Battaglie In Sintesi
409 a.C.
Generale cartaginese, distruttore delle città di Selinunte e d'Imera in Sicilia. Apparteneva alla casa di Magone ed era nipote dell'Amilcare caduto sotto Imera nel 480 a.C. Suo padre, Giscone, era morto in esilio a Selinunte. Verso l'ultimo decennio del sec. V le sorti della sua casa si erano risollevate, e nel 410 a.C., Annibale rivestiva a Cartagine la carica di sufete (o re, come dicevano i Greci). In quell'anno vennero a Cartagine ambasciatori di Segesta, ad invocare aiuto contro i Selinuntini, da cui la città era minacciata. Cartagine aveva allora più forti ragioni ad intervenire in Sicilia che non ne avesse avute settant'anni innanzi, quando Terillo venne a chiedere aiuto contro Terone, poiché Segesta aveva per i dominî cartaginesi sulla costa occidentale dell'isola un'importanza ben diversa di quella che aveva Imera. E il momento era singolarmente propizio, poiché Siracusa era spossata dello sforzo durato contro l'esercito ateniese, e la sua flotta si trovava lontana a continuare la lotta sulle coste dell'Asia Minore. La domanda dei Segestani fu perciò accolta e il comando dell'impresa affidato ad Annibale. Questi si mostrò abile diplomatico prima ancora che strenuo generale. Egli dissimulò i preparativi bellicosi per mezzo di trattative intese a far credere ai Siracusani che Cartagine, pur sostenendo le ragioni di Segesta, mirasse ad una soluzione pacifica del conflitto. Intanto forniva a questa città alcune migliaia di soldati, in guisa da metterla in condizione di tener fronte al nemico. In effetto, in uno scontro, i Selinuntini furono battuti, e nell'esasperazione della sconfitta presero anche un atteggiamento ostile a Cartagine. La guerra da parte di quest'ultima non era perciò ingiustificata. Nella primavera del 409 un esercito cartaginese, comandato da Annibale e formato, al solito, di milizie mercenarie raccolte da ogni parte, sbarcò presso il Lilibeo, prese Mazara ed assediò Selinunte. Le operazioni di assalto furono condotte con grande vigore. Annibale promise ai suoi soldati di abbandonar loro tutto il bottino della città. I Selinuntini chiesero aiuto a Siracusa, poi ad Agrigento e a Gela: nell'attesa si difendevano disperatamente. Ma prima che i soccorsi giungessero, i Cartaginesi eran padroni della città. Circa sedicimila furono i Selinuntini caduti: cinquemila furono fatti prigionieri, e duemilaseicento soltanto poterono scampare alla volta di Agrigento. A costoro fu concesso di tornare in patria, a patto però di pagar tributo ai Cartaginesi. Le mura della città furono demolite.
Selinunte era stata assediata e presa in pochi giorni. Annibale si rivolse rapidamente verso Imera, per risolvere, e in maniera definitiva, il problema ch'era costato la vita a suo nonno Amilcare. In che modo fosse giustificata l'aggressione contro questa citta che stava fuori dell'ambito delle controversie per cui sorse la guerra, noi non sappiamo, ma della maniera in cui i Cartaginesi procedevano in simili contingenze, abbiamo un saggio in ciò che riguarda l'assedio di Agrigento. I soccorsi siracusani, che non erano giunti in tempo a Selinunte, poterono però prevenire e rinforzare la guarnigione di Imera. Sennonché anche l'esercito di Annibale era stato a sua volta rinforzato da molta gente, attirata da ogni parte dalle evidenti speranze di un ricco bottino. Imera fu dunque assediata e resistette anch'essa energicamente. Ma le speranze di riuscire a liberarsi dovevano esser poche: le navi siracusane, apparse sulla rada, non portavano soccorsi. Fu deciso di abbandonare la città: una parte dei cittadini si ritirò con l'esercito siracusano, un'altra salì sulle navi per esser trasportata sulla costa, verso Messana. I rimanenti attendevano il ritorno delle navi per mettersi in salvo. Ma non ne ebbero il tempo. I Cartaginesi assalirono la città: tremila cittadini adulti furono fatti sgozzare da Annibale sul luogo stesso dove Amilcare era caduto: fanciulli e bambini furono trasportati in Africa, e la città fu distrutta. Cartagine si era così liberata delle due città che formavano i posti avanzati della grecità nell'occidente dell'isola. Ma intanto il partito imperialista cartaginese maturava il disegno della conquista di tutta la Sicilia. Fu preparata una nuova spedizione, e nel 406 un esercito cartaginese, ancora più forte del precedente, moveva alla volta di Agrigento. Il comandante era sempre Annibale: salvo che questi, a cagione dell'età, aveva chiesto di essere accompagnato dal cugino Imilcone figlio di Annone. Bisogna supporre che la spedizione fosse rivolta contro Siracusa. Annibale chiese ad Agrigento di allearsi con lui, o impegnarsi a restare neutrale. Agrigento ricusò, e i Cartaginesi l'assediarono. Ma nel campo cartaginese si diffuse una delle solite epidemie, di cui si vide l'origine negli scavi che gli assedianti avevano fatto in una necropoli vicino alla parte delle mura, dalla quale avevano iniziato l'assalto. Annibale ne fu colto, e perì, lasciando solo al comando Imilcone.
