Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Battaglia del Cremera

477 a.C.

La Gens Fabia

Antichissima stirpe patrizia romana che faceva risalire la propria origine a Ercole. Da essa prese il nome la tribù Fabia, istituita secondo la tradizione insieme con le altre tribù rustiche nel 494 a. C. Alla gente Fabia è legato il culto del primitivo dio Luperco. Ai Fabii e ai Quintilî o Quinzî appartennero sempre ed esclusivamente dapprima i dodici sacerdoti preposti a questo culto, che si collega con la leggenda delle origini di Roma e continuò a essere celebrato nelle feste dei Lupercali per tutta la repubblica e per tutto l'impero sino alla fine del sec. V. d. C. Da fodere (scavare) o fobea (fossa) e da faba (fava) gli antichi fanno derivare il nome Fabio. Fin dai primissimi tempi della repubblica i Fabii sono a capo dello stato e sono sempre stati i più celebrati fra le nobili genti romane per il gran numero di magistrature da loro ricoperte e ancor più per le loro grandi imprese di guerra e di pace. Ovidio (Fast., I, 606) riferisce che la gente Fabia si chiamò Massima per i suoi meriti. Nelle guerre contro gli Etruschi molto spesso un Fabio appare come duce dei Romani e per sette anni di seguito, dal 485 al 470, è registrato nei fasti un console Fabio. Poi per undici anni, dal 478, il nome dei Fabii scompare dai fasti e nel 477 gli annalisti pongono la battaglia del Cremera dove si dice avvenisse la strage dei 300 Fabii. In pieni tempi storici il cammino glorioso di questa gente s'inizia con Q. Fabio Rulliano, l'eroe delle guerre sannitiche, chiamato Massimo ed eletto console per quattro volte (322-310-308-297). Era suo padre M. Fabio Ambusto console nel 360, 356, 354. A questo ramo appartiene Q. Fabio Massimo Verrucoso, il Temporeggiatore, console per quattro volte, censore nel 230, dittatore nel 217, il famoso avversario di Annibale. Non molto tempo dopo la guerra d'Annibale il tronco principale della gente Fabia minacciò d'estinguersi, e perciò Q. Fabio Massimo, pretore nel 180, adottò un figlio di L. Emilio Paolo che prese il nome di Q. Fabio Massimo Emiliano, e un figlio di Cn. Servilio Cepione, che si chiamò Q. Fabio Massimo Serviliano e fu console nel 142, censore nel 120. Questi due membri delle nobili stirpi degli Emili e dei Servili continuarono la discendenza della gente Fabia. Il ramo di Q. Fabio Massimo Serviliano si estinse presto, quello di Q. Fabio Massimo Emiliano è rappresentato ancora nell'impero da tre consoli: Paolo Fabio Massimo console nell'11 a.C., Africano Fabio Massimo console nel 10 a. C. e Paolo Fabio Persico console nel 34 d. C. Paolo Fabio Massimo fu particolarmente noto per la sua signorilità e per la sua cultura. Orazio gli dedicò un'ode (Carm., IV,1) e Augusto gli fu amico. Egli divenne anche parente dell'imperatore, sposando Marcia, figlia di L. Marcio Filippo console nel 35 a. C. e di Azia, sorella di Azia madre di Augusto. Poco dopo la gente dei Fabii si estinse.

I trecento Fabii.

Trecento, o trecentosei uomini componenti la gente Fabia, furono, secondo la leggenda, sterminati dagli Etruschi alla battaglia del Cremera nel 477 a. C. Dalla strage scampò soltanto un fanciullo che per l'età era rimasto a Roma, Q. Fabio Vibulano. Intorno a tutta la tradizione gli storici moderni pongono dubbi. La somiglianza del racconto pervenutoci della strage dei Fabii con quello del combattimento di Leonida e dei suoi 300 alle Termopili è evidente, ma ciò non significa che la battaglia del Cremera non sia avvenuta. Alcuni vogliono vedere nella leggenda dei Fabii una favola giuridico-morale che mostra i pericoli della guerra privata, dando soprattutto un esempio della congiura (coniuratio). Ma anche questa è una semplice congettura, perché tra la guerra privata e la coniuratio c'è molta differenza, essendo la coniuratio fatta per conto dello stato; non ha quindi nessuna relazione con la leggenda dei Fabii. È dunque da credere che l'epopea popolare abbia tramandato il ricordo d'una sconfitta realmente riportata dai Romani e che i Romani si siano realmente stabiliti presso il Cremera per impedire ai Fidenati di unirsi con i Veienti e che questi abbiano sventato il piano dei Romani. Non è certo facile spiegare perché i Fabii siano stati i promotori e gli esecutori dell'impresa, ma non è impossibile ammettere che la gente Fabia abbia tentato anche d'estendere i propri possessi che probabilmente si trovavano in quelle vicinanze. In quanto poi alla notizia che uno solo fu il superstite, il quale soltanto dieci anni dopo ricopriva la prima magistratura dello stato, si può ritenere che in questo modo si sia voluta spiegare un'interruzione, constatabile nei Fasti, della partecipazione dei Fabii alle alte magistrature. Ma certo il superstite non fu unico, poiché non si può credere che i Fabii consoli negli anni dopo discendano tutti da questo Fabio, il quale, secondo una notizia, sposò una figlia del ricco (Otacilio Maleventano, e il figlio che doveva continuare la stirpe gloriosa ebbe il prenome di Numerio.

