Battaglie In Sintesi
341 o 339 a.C.
Uomo politico e generale corinzio. Stratega di Siracusa, molti anni dopo aver liberato la città (365) dalla tirannide, comandò una spedizione (345) per aiutare i democratici di Siracusa contro il tiranno Dionisio II. Dopo la vittoria, difese poi con successo la città contro i tentativi di conquista sia dei Cartaginesi sia di altri tiranni siciliani, dedicandosi infine alla sua ricostruzione politica ed economica.
Nato da famiglia cospicua, liberò la patria dalla tirannide di Timofane, suo fratello (365), e poi, giudicato variamente dai suoi concittadini, si tenne per vent'anni lontano dalla vita pubblica. Fu a capo di una piccola spedizione corinzia mandata (345) per aiutare i Siracusani democratici, rifugiatisi a Leontini al ritorno di Dionisio II, e per porre fine all'anarchia in Siracusa e nell'isola. Quando i Cartaginesi inviarono in Sicilia una spedizione, Iceta, signore di Leontini, si accordò con essi, e s'impadronì di Siracusa, tranne che dell'isola di Ortigia dove si sosteneva ancora Dionisio. Ma Timoleonte, presso Adrano, sbaragliò Iceta pur superiore di forze; dopo poco si arrese Dionisio, che fu in seguito mandato a Corinto. Intanto Iceta assediava con l'aiuto delle truppe cartaginesi i Corinzi che avevano occupato la rocca di Siracusa ed erano soccorsi da Timoleone. Questi allora, con aiuti inviati da Corinto e da varie città siciliane, attaccò Siracusa e se ne impadronì (343-42); mosse poi, dopo essersi accordato con Iceta, contro i Cartaginesi, che sbaragliò presso il fiume Crimiso (341 o 339). In seguito però dovette nuovamente lottare contro quegli stessi tiranni che prima avevano combattuto con lui contro lo straniero: Iceta di Leontini, Mamerco di Catania, Ippone di Messina e altri: tutti però, quando i Cartaginesi chiesero e ottennero la pace, restarono isolati e furono a uno a uno sconfitti, fatti prigionieri e giustiziati. Allora Timoleonte si diede all'opera di ricostruzione: riformò le leggi siracusane, istituì un'oligarchia moderata, affidò la direzione degli affari a un sinedrio di 600 membri, strinse in una lega Siracusa e le altre libere città greche dell'isola. Infine (337-36) lasciò la carica di stratega, morendo di lì a poco, circondato dalla stima di tutti.
Contemporaneo del tiranno Agatocle, da identificare forse coll'Amilcare che combatté contro Timoleone al fiume Crimiso nel 340 a.C. insieme con Asdrubale. Ciò non è impossibile, ove si supponga che in quel momento fosse in età ancora giovanile, poiché egli si trovò contro Agatocle nel 319 e 313, quando poteva essere in età alquanto, non troppo, avanzata. Acestoride mandato da Antipatro, reggente del regno fondato da Alessandro, cui gli oligarchici di Siracusa si erano rivolti, fu mediatore di pace tra i Siracusani e i Cartaginesi, di cui aveva il comando Amilcare; i democratici furono banditi e fra questi Agatocle. Si fece ad Amilcare l'accusa di essersi messo d'accordo con Agatocle al quale avrebbe ceduto 5000 mercenari, ingrossando così l'esercito col quale Agatocle mosse da Morgantine alla volta di Siracusa. Siccome lo si ritrova di nuovo nel 313 a trattare la pace con Agatocle dopo il fallimento della spedizione di Acrotato, principe spartano, che, venuto nel 315 al soccorso degli oligarchici fuorusciti dopo la conquista del potere da parte di Agatocle, si era reso inviso per la sua tracotanza; e poiché allora Amilcare fu accusato dai Cartaginesi, è probabile che della sua mediazione del 319-8 si sia giudicato alla stregua di quella del 313. Amilcare morì prima che si potesse svolgere il processo.
