Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Battaglia di Megalopoli

331 a.C.

Gli avversari

Antìpatro - Generale macedone (390 circa - 319 a. C.)

Già influente durante il regno di Filippo II, Antipatro ebbe da Alessandro Magno, all'inizio della spedizione d'Asia, la reggenza della Macedonia e il governo delle cose di Grecia. Sostenne i partiti oligarchici contro le democrazie e sconfisse Agide III di Sparta che tentava di scuotere il giogo macedone. Dopo la morte di Alessandro (323) si ribellarono Ateniesi, Etoli e altre popolazioni i cui eserciti assediarono Antipatro in Lamia: l'arrivo di rinforzi macedoni e la successiva vittoria di Crannone (322) soffocarono però la rivolta. L'anno dopo Antipatro, collegato con Cratero e Antigono, partecipò alla guerra contro Perdicca; dopo la vittoria fu proclamato, nel convegno di Triparadiso (321), reggente dell'impero. Alla sua morte (319), lasciò la reggenza non al figlio Cassandro, ma al generale macedone Poliperconte.


Agide III, re di Sparta

Agide III Euripontide, regnò in Sparta dal 338 al 331 a. C. Egli avversò il dominio dei Macedoni sulla Grecia e tentò di sollevarla contro Alessandro Magno che si era avventurato nella sua campagna d'Asia. Riuscì a mettere insieme un esercito, in parte composto di mercenari (assoldati col contributo della Persia) e in parte di Peloponnesiaci, ma dopo alcuni successi fu sconfitto e perdette la vita (331) presso Megalopoli a opera del reggente macedone Antipatro.

La genesi

Mentre in Asia Alessandro proseguiva la sua trionfale marcia, in Grecia ed in Macedonia la situazione non era delle più rosee per il grande re Macedone. Regnava a Sparta Agide, figlio di Archidamo, il quale era caduto portando aiuto ai Tarantini nello stesso giorno in cui Filippo sconfisse gli ateniesi a Cheronea. Egli, emulo di Alessandro in quanto a valore, incitava i suoi concittadini a non tollerare più a lungo che la Grecia fosse oppressa dalla schiavitù dei macedoni: se non vi avessero posto rimedio per tempo, lo stesso giogo sarebbe stato imposto anche a loro. Bisognava fare perciò ogni sforzo finquando rimanevano ai persiani ancora delle forze per resistere: invano essi sarebbero stati memori dell'antica libertà, allorquando fossero stati schiacciati da una potenza soverchiante. Così, infiammati gli animi, meditavano l'occasione per intraprendere la guerra al momento opportuno. Quindi, indotti dal felice momento di Memnone (condottiero di Rodi che stava portando una energica controffensiva marittima antimacedone nell'Egeo), tentarono di aggregarsi alle sue decisioni e, dopo che quello vanificò, con la sua immatura morte, il promettente inizio dell'impresa, essi non agirono di certo con minor impegno, ma Agide, direttosi da Farnabazo e da Autofradate (satrapi persiani), richiese trenta talenti d'argento e dieci trireme, che mandò al fratello Agesilao, affinchè con esse si recasse nell'isola di Creta, i cui abitanti erano divisi i fazioni diverse tra pro-spartani e pro-macedoni. Furono inviati ambasciatori anche a Dario per richiedere una maggiore disponibilità di denaro per usi bellici e più navi. Inoltre la disfatta persiana ad Isso, non solo non ostacolò i progetti spartani, ma anzi li favorì. Infatti Alessandro, inseguendo Dario in fuga, si portava in luoghi sempre più lontani e la gran massa di mercenari al soldo di Dario, dopo la stessa battaglia, erano riusciti a guadagnare la fuga in Grecia. Con il denaro persiano Agide fu in grado di assoldarne circa 8.000, e grazie a questi fu in grado di riconquistare molte città cretesi. Quando a sua volta Menone, inviato da Alessandro in Tracia, indusse i barbari alla diserzione e per reprimerla Antipatro guidò l'esercito della Macedonia in Tracia, gli spartani, sfruttando le opportunità favorevoli, trassero dalla loro parte l'intero Peloponneso, eccetto poche città, allestendo un esercito di 20.000 fanti e 2.000 cavalieri al cui comando venne posto lo stesso re spartano. Antipatro, venuto a conoscenza di ciò, stipulò la pace in Tracia, alle migliori condizioni possibili, e ritornato in fretta e furia in Grecia, raccolse truppe ausiliarie dalle città alleate, fino ad assommare un numero di circa 40.000 combattenti. Anche dal Peloponneso era giunto un consistente reparto: ma poiché Antipatro stesso era venuto a sapere della loro dubbia fedeltà, nascondendo il sospetto li ringraziò per essere giunti a difendere la dignità di Alessandro contro gli spartani, e li informò che ne avrebbe scritto al re macedone, il quale, a suo tempo avrebbe mostrato la sua riconoscenza. Per il momento non c'era bisogno di altre truppe, pertanto potevano tornare in patria, visto che avevano già ottemperato agli obblighi dell'alleanza. Quindi inviò dei messi ad Alessandro per informarlo dei movimenti in terra greca. Questi ultimi raggiunsero il re macedone soltanto quand'egli era presso Battra, cioè quando ormai la guerra in Arcadia si era conclusa con la vittoria di Antipatro e la morte di Agide. In verità, già da tempo, appresa la rivolta degli spartani, Alessandro aveva provveduto per quanto poteva, essendo tenuto lontanto dall'estensione delle sue terre: aveva infatti comandato ad Anfotero di dirigersi verso il Peloponneso con le navi cipriote e fenicie, mentre ordinò a Menete di portare verso il mare 3000 talenti, così da rifornire personalmente Antipatro per tutto il denaro di cui necessitava. Alessandro infatti, aveva visto esattamente di che importanza sarebbe stata l'eventuale evoluzione di quella rivolta, anche se in seguito, una volta aggiornato con la notizia della vittoria, paragonando quel difficile momento alle sue gloriose gesta, ironizzò dicendo che quella era stata una "battaglia di topi". D'altronde gli inizi di quella guerra non furono sfavorevoli per gli Spartani. Vicino alla piazzaforte macedone di Corrago, erano usciti vittoriosi dopo essersi scontrati con una parte delle forze di Antipatro: e anche per la fama dell'impresa portata felicemente a termine, quelli che ne avevano atteso l'esito perché indecisi con chi schierarsi, furono indotti a allearsi con i lacedemoni. Una delle città elee ed achee, Pellene, rifiutava l'alleanza e in Arcadia anche Megalopoli fece la stessa scelta, rimanendo fedele ai macedoni in ricordo di Filippo, da cui era sempre stata gratificata. Ma questa, strettamente assediata, non fu lontana dall'arrendersi, se alla fine non le fosse arrivato il soccorso di Antipatro stesso. Egli, dopo aver avvicinato il proprio campo a quello nemico ed aver constatato di essere superiore agli spartani per numero di uomini e apparato militare, decise di ingaggiare quanto prima la battaglia decisiva: gli spartani non rifiutarono lo scontro.