La genesi

I Latini erano tormentati dalle incursioni degli Equi. Cesone si recò allora con un esercito nel territorio degli Equi per compiervi delle razzie. Gli Equi si arroccarono nella loro città, al riparo delle fortificazioni, e fu per questo che non ci fu nessuno scontro particolarmente memorabile. Coi Veienti, invece, si registrò una disfatta solo a causa della temerarietà dell'altro console: l'esercito sarebbe stato distrutto, se Cesone Fabio non fosse arrivato per tempo in aiuto. Dopo questo episodio, i rapporti coi Veienti non furono né pacifici né bellicosi, ma si limitarono a una sorta di reciproca scorrettezza. Di fronte alle legioni romane, si arroccavano nelle loro città; quando vedevano che le legioni si erano ritirate, allora uscivano e facevano delle scorrerie nelle campagne, eludendo alternativamente la guerra con una sorta di pace e la pace con la guerra. In modo tale che la cosa non poteva né essere abbandonata né esser portata a compimento. Quanto ai rapporti con gli altri popoli, si era di fronte o a guerre imminenti (per esempio con Equi e Volsci, la cui inattività non poteva durare più del tempo necessario per digerire il dolore, ancora bruciante, per l'ultima disfatta) o a guerre destinate a scoppiare di lì a poco (con i Sabini sempre ostili e con l'intera Etruria). Ma i Veienti, tipo di nemici più ostinati che insidiosi e portati maggiormente a provocare che a creare pericoli, faceva tenere il fiato in sospeso perché non lo si poteva mai perdere di vista e impediva di rivolgere altrove l'attenzione. Allora la gente Fabia si presentò di fronte al senato e il console parlò a nome della propria famiglia: Nella guerra contro Veio, come voi sapete, o padri coscritti, la costanza dello sforzo militare conta più della quantità di uomini impiegati. Voi occupatevi delle altre guerre e lasciate che i Fabi se la vedano coi Veienti. Per quel che ci concerne, vi garantiamo di tutelare l'onore del popolo romano: nostra ferma intenzione trattare questa guerra alla stregua di una questione di famiglia e di accollarcene tutte le spese: lo Stato non deve preoccuparsi né dei soldati né del denaro. Seguì un coro unanime di ringraziamenti. Il console uscì dalla curia e se ne tornò a casa scortato da un nutrito drappello di Fabi, i quali avevano aspettato il verdetto del senato nel vestibolo della curia. Quindi, ricevuto l'ordine di trovarsi il giorno dopo, armati di tutto punto, di fronte alla porta del console, rientrarono tutti nelle proprie case.

La notizia fece il giro della città e i Fabi vennero portati alle stelle: una famiglia si era assunta da sola l'onere di sostenere lo Stato e la guerra contro i Veienti si era trasformata in una faccenda privata e combattuta con armi private. Se in città ci fossero state altre due famiglie così forti, una si sarebbe occupata dei Volsci e l'altra degli Equi e il popolo romano si sarebbe goduto beatamente la pace una volta sottomessi tutti i vicini. Il giorno successivo i Fabi si presentano all'appuntamento armati di tutto punto. Il console, uscito nel vestibolo in uniforme da guerra, vede schierati tutti i membri della sua famiglia e, postovisi a capo, dà ordine di mettersi in marcia. Per le vie di Roma non sfilò mai in passato nessun altro esercito meno numeroso ma nel contempo così acclamato e ammirato dalla gente. Trecentosei soldati, tutti patrizi, tutti della stessa famiglia, ciascuno dei quali più che degno di esserne al comando, e capaci insieme di formare, in qualsiasi momento, un'eccellente assemblea, avanzarono a passo di marcia minacciando l'esistenza del popolo di Veio con le forze di una sola famiglia. Li seguiva una folla in parte costituita da parenti e amici - gente straordinaria che volgeva l'animo non alla speranza o alla preoccupazione, ma solo a sentimenti sublimi - e in parte da gente qualunque spinta dall'ansia di partecipare e piena di entusiasmo e ammirazione. Tutti auguravano loro di essere sostenuti dal coraggio e dalla fortuna e di riportare un successo degno dell'impresa. E una volta di nuovo in patria, avrebbero potuto contare su consolati e trionfi, e su ogni forma di premio e riconoscimento. Quando passarono davanti al Campidoglio, alla cittadella e agli altri templi, supplicarono tutte le divinità che sfilavano davanti ai loro occhi, e quelle che venivano loro in mente, di accordare a quella schiera favore e fortuna e di restituirla intatta e in breve tempo alla patria e ai parenti. Ma vane furono le preghiere. Partiti lungo la via Infelice e passati dall'arcata destra della porta Carmentale, arrivarono alla riva del torrente Cremera, posizione che sembrò indicata per la costruzione di un campo fortificato. Dopo questi episodi furono eletti consoli Lucio Emilio e Caio Servilio. Finché si trattò soltanto di razzie, i Fabi non solo garantirono una sicura protezione al loro campo fortificato, ma in tutta l'area di confine tra la campagna romana e quella etrusca resero sicura la propria zona e, con continui sconfinamenti, crearono un clima di pericolo costante nel territorio nemico. Quindi le razzie cessarono per un breve tempo, finché i Veienti, reclutato un esercito in Etruria, attaccarono il presidio di Cremera e le legioni romane agli ordini del console Lucio Emilio li affrontarono in uno scontro all'arma bianca. A dir la verità, i Veienti ebbero così poco tempo per schierarsi in ordine di battaglia che, quando nel disordine delle manovre iniziali era in corso l'allineamento dietro le insegne e la collocazione dei riservisti al loro posto, la cavalleria romana li caricò all'improvviso sul fianco, togliendo loro la possibilità non solo di attaccare per primi, ma anche di mantenere la posizione. Respinti in fuga fino al loro accampamento a Saxa Rubra, implorarono la pace. Ma per la debolezza tipica del loro carattere, si pentirono di averla ottenuta prima che la guarnigione romana avesse evacuato il campo di Cremera.

