Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Battaglia di Imera

480 a.C.

Gli avversari

Gelone I (Gela, 540 a.C. - Siracusa, 478 a.C.)

Signore di Siracusa e vincitore dei Cartaginesi (detto anche Gelone I). Nativo di Gela, fu il primogenito di Dinomene, che dopo di lui ebbe ancora cinque figli (dinomenidi). Della sua giovinezza non ci restano notizie degne di fede. Ci rimane un aneddoto inteso a mostrare ch'egli preferiva gli esercizi militari agli esercizi musicali e letterari, il cavallo alla lira. Ippocrate, succeduto al fratello nella signoria di Gela, affidò a Gelone un comando militare, e lo mise presto a capo della cavalleria. Le guerre contro le città di Callipoli, Nasso, Zancle, Siracusa e contro alcune popolazioni indigene permisero a Gelone di mettere in mostra il suo valore. Caduto Ippocrate a Ibla, Gelone assunse la tutela dei figli di lui, Euclida e Cleandro, e vinse i Geloi che si erano valsi della circostanza per scuotere il giogo della signoria. Ma tenne per sé i vantaggi della vittoria, e si fece signore di Gela, mettendo da parte i figli d'Ippocrate. Questo avveniva verso il 491, e in ogni caso prima del 488 a.C. Lo stato di cui Gelone fu a capo comprendeva gran parte della Sicilia orientale, e circondava il territorio di Siracusa. Questa città era in preda a lotte sociali, e il popolo minuto, fatta alleanza con gli schiavi, detti calliciri o cilliciri, riuscì a cacciare in bando i proprietari (gamori) che si rifugiarono a Casmene. Di qui si rivolsero a Gelone, che accolse l'appello e li ricondusse a Siracusa, ove si domiciliò come signore, lasciando il governo di Gela al fratello Gerone. Egli fu pertanto uno dei sovrani più potenti del tempo. Ingrandì la sua nuova capitale con parte degli abitanti di Camarina e di Gela medesima. Assediò e costrinse alla resa la città di Megara, ne trasportò a Siracusa la borghesia, fece vendere e trasportare fuori dell'isola il proletariato turbolento, che egli considerava, secondo la frase che gli era attribuita, come uno scomodo coinquilino. Gelone fu capace di estendere i suoi domini per tutta la costa orientale della Sicilia; in aggiunta a questo, egli si era imparentato con Terone, signore di Agrigento e d'Imera, del quale aveva sposato la figlia Demarete; teneva ai suoi ordini un forte esercito e una flotta reputata come una delle più poderose di quante ne fossero tra gli stati greci. In realtà Gelone doveva provvedere a parare in Sicilia la minaccia dei Cartaginesi, i quali avevano allestito un grosso esercito (gli antichi parlano di 300.000 uomini!) che sbarcò a Palermo e si avanzò verso Imera, a cui pose assedio. La città era difesa da Terone, che non disponeva di forze sufficienti al bisogno. Mosse in suo aiuto Gelone, con un esercito che si fa ascendere a 55.000 uomini. La lotta non fu lunga e terminò con una piena disfatta dei Cartaginesi: il loro comandante, Amilcare, scomparve, un numero enorme di prigionieri fu diviso fra i vincitori. La vittoria d'Imera fece il paio con quella dei Greci a Salamina, e si disse ben presto che erano avvenute entrambe nello stesso giorno (480 a. C.). La pace che seguì, della quale sarebbe stata anche intermediaria Demarete, non portò notevoli mutamenti territoriali. Gelone alzò in memoria un tempio a Demetra e alla figlia, di cui possedeva in eredità il sacerdozio. Altri doni fece ad Apollo in Delfi, a Giove in Siracusa e in Olimpia. Quivi aveva fatto alzare un gruppo di bronzo, in memoria d'una vittoria ottenuta alla corsa dei carri quando era semplicemente tiranno di Gela. Morì poco dopo, nel 478 o 477 A.C., d'idropisia.


Terone

Tiranno di Agrigento, figlio di Enesidemo e appartenente alla famiglia degli Emmenidi che si voleva far discendere da Cadmó. Si narrava che Terone, per ottenere il governo della città (nel 488 a.C.), avesse usato metodi non dissimili da quelli già adottati da Falaride. Imparentatosi in seguito con i Dinomenidi, dando in moglie a Gelone la figlia Damarete e sposando una figlia di Polizelo, Terone iniziò una politica espansionistica allargando i domini di Agrigento verso Selinunte, verso Gela e, a nord, verso Imera, donde cacciò Terillo. Di qui la lotta che, alleato di Gelone, egli condusse contro Terillo, Anassila e i Punici e che si concluse con la battaglia di Imera (480). Dopo la vittoria, Terone diede il governo della città incorporata nel suo regno al figlio Trasideo, la cui condotta doveva poi condurre gli Imeresi a domandare la protezione dei Dinomenidi. Questo fatto e i torti ricevuti da Polizelo sembrarono dovessero turbare le relazioni tra il signore di Siracusa e quello di Agrigento, ma la nube presto si dileguò e le relazioni amichevoli furono ristabilite con evidente danno degli Imeresi. Intorno allo stesso tempo si ebbe la congiura, che però fu sventata, ordita contro Terone dai di lui cugini, Ippocrate e Capi. Terone moriva nel 472 lasciando il governo a Trasideo. Sotto il regno di Terone, Agrigento non soltanto salì a grande potenza, ma si abbellì anche di molte opere pubbliche e di alcuni dei suoi templi più famosi (tra i quali certamente quelli di Atena, di Demetra e Cora nonché il colossale Olimpieion). Il nome del tiranno agrigentino fu reso chiaro anche dal canto dei poeti che frequentarono la sua corte, quali Simonide e Pindaro che a lui dedicò la II e III Olimpica.


