Battaglie In Sintesi
427 a.C.
Capitano spartano del sec. V a.C. È ricordato da Tucidide (II, 25, 2) per un'ardita operazione militare in difesa di Metone (costa messenica) minacciata dalla squadra ateniese, nel 431. Fu eforo l'anno successivo (Senofonte, Hellen., II, 3, 10). Nominato commissario a fianco del navarco Cnemo, ebbe non poca efficacia sul corso delle operazioni navali del 429. Così di nuovo nel 427 a lato di Alcida contro Corcira. Partecipò nel 425 come trierarca (comandante di vascello) all'assalto contro Pilo, dove fu ferito. Ma l'impresa per la quale il suo nome è passato alla storia, è la spedizione in Calcidica e in Tracia. Mentre la preparava, nell'estate 424, apprese che Megara correva pericolo di cadere in mani ateniesi, e corse con una marcia vittoriosa a salvarla. Questa marcia fu, per così dire, il punto cruciale della guerra decennale (431-421) fra Atene e Sparta. Dopo di allora comincia il declino di Atene. Poco dopo Brasida partì verso la Tracia, con circa 1000 mercenari e con 700 iloti; facevano le spese il re di Macedonia e i comuni calcidici ribelli ad Atene. Lo scopo era di colpire Atene nel solo punto territoriale dove ciò fosse strategicamente possibile. Brasida ebbe il merito singolare di unire ai mezzi militari (che aveva scarsi) i mezzi politici, seguendo, cioè, un indirizzo liberale verso i sudditi di Atene della regione tracia. A tutti promise (e mantenne le promesse) autonomia ed esenzione tributaria, in cambio dell'alleanza con Sparta. Riuscitogli felicemente di attraversare la Tessaglia, neutrale, ottenne subito la resa di Acanto, poi di Stagira e infine della importantissima città di Anfipoli, che era il nodo stradale delle comunicazioni verso nord (lungo la Struma, allora Strimone) e verso est (lungo la costa tracia). Gli fallì l'occupazione del porto d'Anfipoli, Eione, che gli ammiragli ateniesi occuparono in tempo. Assoggettò invece gran parte della Calcidica, impadronendosi di Torone, di Scione e di Mende, e ricevendo onoranze trionfali come liberatore. La tregua stipulata per un anno nella primavera 423 fra Atene e Sparta restò inefficace nella zona di Brasida, dove andò a contrastarlo lo sperimentato generale ateniese Nicia. Ma la campagna si ridusse a una non felice incursione di Brasida nella Lincestide, tentata con la fallita speranza di ricevere per compenso dei rinforzi dal re di Macedonia, e durante la quale Nicia riconquistava Mende e intraprendeva l'assedio di Scione.
Nell'agosto del 422 andò in Tracia contro Brasida il demagogo ateniese Cleone con l'ufficio di stratego. Comandava 1200 opliti, 300 cavalieri, un corpo anche più numeroso di alleati, e 30 navi. Si diresse sopra Anfipoli, facendo vela al porto di Eione. Ritenne dapprima di dover attendere dei rinforzi. Poi, sotto lo stimolo delle truppe che poco confidavano nei suoi talenti militari, s'indusse a una ricognizione verso nord. Brasida deliberò allora di tagliargli la ritirata e di sorprenderlo durante la marcia da nord verso sud a oriente di Anfipoli. La sorpresa era facilitata dal fatto che, marciando in quella direzione, le truppe ateniesi esponevano al nemico il fianco destro, scoperto dello scudo, e dovevano perciò compiere una difficile manovra. Cleone non ebbe la pazienza di lasciar svolgere la manovra con la dovuta prudente lentezza. Mutò l'ordine durante la marcia, cosicché i suoi non resistettero all'urto e si volsero in fuga, perdendo 600 uomini. In quello scontro vittorioso Brasida cadde ferito: ma prima di spirare ebbe la notizia della vittoria. Cleone fu ucciso durante la fuga.