Il popolo di Veio si trovò di nuovo nella necessità di vedersela coi Fabi, senza però essere meglio preparato alla guerra. E non si trattava più soltanto di razzie nelle campagne e di repentine rappresaglie contro i razziatori, ma si combatté non poche volte in campo aperto e a ranghi serrati, e una famiglia romana, pur misurandosi da sola, ebbe più volte la meglio su quella città etrusca allora potentissima. Sulle prime ai Veienti ciò parve umiliante e penoso. Poi però, studiando la situazione, decisero di giocare d'astuzia contro quel nemico irriducibile, anche perché vedevano con piacere che i reiterati successi avevano raddoppiato l'audacia dei Fabi.

La battaglia

Così, parecchie volte, quando questi ultimi si avventuravano in razzie, facevano trovare loro, come per pura coincidenza, del bestiame sulla strada; vaste estensioni di terra venivano abbandonate dai proprietari e i distaccamenti inviati ad arginare le razzie fuggivano con un terrore più spesso simulato che reale. E ormai i Fabi si erano fatti un'idea tale del nemico da non ritenerlo in grado di sostenere le loro armi vittoriose, qualunque fossero stati l'occasione e il luogo dello scontro. Quest'illusione li portò ad uscire allo scoperto, nonostante la presenza in zona del nemico, per catturare una mandria avvistata a notevole distanza dal campo di Cremera. Dopo aver superato, senza però rendersene conto vista la velocità con cui procedevano, un'imboscata proprio sulla loro strada, si dispersero nel tentativo di catturare il bestiame che, come sempre succede quando reagisce spaventato, correva all'impazzata in tutte le direzioni. Proprio in quel momento, si trovarono all'improvviso di fronte i nemici saltati fuori dovunque dai loro nascondigli. Prima fu il terrore per l'urlo di guerra levatosi intorno a loro, poi cominciarono a volare proiettili da ogni parte. E mentre gli Etruschi con una manovra centripeta li chiusero in una fila ininterrotta di uomini, in modo che a ogni loro passo avanti corrispondeva una riduzione dello spazio concentrico in cui i Romani si potevano muovere, questa mossa ne mise in chiara luce l'inconsistenza numerica esaltando invece la massa compatta degli Etruschi che sembravano il doppio in quella stretta fascia di terra. Allora, rinunciando alla resistenza che avevano sostenuto in tutti i settori, si concentrarono in un unico punto dove, grazie alla forza d'urto e alla loro perizia militare, riuscirono a fare breccia con una formazione a cuneo. In quella direzione arrivarono a un'altura appena accennata, dove in un primo tempo riuscirono a resistere. Poi, dato che la posizione sopraelevata permise loro di tirare il fiato e di riprendersi dal grande spavento, respinsero anche i nemici che pressavano da sotto. Quel pugno di uomini stava avendo la meglio grazie alla posizione vantaggiosa, quando i Veienti spediti ad aggirare l'altura emersero da dietro sulla cima e permisero ai compagni di riprendere in mano la situazione. I Fabi vennero massacrati dal primo all'ultimo e il loro campo venne espugnato.

Le conseguenze

Nessun dubbio: morirono in trecentosei; se ne salvò soltanto uno, poco più di un ragazzo, destinato a mantenere in vita la stirpe dei Fabi e a diventare per Roma, nei momenti più cupi in pace e in guerra, un sostegno fondamentale. Al momento di questo disastro, Gaio Orazio e Tito Menenio erano già consoli. Menenio fu subito inviato a fronteggiare gli Etruschi esaltati dalla vittoria.