Amilcare

Figlio di Annone, capo politico e militare dei Cartaginesi forse intorno al 480 a. C. Cercò di contrastare l'invadente potenza di Terone d'Agrigento, quando questi minacciò gli interessi cartaginesi in Sicilia, e a questo scopo si alleò contemporaneamente con Terillo, tiranno deposto di Imera e con Anassilao, tiranno di Reggio e Messina. Scopo dell'alleanza era la creazione di un vasto dominio cartaginese, o controllato dai Cartaginesi, sulle coste settentrionali della Sicilia sino allo stretto di Messina. Ma l'ambizioso piano fallì perché Amilcare, sotto Imera, fu sbaragliato dagli eserciti collegati di Terone e di Gelone siracusano. Morì sul campo, o suicida in olocausto agli dei, come vuole la tradizione cartaginese, o ucciso dai Greci.

La genesi

Negli anni che precedettero l'invasione della Grecia da parte di Serse, i componenti di quella che è conosciuta oggi come Magna Grecia, ed i siciliani in particolare, dovettero guardarsi dall'aggressività e dalla sete di potere di due signori della città di Gela: Ippocrate, ma soprattuto il suo successore, Gelone, che di Ippocrate era stato il principale luogotenente, rilevandolo nella signoria di Gela alla sua morte, avvenuta probabilmente nel 485 a.C. Terribilmente ambizioso e assai capace come condottiero, prima di mettersi al servizio del tiranno, Gelone aveva tentato senza successo di impadronirsi della tirannide a Imera, dove aveva conseguito il ruolo di stratego con potere supremo; ma il trasferimento a Gela come comandante della cavalleria di Ippocrate gli aveva offerto ben altre risorse, su cui poté mettere le mani soffiando il potere ai figli del tiranno. I suoi domini si stendevano su tutta la costa orientale dell'isola, con la sola eccezione di Catana, destinata, per altro, a essere anch'essa assorbita nello stato siracusano. Gelone si era imparentato con Terone, signore di Agrigento e d'Imera, del quale aveva sposato la figlia Demarete; teneva ai suoi ordini un forte esercito e una flotta (pare oltre le 200 navi) reputata come una delle più poderose di quante ne fossero tra gli stati greci. Si narrava di un'ambasceria che Sparta e Atene gli avrebbero mandato, sotto la minaccia dell'invasione persiana, per ottenere aiuti: alla quale Gelone rispose con orgogliose parole e pretese esorbitanti. L'intraprendenza di Gelone preoccupava più di una città dell'isola, che aveva ragione di temere una progressiva estensione della sua influenza, soprattutto dopo l'alleanza da lui stipulata, e sancita con vincoli matrimoniali, con il tiranno di Agrigento, Terone, che si era ormai legato a Siracusa in una posizione subordinata. La scintilla della guerra fu accesa da Anassila, signore di Reggio, che dopo l'occupazione di Zancle (Messina) si legò al tiranno di Imera, Terillo, obbligando Terone a intervenire per sottrarre quell'importante centro alla sfera di influenza dei filofenici. Fu allora che il signore di Messina richiese l'intervento punico, consegnando i propri figli come ostaggi ad Amilcare, allora supremo magistrato di Cartagine. Così, i cartaginesi si prepararono all'invasione, il cui scopo doveva essere la riconquista di Imera. Le cifre che fornisce Diodoro sul loro esercito sono, al solito, iperboliche: 300.000 soldati, arruolati in tutti i territori sotto il controllo punico, ovvero Numidia, Spagna, Gallia e la stessa penisola italica, con 200 triremi e 3000 navi da trasporto.