Così nell'anno in cui erano consoli per Roma Q. Fabio e G. Furio, Annibale, capitano dei Cartaginesi, raccolse insieme tutti i soldati, che avea reclutati nella Spagna, e nell'Africa, e li imbarco' sopra sessanta navi lunghe; e sopra mille e cinquecento da trasporto pose ed altra gente da guerra, e bagaglioni, e macchine, ed armi, ed ogni cosa necessaria all'impresa; e passò coll'armata il mare, approdando al promontorio di Sicilia, che riguarda la Libia, e che chiamasi Lilibeo. Erano in que' luoghi alcuni cavalieri selinunzii, i quali veduta sì numerosa armata giungere, presa la corsa volarono a casa, riferendo ai loro popolani l'arrivo del nemico; e que' di Selinunte spedirono subito messi a' Siracusani per chieder soccorso. Annibale intanto sbarcato l'esercito, lo accampò, incominciando ivi dal posto, da cui a quel tempo chiamavasi il Lilibeo, e che poi molti anni dopo diede questo nome alla città ivi fabbricata. L'esercito di Annibale, siccome riferisce Eforo, era di dugento mila fanti, e di quattro mila cavalli. Intanto trasse le navi nel seno vicino a Mozia, con ciò volendo significare ai Siracusani ch'egli non era entrato in Sicilia per movere loro la guerra, nè per assediare la loro città con armata. Quindi tolti seco i soldati di Egesta, e d'altri alleati, levate le tende dal Lilibeo, prese la strada di Selinunte, e giunto al fiume Mazaro, al primo attacco occupò l'emporio ivi situato. Indi accostandosi più da vicino alla città , divise in due l'esercito; ed accampatovisi intorno, e piantate le macchine, con grande impegno si mise a combatterla, avendovi erette sei torri di somma altezza, ed appressati alle mura altrettanti arieti ben ferrati alle fronti. Ed oltre ciò opponendo agli abitanti una grande moltitudine di saettieri, e frombolieri, facilmente li fece ritirare dai merli , e da ogni altro luogo forte delle mura. I Selinunzii, non avendo da lungo tempo sofferto assedj, poiché fra tutti i popoli della Sicilia essi soli ajutato aveano i Cartaginesi contro Gelone, mai non si erano immaginati di dover essere messi in sì misero stato da quelli, ch'essi s'erano dianzi con buoni servigi obbligati. E vedendosi addosso tanta mole di macchine, e sì sterminata moltitudine di nemici, colpiti dalla enormità del pericolo in cui si trovavano, erano caduti in grande paura. Non però disperarono affatto di difendersi; ma aspettandosi pronti soccorsi e dai Siracusani e da altre città confederate, unite insieme le forze di tutto il popolo, cercarono di respingere dalle loro mura il nemico. Quindi sia i giovani, sia quanti erano di robusta età, presero le armi, corsero con forte animo ad affrontare i pericoli, con i vecchi a procurare le cose necessarie alla difesa, e a su e giù andare per le mura predicando alla gioventù che non volesse patire di vederli caduti in mano de' nemici, mentre le donne e i ragazzi erano intenti a portare ai combattenti il cibo, le armi, senza badar più, come diversamente eran solite a fare in tempo di pace, a ciò che volessero pudore e verecondia. E tanto spavento, e tanta trepidazione era entrata negli animi per la grandezza de' pericoli, che s'implorava anche l'ajuto stesso delle donne.
