno precedente. Mentre l’attenzione del generale Lorenzini era tutta concentrata sugli eventi del monte Cochen, Breford- Persie lanciò la V Brigata indiana nell’offensiva principale sul pianoro sottostante supportata da carri armati.
I corazzati furono decisivi e la sera la strada per Cheren fu tagliata isolando i difensori attestati sulla seconda altura a nord, il monte Laquitat, la cui posizione divenne precaria.
Alle 16.30 gli italiani, sotto pressione, furono costretti ad evacuare verso est, anche sul monte Cochen l’opposizione cessò.
Il sacrificio di due battaglioni corazzati italiani composti da carri medi e leggeri fu inutile contro i molto più armati e corazzati carri inglesi su cui i proiettili italiani rimbalzavano senza procurare alcun danno.
Col favore delle tenebre le truppe italiane si ritirarono abbastanza ordinatamente verso Cheren.
Il primo febbraio 1941 i britannici entrarono ad Agordat.
“La caduta di Agordat determina anche il crollo di Barentu, dove la II Divisione indigena del generale Bergonzi ha, però, validamente tenuto le posizioni per 6 giorni, spesso contrattaccando con successo le truppe del generale Heath. Il suo ripiegamento sul ciglione di Arresa, iniziato all'imbrunire del primo febbraio, senza che gli inglesi se ne accorgano, si svolge in buon ordine, ma a pochi chilometri da Arresa, dove la strada finisce e comincia la mulattiera, i reparti sono costretti ad abbandonare autocarri, cannoni e carri armati.” Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa orientale.
Le perdite in questi scontri (Agordat e Barentu) furono pesanti: 1.260 soldati nazionali e 14.000 ascari (in totale furono registrati più di 9.000 morti e 6.000 prigionieri), 141 automezzi, 96 cannoni, 24 carri armati e 40 aerei.
A Cheren il terreno, per lo più intransitabile a mezzi sia ruotati che cingolati, vanificò la superiore mobilità inglese. Gli Inglesi, nonostante avessero il dominio dei cieli e artiglieria superiore per gittata e numero di bocche da fuoco, impiegarono oltre un mese per prendere la posizione.
Caduta Cheren, vera porta dell’Eritrea, nel marzo 1941, il destino della colonia è segnato.
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L’offensiva britannica nell'Africa Orientale Italiana si concluse ufficialmente con la caduta di Gondar il 27 novembre 1941.
Da quella data continuò una guerriglia, fino all’autunno 1943, da parte di circa 7.000 italiani che rifiutarono di arrendersi sperando in una vittoria dell’Asse in Africa Occidentale, inoltre, non pochi furono gli indigeni che collaborarono attivamente con i resistenti italiani.
Nonostante le difficoltà logistiche poste dall'asprezza del territorio, queste unità riuscirono a portare i loro attacchi su un'area molto estesa, che andava dal Sudan al Kenya e dal Mar Rosso alla regione dei laghi.
La situazione preoccupò non poco gli inglesi.
Per gli inglesi la cosa si complicò ulteriormente all'inizio del 1942 quando la resistenza italiana riuscì a far sollevare le popolazioni indigene Azebò Galla residenti nella regione della Galla Sidama, a dimostrazione della loro capacità di persuasione e dell'ascendente di cui ancora godevano.
Tra i più audaci e attivi: Francesco de Martini, Rosa Dainelli e il famoso Amedeo Guillet, detto “Comandante Diavolo”. Francesco de Martini, capitano del SIM (Servizio Informazioni Militare), dopo essere evaso da un campo di prigionia riuscì prima a far saltare con mezzi di fortuna un deposito di munizioni a Daga (Massaua) e poi organizzò una flottiglia di sambuchi arabi per individuare i movimenti delle navi britanniche, che poi segnalava via radio ai comandi italiani. Al termine della guerra fu decorato con una Medaglia d'Oro al Valor Militare.
La dottoressa Rosa Dainelli, nell'agosto del 1942, dimostrando grande coraggio ed abilità, riuscì a penetrare in un sorvegliatissimo deposito di munizioni ad Addis Abeba, facendolo saltare e sopravvivendo all'esplosione. Tra l'altro gli inglesi vi conservavano anche ingenti quantità di proiettili Fiocchi (preda di guerra) che intendevano usare per i loro nuovissimi mitragliatori Sten, per i quali erano ancora a corto di munizioni. Per questa singola azione gli inglesi furono costretti a rimandarne l'impiego di diversi mesi.
Gli inglesi si videro così costretti a richiamare truppe da Kenya e Sudan per intensificare la sorveglianza delle coste e proteggere le vie di comunicazione. Arrestarono e deportarono, inoltre, numerosi civili italiani che abitavano nelle città costiere, per timore che potessero fornire informazioni di interesse militare ai giapponesi.
Giuseppe Bufardeci
Pubblicato il 29/07/2013
Referenze:
Associazione Nazionale Bersaglieri – Verona;
Sebastian O'Kelly, AMEDEO - Vita, avventure e amori di Amedeo Guillet, un eroe italiano in Africa Orientale, Rizzoli, 2002;
Mario Mongelli, Amedeo Guillet, gentiluomo italiano senza tempo, rivista militare.