A vent'anni di distanza dalla liberazione della propria città dalla tirannide de fratello Timofane (365), Timoleonte non era ancora rientrato appieno nella vita politica quando, in Sicilia, la spedizione di Dione contro Dionisio il Giovane aveva avuto per effetto di abbattere la potente monarchia militare dei Dionisi e di far cadere l'isola nell'anarchia. Di questa aveva profittato Dionisio II per tornare circa 10 anni dopo la sua fuga dall'Italia in Siracusa (346) e impadronirvisi di nuovo del potere. Molti Siracusani si rifugiarono a Leontini che era stato già un punto di appoggio di Dione. Ivi dominava un antico partigiano di Dione, Iceta. Di lì essi mandarono un'ambasceria a Corinto, a madrepatria di Siracusa, sollecitando l'intervento dei Corinzi per porre fine all'anarchia nella città e nell'isola (346-45). I Corinzi prepararono una piccola spedizione della quale fu affidato il comando a Timoleonte ritenendo che il fratricidio da lui compiuto dava sufficiente garanzia che non avrebbe, come si riteneva avesse voluto fare Dione, abbattuto una tirannide per sostituirvene un'altra. Forse per il timore ispirato loro dal ritorno di Dionisio o per quello dell'intervento corinzio, i Cartaginesi che già avevano profittato dell'anarchia per estendere di nuovo su varie città greche della Sicilia il loro dominìo, inviarono nell'isola una spedizione che con grande esagerazione viene computata a 50-60.000 uomini e 150 triremi. Subito Iceta e altri tiranni si accordarono con essi e Iceta, che prima aveva favorito almeno in apparenza le richieste dei fuorusciti siracusani a Corinto cercò poi, d'accordo coi Cartaginesi, d'impedire la spedizione. All'uopo i Cartaginesi inviarono una squadra nello Stretto di Messina. Timoleonte con 10 navi e 700 uomini costeggiando l'Italia meridionale giunse a Metaponto e di qui proseguì per Reggio (344). Frattanto Iceta era riuscito a impadronirsi di Siracusa, salvo la cittadella fortificata nell'Isola di Ortigia, dove si sosteneva ancora Dionisio. Ciò era avvenuto tre giorni prima della partenza di Timoleonte da Metaponto. Tanto più i Cartaginesi a Reggio insistevano d'accordo con Iceta perché Timoleonte non varcasse lo stretto. Ma egli, d'intesa coi Reggini, ingannata mediante uno stratagemma la sorveglianza delle navi cartaginesi, da Reggio pervenne, invano inseguito dai barbari, a Tauromenio, dove Andromaco, il padre dello storico Timeo, che vi era signore, lo accolse entusiasticamente come liberatore dell'isola. Iceta marciò subito alla sua volta con forze soverchianti (si dice che disponesse di 5000 uomini, mentre Timoleonte ne aveva 1000 o poco più). Ma Timoleonte stesso lo attaccò e sbaragliò con gravi perdite presso Adrano.
Dionisio II usciva definitivamente di scena, spedito da Timoleonte a Corinto, dove avrebbe vissuto in miseria gli ultimi anni della sua vita. Dopo l'inverno, la flotta cartaginese smobilitò e il condottiero corinzio poté entrare facilmente a Siracusa, costringendo Iceta a fuggire a Leontini. Timoleonte si assunse l'onere di ripopolare la città, prostrata da anni di lotte civili, di restituirle un solido apparato costituzionale e di dotarla di un esercito sufficientemente forte da permetterle di fronteggiare la prevedibile reazione di Iceta e dei punici. Poi, il condottiero corinzio prese a ripristinare il dominio siracusano sull'isola, agendo al nord e punzecchiando i cartaginesi, ai quali soffiò Entella, la cui conquista gli valse un ricco bottino. I punici, da parte loro, stavano già preparando una spedizione in grande stile per assumere il controllo dell'intera Sicilia. L'armata d'invasione, al comando degli strateghi Asdrubale e Amilcare, sbarcò nell'isola, a Lilibeo, nel maggio o all'inizio del giugno di un anno compreso tra il 342 e il 339 a.C. Comprendeva, stando alle cifre riportate da Diodoro, 70.000 fanti e 10.000 tra cavalieri, cavalli di riserva e carri, su una flotta di 200 navi da guerra e un migliaio da carico. Tra i soldati spiccava il Battaglione Sacro di Cartagine, formato da 2500 elementi delle truppe cittadine, che raramente i punici impiegavano nelle loro guerre all'estero, per le quali preferivano valersi di mercenari e di combattenti reclutati nelle loro zone d'influenza, in Libia, in Liguria, in Spagna e in Gallia.