Annibale, che avea promesso a' suoi soldati il sacco della città, fece accostare le sue macchine alle mura, e fatta scelta de' più valorosi fra tutti, che doveansi succedere gli uni agli altri, incocominciò l'oppugnazione. E già ad uno stesso momento e le trombe suonano, e tutto l'esercito alzato il grido di guerra si move, e a gran colpi di ariete si conquassano le mura, e que' che dalle altissime torri combattono, a furia di dardi uccidono molti Selinunzii. Non aveano i Selinunzii in tutto il corso della lunga pace antecedente presa alcuna cura delle mura, sicchè ad ogni uopo fossero ben salde; e le torri di legno costruite da' nemici soprastavano alle mura a modo, che facilmente combattendo da esse potevansi cacciar del luogo gli assediati. Intanto cadendo rovesciata una parte di muro, i Campani, desiderosi di fare qualche impresa clamorosa, mettonsi a volere immantinente penetrare nella città. E al primo impeto quelli, che ivi resistevano, non essendo molti, furono presi da grande paura: ma accorsi poi altri ad ajutarli, i Campani furono respinti con perdita di molti de' loro; perciocché siccome l'apertura fatta al muro non erasi sgombra dei rottami, gli assalitori e venendo e ritirandosi mal potevano in mezzo a tanti intoppi sostenersi: sopravvenendo poi la notte i Cartaginesi desistettero dall' attacco.
In tant'angustia di cose, i Selinunzii presero alcuni uomini a cavallo de' più scelti per gagliardia d' animo, e in quella notte li mandarono, parte ad Agrigento, parte a Gela, e parte a Siracusa, pregando prontissimo soccorso, poichè la loro città non poteva più a lungo sostenere le forze nemiche. Que' di Agrigento, e di Gela dissero, doversi aspettare gli ajuti di Siracusa, onde congiuntamente attaccare i Cartaginesi. In quanto ai Siracusani, essi, udito l'assedio posto a Selinunte , immantinente fecero pace coi Calcidesi, coi quali allora erano in guerra; e raccolsero truppe da tutto il territorio. Ma perché credevano, che Selinunte allora fosse sì circondata da' nemici, ma non in prossimo pericolo d'essere presa, si misero a fare grandi preparativi, e perdettero tempo. Annibale intanto appena ritornò il giorno, rinnovò da ogni parte l'assalto; e preso posto in quella parte di muro, che avea rovesciata il giorno innanzi, e in un'altra attigua, che avea rotta la mattina stessa, le sgombrò dei rottami, impiegandovi i soldati più gagliardi, e cambiandoli a mano a mano che trovavansi stanchi: poi fatto impeto per penetrar dentro, costrinse a poco a poco i Selinunzii ad abbandonare il posto. Però non poté farsene padrone, poiché i Selinunzii resistettero fino a quanto comportava l'estremo sforzo, da cui dipendeva la sorte loro. Ma nel mentre che da ambe le parti tanti morivano, ai Cartaginesi succedeva nuova gente, che rimpiazzava i mancati; mentre, sul fronte apposto, niuno v'era, che soccorresse i Selinunzii. E così durò per nove giorni il combattimento con prodiga di coraggio dall'una parte e dall'altra, molta strage facendo i Cartaginesi, e molta soffrendone. Finalmente, avendo visto una squadra d'Iberi che aveva incominciato a penetrare entro una parte di muro rovesciato, le donne dai tetti delle case di pianti e di ululati fecero eccheggiare l'aria d'intorno; e i Selinunzii sospettando, che già la città fosse presa, accoltisi in massa per le strade, tutti i più angusti aditi disperatamente occuparono, e cercarono di chiuderne tutti i transiti; e così per lungo tempo resistevano a' nemici. E perché i Cartaginesi volevano pur rompere gli ostacoli, e trarsi innanzi, le donne e i ragazzi saliti sui tetti delle case di là si misero a gittar sui nemici e sassi e tegole: ond'è, che per qualche tempo gli assalitori trovaronsi gravissimamente travagliati, perché combattendo in quelle strettoie non potevano mettersi in ordine, serrati di qua e di là da muraglie ben munite: né potevano battersi alla spacciata per la grandine continua, che pioveva loro addosso dai tetti. Durò fino a sera il combattimento; finquando a quelli ch'erano sui tetti, mancarono i dardi; e visto che i Cartaginesi rimpiazzavano continuamente con gente fresca quelli de' loro ch'erano stanchi, potevano ad ogn'istante rinnovare gli attacchi; sminuendo sempre più il numero degli oppidani. Così, mentre cresceva la turba de' nemici che penetrava in città, i Selinunzii infine furono costretti a dar loro il passo.