La battaglia

Così iniziava la battaglia che pregiudicò seriamente la situazione spartana. Infatti, confidando nelle strettoie dei luoghi in cui si combatteva, dove pensavano che il nemico non avrebbe avuto alcun vantaggio dalla propria superiorità numerica, gli spartani avevano ingaggiato animosamente battaglia mentre i macedoni non riuscivano ad opporre una seria resistenza, riportando anche molte perdite. Ma dopo che Antipatro inviò rapidamente truppe fresche in soccorso ai suoi in difficoltà, le linee spartane, subito l'attacco, iniziarono a cedere il passo. Agide, dopo aver osservato la manovra, assieme alla guarnigione reale, formata interamente da guerrieri scelti, si gettò nel punto cruciale della battaglia, e una volta uccisi quelli che resistevano con più accanimento, ricacciò indietro gran parte dei nemici. I macedoni così iniziarono a fuggire, almeno fin quando riuscirono a far muovere a sufficienza gli spartani dalle loro posizioni, così da poter voltarsi e combattere in campo aperto: a quel punto si combatteva "ad armi pari". Tuttavia, il re spartano, svettava in mezzo a tutti i combattenti, non solo per il suo portamento e lo splendore delle sue armi, ma anche per la sua magnanimità, la sola cosa della quale non poté essere sconfitto. Agide infatti veniva assalito da ogni parte, ora da vicino, ora da lontano e roteando a lungo le armi neutralizzava alcuni colpi con lo scudo, altri li evitava col corpo, fino a quando le cosce, trapassate da una lancia, gli impedirono di combattere per il troppo sangue perso. Quindi, disteso sul suo scudo, venne portato verso il campo dai suoi uomini, soffrendo ancora di più il dolore delle ferite per il movimento ondulatorio prodotto dal trasporto stesso.