Di fronte a un simile spiegamento di forze, lo stesso Iceta aveva da temere, e Timoleonte poté stipulare con lui un accordo che gli permise di fruire anche degli effettivi dell'avversario siciliota. Una volta radunate tutte le forze a disposizione - 12.000 uomini, di cui 4000 mercenari, oltre a 3000 siracusani e alle truppe fornite dalle città alleate -, che però non arrivavano a misurare un sesto degli effettivi punici, il condottiero corinzio optò per una strategia offensiva, invadendo il territorio sotto il controllo cartaginese, «allo scopo di lasciare intatto il territorio degli alleati e di devastare quello soggetto ai barbari». Avanzò pertanto nella zona di Acragas, dove però trovò un ostacolo imprevisto nella rivolta di una parte dei mercenari, che «pensando che Timoleonte non fosse sano di mente ma ormai fuori di senno per l'età», si rifiutarono di procedere alla volta di quella che ritenevano una sicura disfatta; il condottiero, che vedeva sempre il lato buono in ogni evento, ritenne «un guadagno che costoro avessero rivelato la loro disposizione prima della battaglia», e fece volentieri a meno di un migliaio di essi, che rispedì a Siracusa. Anche Asdrubale e Amilcare stavano avanzando, col probabile intento di punire Timoleonte per il suo saccheggio di Entella. La rapida marcia del condottiero corinzio anticipò il contatto dei due eserciti, che avvenne lungo le sponde del fiume Crimiso (l'odierno Belice), nella Sicilia nord-occidentale, a est di Segesta, lungo il quale i punici avevano stabilito il campo.
Tratto da: Le vite di Plutarco. volgarizzate da Girolama Pompei (1810)
«Nel mentre che saliva egli (Timoleonte) un colle, dal quale era per mirar l'accampamento e tutte le forze nemiche, incontrossi con muli carichi d'appio: cadde però in pensiero a' soldati suoi che quello fosse un segno di cattivo augurio, per esser noi soliti di coronar d'appio i sepolcri, e per esser nato quindi un certo proverbio, che usiamo noi verso chi sia mortalmente ammalato, dicendo che egli ha bisogno d'appio. Timoleonte adunque volendo levar loro quella superstizione, e i sentimenti di poca fiducia che aveano, fattili fermare, fece loro un ragionamento, nel quale dopo di aver parlato come si conveniva in quelle circostanze, disse che prima della vittoria era loro la corona portata, la quale spontaneamente nelle lor mani veniva, alludendo con dir ciò al costume dei Corintj di coronare d'appio i vincitori de' giuochi istmici, tenendosi da essi una tal corona per sacra e per cosa sempre usata da' loro padri: e ben anche ai tempi di Timoleonte la corona che si dava in que' giuochi, era d'appio, siccome lo è presentemente quella che si dà ne' giuochi Nemei; né è già molto da che in quelli si è introdotta in vece la corona di pino. Timoleonte dopo aver dunque ragionato a' soldati suoi, come si è detto, prese di quell'appio, ed egli il primo se ne incoronò; ed indi ciò pur fecero i capitani che aveva al d'intorno, e insieme tutta la soldatesca. Gl'indovini poi, osservando allora due aquile che venivano a quella volta, l'una delle quali portava un dragone in cui fitti aveva gli artigli, e l'altra volava mandando alte grida e insinuanti coraggio, le indicarono a' soldati, che tutti si volsero a far preghiere agli Dei e ad invocarli. Correva allora il principio dell'estate, e terminando il mese Targelione (fine di maggio e inizio giugno), erasi già verso il solstizio; ed essendosi levata una gran nebbia dal fiume, tenea coperta di caligine la pianura, né lasciava veder cosa alcuna nel campo nemico, e solamente sentiasi, stando sul colle, un vario indistinto e confuso rumore, destato da una si grande armata, che rimpetto era del colle medesimo. Quando i Corintj furono sulla cima