Presa in questo modo la città, non altro che lagrime, ed urlamenti fu tra Greci. Tra Barbari al contrario alto s'udiva lo schiamazzo nemico, e un fremito misto alla esultazione: ché quelli avean sott'occhio in tutta l'estensione sua la somma loro calamità; questi animati dalla vittoria, non d'altro pascevansi che della strage, che far volevano de' vinti. I Selinunzii in ultimo ridottisi nella piazza combattendo morirono tutti; e i Barbari scorrendo per tutta la città si misero a rubare quanto trovavano nelle case; e gli abitanti ivi presi abbruciando colle case medesime, e quelli, che s'erano raccolti nelle piazze, senza riguardo né a sesso, né a età, fossero o fanciulli, o bambini, o donne, o vecchi, alla rinfusa con niun senso di misericordia misero a fil di spada. E secondo l'uso del loro paese ne mutilavano anche i cadaveri; ed alcuni, adattate ad un corpo più braccia, ne facevano spettacolo qua e là; ed altri appiccavano le teste de' trucidati sulla punta delle loro aste. Le sole matrone, che co' figliuoli eransi rifugiate ne' templi, ordinarono, che si risparmiassero; e a queste sole fu data fede di sicurtà, non per pietà che sentissero di quella infelicissima gente, ma unicamente per la paura, che le donne prese da disperazione appiccassero fuoco ai templi, e togliendo loro il ricco bottino, che speravano di fare in que' luoghi, sapendo contenervisi cose preziosissime. Il saccheggiamento durò sino a notte avanzata: degli edifizj parte rimase incendiata, parte demolita: ogni luogo fu pieno di sangue, e di cadaveri. Sedicimila furono i morti, i prigionieri condotti via furono seicento.
I Greci ausiliari de' Cartaginesi veggendo sì miserabile spettacolo della umana fortuna, restarono mossi a pietà della sorte di tanti infelici. Imperciocchè le matrone dal consueto genere di vitto tratte ad uno diversissimo, passavano quella notte tra le contumelie di un crudelissimo nemico, sopportando ogni specie di atroce miseria. Molte d'esse erano costrette a vedere le loro figliuole già nubili soffrire cose allo stato loro non convenienti; e la crudel libidine di que' Barbari non perdonando né a' ragazzi, né a vergini, faceva d'ogni erba fascio, e finiva col far macello delle sue vittime. Onde quelle matrone sciagurate , mentre volgevan nell'animo la futura schiavitù, che loro preparavasi in Libia, e vedevano sé, coi loro figli in mezzo ad ogni più umiliante strapazzo, e ad ogni più indegna contumelia costrette ad ubbidire a sì superbi padroni, e ne consideravano e la non intelligibil favella, e i costumi affatto bestiali, piangevano ancora la sorte de' superstiti; ed ogni contumelia fatta a quelli era un nuovo colpo nella propria anima acutissimo; e con gemiti, e lamenti deploravano la loro mala fortuna: ben beati al contrario chiamando esse i genitori, e i fratelli, che combattendo per la patria erano morti, poiché non erano stati spettatori di cose indegne della loro virtù. Duemila e seicento furono gli esenti di schiavitù, e giunsero salvi ad Agrigento, ed ivi ebbero umanissimo trattamento. Perciocché gli Agrigentini distribuirono loro a ragione di famiglia quantità di frumento a spese pubbliche, ed invitarono inoltre i privati, altronde già ben disposti, a somministrar loro liberalmente quant'altro potesse occorrere. Mentre queste cose succedevano, giunsero ad Acragante tre mila soldati sceltissimi, che in tutta fretta i Siracusani mandavano in ajuto di Selinunte. I quali uditane la presa, spedirono delegati ad Annibale per domandare, che desse luogo al riscatto de' prigionieri, e rispettasse i templi degli Dei. Ma la risposta che diede Annibale, fu questa: I Selinunzii, che non aveano saputo difendere la loro libertà, dovevano giustamente provare la condizione di servi. Gli Dei nemici agli abitanti, essersi già appartati da Selinunte. Intanto almeno quelli che n'erano fuggiti avendo mandato oratore Empedione, Annibale restituì ad essi tutti i loro beni: essendo stato sempre Empedione del partito de' Cartaginesi; e prima che la città venisse assediata , avendo concertato co' cittadini di non intraprendere guerra contro quelli. Annibale donò inoltre ad Empedione tutti gli schiavi a lui congiunti di parentela; e ai Selinunzii fuggiti accordò, che di nuovo abitassero la città, e ne coltivassero il territorio , a patto però , che pagassero tributo a' Cartaginesi. In questa maniera adunque codesta città, popolata per dugento quarantadue anni, dacché era stata fondata, fu allora presa, la quale Annibale lasciò spoglia all'intorno di mura. Egli poi voltossi con tutto f esercito verso Imera, vogliosissimo di distruggerla da capo a fondo.