Le quaranta navi de' Peloponnesi andate in soccorso de Lesbii, mentre che perseguitate dalle Ateniesi fuggivano per alto mare, erano state sbalzate dalla tempesta vicino a Creta: donde giunte sparpagliate a dar fondo nelle coste del Peloponneso, incontrano a Cillene tredici navi de Leucadii e degli Ambracioti, con Brasida figliolo di Tellide, sopravvenuto a consigliere di Alcida. Imperocché gli Spartani, dopo fallita l'impresa di Lesbo, ebbero aumentata la loro flotta, con l'intenzione di navigare a Corfù agitata da sedizioni (sendochè gli Ateniesi erano con sole dodici navi intorno a Naupatto), per arrivarvi innanzi che flotta maggiore sopraggiungesse da Atene. Però Brasida ed Alcida apparecchiavansi per questa spedizione. Trovaronsi i Corfuotti travagliati dalle sedizioni, dappoiché erano tornati loro i prigioni delle battaglie navali combattute presso Epidamno, rilasciati dai Corintii, in apparenza, per la taglia di ottocento talenti a cui eransi obbligati i loro corrispondenti, ma effettivamente, perché avevan promesso di ridurre Corfù a devozione de Corintii. Costoro con segreti maneggi introducendosi presso ciascun cittadino adopravansi a ribellare la città dagli Ateniesi. Arrivano intanto una nave attica ed una corintia con ambasciatori, e tenutasi adunanza decretarono i Corfuotti di essere certamente confederati degli Ateniesi, a forma dei capitoli, ma amici come prima de' Peloponneso Pitia, volontario ospite degli Ateniesi e capo dei popolani, fu citato in giudizio da quei fautori dei Corintii, accusandolo che volesse soggettare Corfù agli Ateniesi. Ma egli uscitone assoluto, fece di rimando citare in giudizio cinque di loro, i più facoltosi, dichiarando che e' tagliavano pali dà sacri recinti di Giove e di Aleino. Era per ogni palo imposta la multa di uno statere. Costoro adunque essendo stati condannati, se ne stavano, a cagione della gravezza della multa, assisi in atto di supplichevoli presso i templi, per ottenere di pagare a rate la tassa. Ma Pitia, che per avventura era uno de'senatori, persuade questi a valersi della legge. Perloché trovandosi i rei esclusi legalmente dal senato, ed insieme ragguagliati che Pitia, fino a che durasse ad essere senatore, vorrebbe indurre la plebe a tenere alleanza offensiva e difensiva con gli Ateniesi, si ristrinsero insieme, e con de' pugnaletti, ed entrati improvvisamente in senato, uccidono Pitia con altri senatori, e privati, sino a sessanta. Alcuni pochi dell'opinione medesima di Pitia si rifugiarono sulla trireme attica che ancora non era partita.
Dopo questo misfatto convocarono i Corfuotti e dissero ciò essere il miglior partito e il più valevole a salvarli dal servaggio di Atene; doversi, per l'avvenire, calmate le sedizioni, non raccettare ne' Ateniesi ne' Corintii, salvo che con una sola nave; ed averne per nemico un maggior numero. Ciò detto li astrinsero anche a ratificare la proposizione. Spediscono poi subito ad Atene dei legati per dar ragguaglio che le cose fatte erano secondo che richiedeva il loro vantaggio; è per indurre quei che là si erano rifugiati, a non darsi briga inopportunamente a fine di evitare così ogni turbamento. Ma giuntivi appena gli Ateniesi arrestarono i legati come innovatori e quanti aveano aderito a quelli, e li depositarono in Egina. In questo, arrivata a Corfù una trireme corintia con gli ambasciatori lacedemoni, coloro che erano in Corfù restati al maneggio degli affari assalgono la fazione popolare, e rimasero superiori nel conflitto. Sopravvenendo la notte il popolo si ricovra nella rocca e nelle alture della città, ed ivi riunito, si fortificò, tenendosi per lui il porto Illaico. L'altra fazione occupò la piazza, ove molti di loro abitavano, e il porto a lei vicino che guarda verso terraferma. Il giorno appresso furonvi leggere avvisaglie, ed ambe le parti erano in sullo spedire alla campagna ad invitare i servi promettendo libertà. Venne in soccorso ai popolani una moltitudine di servi; agli altri, ottocento ausiliari di terraferma. Trascorso un giorno si rinfresca la battaglia colla vittoria del popolo, superiore per fortezza de' siti e per numero. Le donne stesse arditamente vi porsero mano scagliando tegole dalle case, e sostenendo il tumulto oltre loro natura. Sul crepuscolo della sera, gli oligarchici dieder volta, e perché temevano non il popolo, nel caldo della vittoria scagliatosi contro l'arsenale, se ne facesse padrone e li trucidasse; per torgli ogni via di assalto metton fuoco alle case che erano in' giro sulla piazza e alle contigue, senza perdonarla ne' alle proprie ne' alle altrui; di modo che molte robe de mercanti andaron bruciate: e corse pericolo di restar totalmente distrutta la città intera, se all'incendio si fosse aggiunto vento che spirasse verso di lei. Posto fine al combattimento, volendo gli uni e gli altri ristare, tennero le scolte per tutta la notte. La nave corintia, essendo la vittoria stata del popolo, furtivamente fece vela, e la maggior parte degli ausiliari di soppiatto tragittò in terraferma.