saliti, deposti gli scudi si riposavano: e il sole intanto, girando intorno, sollevava i vapori; e l'aer torbido e oscuro, raccogliendosi e condensandosi sull'alte vette, ingombrava le sommità; e rimasti però depurati i luoghi bassi, si scoperse il Crimeso, e veduti allor furono i nemici che lo passavano. Veniano innanzi le quadrighe spaventevolmente allestite per la battaglia: dietro queste seguivano diecimila soldati con grave armatura, i quali portavano scudi bianchi, e argomentavasi che fossero propriamente Cartaginesi dallo splendore dei loro arredi e dalla lentezza e dall'ordine con cui marciavano. In seguito di questi poi venivano le altre genti, che in folla e disordinatamente passavano; indi avendo Timoleonte osservato coloro che il fiume andavano varcando, si risolse ch'ei potesse venir alle mani con quella sola quantità di nemici ch'egli avesse voluto, e facendo osservar pur a' suoi soldati quelle truppe separate dalla corrente, mentre altre erano già passate, ed altre in procinto si stavano di passare, ordinò a Demareto di avventarsi colla cavalleria sopra i Cartaginesi, e metterli in iscompiglio e a soqquadro prima che disposti si fossero in ordine di battaglia. Quindi, disceso al piano ancor egli, pose sull'ali gli altri Siciliani, mettendovi insieme dall'una e dall'altra parte non molti de' soldati stranieri, mentre tenne nel mezzo intorno a se medesimo i Siracusani e i più bellicosi tra i mercenarj, fermandosi a vedere ciò che faceva la cavalleria. E veggendo che questa, per cagione dei carri ch'erano alla fronte di quell'oste nemica, venir non poteva alle mani co' Cartaginesi, ma che per non venire sgominata, costretta era di andar continuamente caracollando, e di rivolgersi spesse volte a rinnovare gli attacchi, alzato lo scudo, disse ai suoi fanti che si facessero animo e che lo seguissero; e il disse con tuono di voce così gagliardo, che parve assai maggior del consueto; o fosse ch'egli così l'alzasse per l'ardore e per l'entusiasmo da cui sentiasi portato alla zuffa, o fosse che un qualche Nume (come fu allora creduto da molti) avesse mandata fuori la sua voce unitamente a quella di Timoleone. Subitamente però facendo essi eco alla di lui voce e facendogli istanza, perché senza dilazione ci si menasse avanti, ordinò alla cavalleria di passare dal sito dov'erano schierati i carri, ad assalire i nemici di fianco; ed egli, fatti serrare i suoi fanti, ch'erano dinanzi, in modo che aveano unito scudo con scudo, e avendo comandato che fosse sonata la tromba, si scagliò contro i Cartaginesi. Costoro gagliardamente sostennero il primo impeto, e munita avendo la persona 'di corazze di ferro e di celate di rame, e grandi scudi opponendo, respingeano le lance ch'erano avventate contro loro. Ma dopo che furono venuti alle spade ed ebbero attaccato il combattimento, in cui ha la meglio la maestria non meno che la robustezza, accadde che tutto in un tempo scoppiarono tuoni spaventevoli dalle cime de' monti, cadendo giù lampi infuocati. Indi la caligine (Nebbia), ch'era intorno a' luoghi rilevati e alle sommità, fattasi sopra il campo della battaglia, si scaricò in acqua mescolata con turbini e con gragnuola (grandine), che si versava sopra i Greci dalla parte delle spalle, e che veniva a percoter i barbari in faccia, i quali, per la' procella e pel continuo lampeggiare che uscìa delle nubi, restavano senza vista ed abbagliati. Molte erano veramente le cose che davano afilizione a' barbari stessi in un tale stato, e principalmente a quelli che non aveano esperienza: ma ciò che sembrava li pregiudicasse, era il fragore de' tuoni e lo strepito che movea dagli scudi percossi dall'impetuosa pioggia e dalla grandine, onde non potean esser uditi gli ordini de' comandanti».