Tuttavia gli spartani non si ritirarono dal combattimento e, non appena poterono riconquistare una posizione più adatta alle loro caratteristiche, serrarono i ranghi e sostennero l'assalto nemico che si riversava da tutte le parti verso di loro. Nessun altro momento cruciale della battaglia fu così violento come questo. Gli eserciti dei due popoli più valorosi in guerra della loro era, combattevano ora alla pari. Gli spartani guardavano alla loro antica gloria, fatta di granitici opliti, i macedoni guardavano alla loro gloria attuale, portata da falange e sarissa; i primi combattevano per la libertà, i secondi per il predominio: agli spartani mancava il comandante, mentre ai macedoni mancava il terreno favorevole. Anche la vicenda tanto mutevole di un solo giorno accresceva ora la speranza, ora il timore in entrambe i contendenti, come se di proposito il caso avesse bilanciato il combattimento tra uomini valorosissimi. Del resto le strettoie del luogo in cui era stata costretta la battaglia, non permetteva che vi entrassero tutte le forze, quindi erano più gli uomini che assistevano allo scontro che quelli che vi partecipavano, e quelli che non potevano aver parte attiva nello scontro stesso incitavano a gran voce i compagni. Alla fine l'esercito spartano cominciò a soccombere, reggendo a malapena le armi, viscide di sudore, quindi a cedere il passo e a darsi alla fuga, sotto l'incalzare del nemico. I macedoni li inseguivano mentre fuggivano disordinatamente e, dopo aver attraversato tutto il terreno occupato dall'armata spartana, puntavano diretti verso lo stesso re Agide. Egli, quando vide la fuga dei suoi, e il nemico sopraggiungere, si fece adagiare al suolo: dopo aver verificato che le membra fossero in grado di reggere l'impeto del suo animo, allorché si sentì venir meno si sostenne sulle ginocchia, e indossato coraggiosamente l'elmo, proteggendo il corpo con lo scudo, brandiva una lancia con la destra, provocando inoltre il nemico, se qualcuno osasse sottrargli le armi mentre era a terra. Non ci fu nessuno che osò affrontarlo da vicino: era stato fatto bersaglio, da lontano, di ripetuti lanci di dardi, che lui stesso cercava di lanciare indietro verso il nemico fin quando una lancia si conficcò nel suo petto. Dopo averla estratta dal proprio corpo, appoggiò un po' il capo inclinato e privo di forze sullo scudo, quindi, con l'anima e il sangue che lo abbandonavano, si accasciò moribondo sulle sue armi. Quel giorno caddero 5.300 spartani e non più di mille macedoni; del resto quasi nessuno fece ritorno al campo, se non ferito.

Le conseguenze

Questa vittoria macedone fiaccò non solo Sparta e i suoi alleati, ma anche tutti coloro che aspettavano l'esito della guerra stessa. Nè sfuggiva ad Antipatro che il volto di coloro che si felicitavano con lui dissimulava i loro veri sentimenti, ma poichè desiderava finire la guerra, bisognava che si lasciasse "ingannare", e , benché contento del felice andamento delle cose, aveva tuttavia timore della malvolenza, poichè esse erano assai superiori a quelle che potessero toccare ad un governatore. Infatti Alessandro voleva si la sconfitta del nemico, ma si era apertamente irritato che avesse trionfato Antipatro stesso, ritenendo usurpato alla propria gloria qualsiasi successo che non provenisse dalle sue mani. Pertanto Antipatro, che ben conosceva il carattere del re, non osò dettare direttamente le condizioni della vittoria, ma interpellò l'assemblea dei greci sul da farsi. Da tale consesso gli spartani ottennero null'altro che fosse possibile inviare delle ambascerie al re, i Tegeati (abitanti di Tegea antica città dell'Arcadia sudorientale, nel Peloponneso) ottennero tutti, tranne i promotori, il perdono per la propria defezione. Agli Achei ed Elei fu ordinato di versare centoventi talenti ai Megalopolitani, come risarcimento per l'assedio. Questo fu l'esito della guerra che, seppur scoppiata all'improvviso, terminò prima che Alessandro sconfiggesse Dario a Gaugamela.

Alessandro stesso, impegnato com'era in epici scontri tra sterminate masse di soldati per la conquista del più vasto impero conosciuto, non aveva ben compreso che quella "battaglia di topi", non meno epica di quelle che stava affrontando lui, aveva sancito in realtà la fine dei giganti: gli spartiati, gli "eguali" che avevano fatto di Sparta il modello bellico per eccellenza del mondo antico, erano stati messi in ginocchio come il loro re, e la battaglia di Megalopoli, rappresenta il vero passaggio di testimone tra la falange dai mantelli rossi e quella armata di sarissa.