Ma nel giorno sopravveniente, Nicostrato, figliolo di Diotrefe capitano degli Ateniesi, da Naupatto giunge in soccorso con dodici navi e cinquecento Messeni con grave armatura. Propose egli pratiche di accordo; e induce le due parti a doversi contentare che fossero processati soli dieci fra i più colpevoli (i quali non patirono di rimanere), e di lasciare il resto a casa sua; sivveramente che si accordassero tra loro e con gli Ateniesi di aver comuni gli amici ed i nemici. Ciò fatto era Nicostrato in sul salpare, quando i capitani del popolo lo persuadono a lasciar loro cinque navi, affinché quei della parte contraria non si trovassero in istato di far movimenti; ed essi ne spedirebbero con lui altrettante delle loro bene armate. Nicostrato vi acconsentì, ed essi destinavano per queste navi quei della parte contraria; i quali, temendo di dover esser mandati in Atene, si assediano nel tempio dei Dioscuri: Nicostrato si ingegnava di farli uscirete e li confortava; ma non fu obbedito: di che il popolo colta questa occasione, come se con quella lor diffidenza di unirsi alla flotta di Nicostrato covassero qualche sinistra intenzione, prese le armi e tolse via dalle case quelle degli avversari; e ne avrebbe trucidati alcuni in cui s'imbatté, se Nicostrato non lo avesse impedito. Vedendo gli altri come la cosa andava, si assediano supplicanti nel tempio di Giunone, in numero di ben quattrocento. Per lo che il popolo, intimorito che ei non volessero tentare qualche novità, con buoni modi gl'indusse ad alzarsi, e li trasporta nell'isola di faccia al tempio stesso di Giunone, ove era mandato loro il bisognevole alla vita. In questo scompiglio di cose, quattro o cinque giorni dopo il trasporto di coloro nell'isola, arrivano da Cillene (ove dopo il ritorno dall'Ionia erano di stazione) le cinquantatre navi de' Peloponnesi, capitanate come prima da Alcida, con cui navigava Brasida destinatogli a consigliere. Diedero queste fondo a Sibota, porto di terraferma, e sul far dell'aurora fecero vela contro Corfù.
I Corfuotti, benché in grande agitazione, e intimoriti delle cose di città, e dell'avanzarsi della flotta nemica, pure ad un'ora stessa preparavano sessanta navi, e a mano a mano spedivano quelle armate contro ai nemici, quantunque gli Ateniesi li confortassero che dovessero lasciar loro mettersi in mare i primi, e poi sopravvenire essi alla coda con tutte insieme le navi. Le quali non furono si tosto giunte sparpagliate in faccia al nemico, che due immediatamente passarono dalla parte di lui, e le ciurme che erano in su l'altre, contendevano fra loro in modo, che tutto faccasi alla rinfusa. Onde accortisi, i Peloponnesi, di cotal confusione, si misero in ordinanza con venti navi contro ai Corfuotti, e colle rimanenti contro le dodici navi degli Ateniesi, due delle quali erano la Salaminia e la Paralo. I Corfuotti, che caricavano il nemico colle navi disordinate e spartite, erano dar lato loro in gran travaglio. Gli Ateniesi, temendo dalla moltitudine nemica e d'esser colpiti in mezzo, non investivano colla flotta serrata insieme la squadra che avevan di fronte, e si riguardavano da urtarla nel centro; ma corsile addosso di fianco, affondano una nave: indi presa ordinanza circolare, giravano attorno al nemico per provare di scompigliarlo. Di che accortisi quei che erano di contro ai Corfuotti; e temendo non accadesse ciò che era accaduto a Naupatto, accorrono in soccorso; e così riunite le navi si scagliano tutti insieme sugli Ateniesi. Questi cominciavano a retrocedere, senza voltar faccia, remigando di sulla poppa; e ritirandosi il più lentamente possibile intendevano di operar si' che le navi dei Corfuotti fossero in tempo a sottrarsi, intanto che essi sostenevano il nemico schierato contro di loro. Per questo modo fu combattuta questa battaglia navale, che finì sul tramonto del sole.