I punici sbarcarono a Panormo, e iniziarono la marcia verso Imera nella tarda estate del 480 a.C., una marcia che, come quella di Serse dall'Ellesponto, era affiancata dalla navigazione sottocosta da parte della flotta. Il signore di Agrigento, Terone, non oppose resistenza alla marcia punica; egli preferì contrapporre ad Amilcare la città ben presidiata, nella speranza di resistere fino a quando Gelone non fosse in grado di schierare un esercito di proporzioni dignitose. Né ostacolò Amilcare quando questi, tratte in secco le sue navi da guerra, vi costruì intorno una palizzata e un fossato, nella zona tra il fiume Torto e la città, ponendo oltre il corso d'acqua il campo per le forze terrestri, e isolando così Imera dal mare e dall'interno, dove le truppe cartaginesi furono libere di saccheggiare il territorio circostante. A dire il vero, un tentativo di interrompere i lavori di sterro Terone lo fece, lanciando la guarnigione in una sortita dall'esito infelice, nella quale fu sufficiente ad Amilcare utilizzare un contingente di soldati scelti per averne ragione, decimando i greci prima che riuscissero a riguadagnare le mura della città. A quel punto, Terone ritenne opportuno sollecitare l'intervento dell'alleato, inviando a Gelone un messaggero. Ma ormai il tiranno di Siracusa era pronto e, in contrasto con l'estrema lentezza con cui le aveva mobilitate, condusse con grande celerità le proprie truppe, 50.000 fanti e 5000 cavalieri, attraverso la Sicilia; né esitò, una volta giunto davanti alle mura di Imera, a sguinzagliare la propria cavalleria, certamente superiore a quella nemica per via del disastro marittimo, a rastrellare le bande di razziatori punici lungo il territorio imerese. Con questo sistema, mentre la sua fanteria era impegnata nell'allestimento di un campo fortificato, Gelone fece 10.000 prigionieri e, soprattutto, infuse grande fiducia nei difensori che, poco prima del suo arrivo, erano estremamente demoralizzati.

La battaglia

Grazie a questo iniziale successo, a cui aggiunse l'ordine di aprire tutte le porte della città per intensificare le sortite, il tiranno siracusano era ormai consapevole di aver accresciuto lo spirito combattivo degli assediati, e sottratto ai punici la convinzione della loro superiorità. Così, mentre pianificava un attacco per incendiare le navi cartaginesi portate a secco sulla costa, gli portarono un dispaccio proveniente da Selinunte, caduto nelle mani delle pattuglie siracusane, in cui era segnalato l'arrivo di un contingente di cavalleria cartaginese di rinfirzo in quel settore. A quel punto, la sorte aveva offerto a Gelone un comodo modo per arrivare a ridosso delle fortificazioni nemiche. L'arrivo dei rinforzi era previsto per un determinato giorno fissato da Amilcare per celebrare sacrifici a Poseidone, che la tradizione sostiene essere stato lo stesso in cui si combatté la battaglia di Salamina. Gelone non dovette far altro che dire ai propri cavalieri di presentarsi all'alba di quella data davanti al campo punico, di entrare e di dar fuoco alle navi, uccidendo, possibilmente, lo stesso Amilcare. Provvide inoltre a piazzare alcune vedette sulle alture limitrofe, affinché gli segnalassero il momento dell'entrata dei greci nel campo nemico, permettendogli così di attaccare a sua volta, con il resto dell'esercito che teneva schierato in ordine di battaglia.

Filò tutto liscio. La prima cosa che i cavalieri greci fecero subito dopo essere entrati nell'accampamento punico, fu di uccidere Amilcare, intento a celebrare il sacrificio. Quindi, mentre Gelone iniziava a muovere le proprie truppe, si precipitarono verso le navi dandogli fuoco. La reazione cartaginese ci fu, e fu assai tenace: i comandanti subalterni furono in grado di mobilitare tutti i soldati disponibili e, mentre anche la fanteria greca entrava nell'accampamento, si scatenò una furiosa mischia che solo dopo lungo tempo determinò la rotta degli invasori. Gelone diede ordine di non fare prigionieri, il che rese l'inseguimento ai fuggitivi, cui parteciparono anche le truppe di Terone, estremamente cruento. Una buona metà dell'esercito punico rimase sul terreno, mentre molti riuscirono ad asserragliarsi nel campo fortificato della fanteria, dove però, oppressi dalla mancanza di viveri, furono costretti ad arrendersi.

Le conseguenze

Così Gelone, vincitore in questa memorabile battaglia, il cui esito favorevole fu dovuto particolarmente alla sua abilità di condottiero, si acquistò gran fama non solo tra i sicilioti, ma anche tra tutte le altre genti. Nessuno mai, infatti, a memoria d'uomo, prima di lui seppe escogitare uno stratagemma così efficace, o riuscì a trucidare in una sola battaglia un maggior numero di barbari, o fece un numero così grande di prigionieri. La vittoria accrebbe in misura esponenziale il prestigio di Gelone, che poté estendere la propria area d'influenza pressoché all'intera Sicilia greca, senza dover sostenere ulteriori combattimenti, prima di morire, solo due anni dopo, gratificato del titolo di re dai propri concittadini. I cartaginesi non molestarono più l'isola per settant'anni, e sorse un mucchio di storie sul triste destino che accompagnò, negli anni seguenti, i rimasugli dell'armata di Amilcare: pare che i prigionieri fossero talmente tanti che, nel territorio di Agrigento, ogni cittadino finì per possedere 500 schiavi; e comunque, solo uno sparuto gruppo di soldati riuscì a raggiungere le coste dell'Africa, poiché una tempesta affondò quanto era rimasto della possente flotta d'invasione.