«In oltre veniva ad essere d'impedimento a' Cartaginesi anche il fango, avendo essi non già leggiera, ma grave armatura, come si è detto, e riuscendo pur loro gravi le vestimenta tutte inzuppate e piene di acqua, non potean che essi operare disagevolmente in quel conflitto, e agevolmente per contrario rovesciati venivan da' Greci; né, quando fossero caduti, sapeano più trovar maniera di rilevarsi con quelle pesanti armi dal fango. Imperciocché il Crimeso per la quantità della gente che lo traversava era straboccato, essendo anche per la pioggia già molto cresciuto, e riempita avea la pianura al d'intorno (dove erano molte cavità e molte fosse) di flutti, che qua e là fuor del loro alveo scorreano, da' quali i rotolati Cartaginesi a grande stento trovavano scampo. Finalmente, durando pur tuttavia la procella, e avendo i Greci prostesa la prima ordinanza nemica formata di quattro cent'homini, si volse tutta quella gran moltitudine in fuga. Quindi molti furono trucidati per la pianura nella quale veniano raggiunti; molti perivan nel fiume che li trasportava, mentre incontravansi e si urtavan cogli altri che ancora lo passavano; e moltissimi poi, vennero uccisi da' soldati leggeri mentre si studiavan di guadagnar le colline».
Del Battaglione Sacro Cartaginese non se ne salvò uno, oltre ad altri 10.000 caduti tra le file cartaginesi. I greci ebbero anche l'opportunità di fare ben 15.000 prigionieri, impadronendosi dei 200 carri che non avevano distrutto, delle bestie da soma e delle salmerie. Nonostante che molte panoplie fossero affondate nel fiume insieme a chi le indossava, Timoleonte si vide portare un migliaio di corazze e 10.000 scudi, materiale più che sufficiente a distribuirlo tra gli alleati, dedicarlo nei templi di Siracusa e inviarlo a Corinto. Il campo cartaginese rivelò anche una gran quantità di ornamenti e vasellame d'oro e d'argento, appartenente ai componenti del Battaglione Sacro, costituito da cittadini insigni per nobiltà e ricchezza; il vincitore distribuì il bottino tra i soldati, guadagnandosi un favore che non sarebbe venuto mai meno fino alla sua morte.
Il successo ottenuto da Timoleonte con pochissime forze, cioè la liberazione quasi integrale della Sicilia greca dai tiranni e dallo straniero, ha del prodigioso e gli stessi antichi non si saziavano di esaltare fino al ridicolo la sua fortuna. In realtà il prodigio si spiega anche più che con le doti non comuni di Timoleonte come politico e come generale col vivissimo desiderio di ordine, di pace, di libertà che ferveva nei Sicelioti, e con la fiducia che ispiravano ad essi la sua probità e il suo disinteresse. Come generale, egli eccelleva soprattutto nell'attaccare arditamente, di sorpresa, il nemico superiore di forze, ma impreparato, con truppe agguerrite e disciplinate. Come politico, egli diede nuovo vigore all'elemento greco di Sicilia e gli assicurò alcuni anni di benessere. Ma non costruì durevolmente. La lega tra le città siciliane non solo non fu una simpolitia come la Lega Olintiaca, o come quella fallita tra Argo e Corinto, ma non ebbe neppure una salda organizzazione federale come la Lega Beotica o la Lega Arcadica. Le esperienze greche e siciliane degli ultimi anni non appresero nulla a Timoleonte il quale non si avvide che la polis greca, come organismo pienamente sovrano, aveva fatto il suo tempo ed era impotente ai suoi compiti di difesa interna ed esterna. L'ordinamento politico allestito dal condottiero corinzio, non sarebbe quindi sopravvissuto di molto alla sua morte: i greci d'Italia avevano la tendenza a replicare il particolarismo tipico della loro madrepatria, e non sarebbe passato molto tempo prima che la loro terra divenisse nuovamente terra di conquista per i cartaginesi e campo di battaglia tra questi ultimi e i romani.