Temettero, i Corfuotti, che i nemici, seguendo l'impeto della vittoria, non spingesser la flotta contro la città, per ripigliar quei ch'erano stati messi nell'isola, o fare qualche altra innovazione. Ecco perchè tragittarono nuovamente nel tempio di Giunone quelli dell'isola, e tenevano guardata la città. Ma i Peloponnesi, con tutto che vincitori, non furono osi di navigare contro la città; e colle tredici navi prese ai Corfuotti tornarono al luogo di terraferma donde avevano fatto vela. Il dì seguente, quantunque la città di Corfù fosse in gran confusione e timore, non punto meglio però navigarono alla volta di essa, comecché Alcida ne fosse consigliato, siccome narrasi, da Brasida, che non aveva autorità eguale a lui; anzi fecero scala al promontorio di Leucimna, devastandone le terre. In questo stato di cose i popolani di Corfù, entrati in gran paura del ritorno delle navi nemiche, conferirono co' supplichevoli ch'erano nel tempio dì Giunone, e con gli altri oligarchici, del modo onde potrebbe salvarsi la città. Persuasero alcuni di quelli a montar le navi, attesoché nonostante le turbolenze ne avevano armate trenta, aspettandosi che ricomparirebbe l'armata nemica. Ma i Peloponnesi, dopo aver guastato la campagna fino a mezzogiorno, se n'eran partiti; e sul far della notte compresero per i segnali di fuoco che sessanta navi degli Ateniesi si avanzavano da Leucade contro di loro, le quali con l'ammiraglio Eurimedonte di Teucle erano state spedite da Atene, quando s'intese che Corfù era in tumulto, e che vi doveva andate la flotta di Alcida.
Adunque i Peloponnesi, appena fece notte, si affrettavano di tornare a casa radendo la costa; e trasportate le navi sopra l'istmo di Leucade, per non essere osservati nel farne il giro, si riconducono in patria. I Corfuotti, udito che le navi attiche si avvicinavano, e che quelle de' nemici se n'erano andate, accolsero ed introdussero in città i Messenii prima restati di fuori. Ordinarono alle navi che avevano armate di volteggiare dinanzi al porto Illaico; ed intanto che queste giravan intorno, essi uccidevano qualunque della parte contraria capitasse loro nelle mani; e cavando per forza dalle navi coloro che avevano indotti a montarle, li trucidavano. Entrarono medesimamente nel tempio di Giunone, e persuasero da cinquanta di quelli che vi erano rifuggiti a sottomettersi a giuridico processo, e li condannarono tutti a morte. La maggior parte, però, di quei supplichevoli che non si erano lasciati svolgere, vedendo come le cose procedevano, si uccidevano l'un l'altro ivi nel tempio stesso; alcuni appiccarono se medesimi agli alberi, altri poi si toglievano la vita in quel modo che ciascuno poteva. E nei sette giorni che Eurimedonte dopo il suo arrivo vi si fermò con sessanta navi, i Corfuotti uccidevano quei ch'ei credevano di parte contraria, dando loro la colpa tutti i sovvertitori dello stato popolare. Alcuni poi furono uccisi per private nimicizie, altri dai debitori che avevan preso denaro in prestanza. Fuvvi insomma ogni genere di morte; nessuna reità fu pretermessa come in simili perturbazioni suole accadere, ed anche delle più inusitate. Imperciocché il padre uccideva il figliolo, e la gente divelta dai templi era li' dappresso ammazzata; ed alcuni furono persino murati dentro al tempio di Bacco, e così morti. Cotanto progredì quella sedizione crudele, che tale parve anche più, perché nel corso di queste cose ella era stata la prima.
Tratto da:
"Della storia di Tucidide volgarizzata libri otto", F.P. Boni - Francesco Predari, Tipografia Galileiana, Firenze 1835.