Battaglie In Sintesi
16 agosto 1855
Entrato nell'esercito nel 1807, Michail Dmitrievic Gorcakov ebbe la sua prima esperienza bellica nel 1810 in occasione della guerra russo-persiana (1804-1813). Successivamente combatté contro Napoleone Bonaparte nelle guerre fra il 1812 e il 1814. Prese anche parte alla guerra russo-turca (1828-1829), durante la quale combatté negli assedi di Silistra e Sumen. Fu nominato generale nel 1830 e inviato in Polonia per sopprimere la rivolta di Novembre durante la quale fu ferito nella battaglia di Grochove, nel febbraio 1831. In seguito si distinse nella presa di Varsavia del 1846, durante la Rivolta di Gennaio. Nel 1848, quando la Russia intervenne nell'Impero austriaco per sopprimere la rivoluzione ungherese, divenne capo di stato maggiore. Durante la crisi internazionale che precedette la guerra di Crimea, dopo la missione del principe Mensikov a Costantinopoli del febbraio-maggio 1853 e la decisione della Russia di attaccare l'Impero ottomano, a Gorcakov fu affidato il comando delle forze che occuparono i principati danubiani nel luglio dello stesso anno. Nell'aprile 1854 diresse l'assedio Silistra, sul Danubio, ma nel mese di giugno, a seguito anche delle pressioni dell'Austria allo zar Nicola I, gli fu ordinato di ritirarsi. I turchi di Omar Pascià attraversarono il Danubio e Gorcakov ripiegò su Bucarest. Ciò portò all'abbandono da parte della Russia dei principati danubiani. Nel febbraio 1855 Gorcakov fu trasferito in Crimea come comandante in capo. Durante l'assedio di Sebastopoli, che durava dall'ottobre 1854, il 16 agosto 1855 subì una pesante sconfitta nella battaglia della Cernaia. Perso anche il bastione principale della difesa della città per mano dei francesi (battaglia di Malachov) sentì di non poter più reggere l'assedio. Ordinò quindi la distruzione degli arsenali e l'affondamento della flotta russa nel porto prima di lasciare Sebastopoli con le forze rimanenti. Dopo la fine della guerra di Crimea fu nominato governatore generale della Polonia, dove inaugurò una politica di riforme.
Diplomatosi all'Accademia militare di Torino, completò la sua formazione compiendo numerosi viaggi all'estero. In Prussia studiò l'organizzazione dell'artiglieria leggera e al suo ritorno ebbe da Carlo Alberto, appena salito al trono, l'incarico di riorganizzare l'artiglieria piemontese. Sempre a scopo di studio si recò poi in Ungheria, in Francia, in Spagna, in Egitto e in Algeria. Nel 1848 partecipò alla guerra d'indipendenza distinguendosi nell'assedio di Peschiera. Fu ministro della Guerra nei due brevissimi governi Pinelli e Gioberti, fino al febbraio 1849, allorché fu inviato con una divisione al confine della Toscana. Dopo Novara, La Marmora fu nominato commissario straordinario a Genova con l'incarico di reprimere la rivolta antisabauda scoppiata alla fine di marzo. Nel novembre 1849, durante il primo gabinetto d'Azeglio, fu chiamato di nuovo a reggere il ministero della Guerra, che tenne per circa dieci anni. In questo periodo riorganizzò l'esercito puntando a renderlo più snello ed efficiente: riordinò le ferme, introdusse il reclutamento nazionale, rese più moderne le fortificazioni, riformò il codice militare e strutturò le armate su cinque divisioni (senza più corpi d'armata). Nel 1855 ebbe il comando in capo della spedizione di Crimea e, al ritorno, riprese il portafoglio della Guerra, col grado di generale d'armata. Durante la campagna del 1859 fece parte del quartier generale del re. Dopo l'armistizio di Villafranca, tenne per sei mesi la presidenza del Consiglio, succedendo a Cavour dimissionario; quindi, nel 1860, passò a comandare il dipartimento di Milano e l'anno seguente quello di Napoli, con poteri civili e militari. Ritornato alla presidenza del Consiglio nel settembre 1864, pur essendo personalmente contrario alla Convenzione di settembre, la difese alla Camera e al Senato, in quanto era già stata sottoscritta dal re. Nel 1865, sotto il suo governo, furono varate le leggi di unificazione amministrativa e legislativa. Nello stesso anno La Marmora avviò con la Prussia i negoziati che dovevano condurre, nel 1866, all'alleanza e alla guerra contro l'Austria. Quando il conflitto fu imminente, cedette le redini del governo a Ricasoli, per assumere il comando effettivo dell'esercito in campo quale capo di stato maggiore. I contrasti con Cialdini, cui era affidato il comando di una parte delle truppe, e l'incerta condotta della campagna culminata nella sconfitta di Custoza lo portarono alle dimissioni. Amareggiato dalle aspre polemiche cui fu fatto segno a guerra finita, si ritirò a vita privata. Dopo l'occupazione di Roma nel 1870, tuttavia, fu chiamato ad assumere la carica di luogotenente generale del re, in attesa del trasferimento della capitale.
Uscito dalla scuola di Saint-Cyr fu assegnato, sottotenente di artiglieria, all'armata del Reno. In seguito prese parte alle spedizioni in Spagna, Morea e Algeria. Per merito di guerra fu promosso colonnello e generale di brigata. Dopo la battaglia d'Isly (1844) e la spedizione contro gli Arabi Ouled Riah venne elevato al grado di maresciallo di campo. Nel 1850 ebbe il governo dell'Algeria. Comandante del I corpo d'armata in Crimea, all'assedio di Sebastopoli ricevette il bastone di maresciallo di Francia e il titolo di duca di Malakoff. Rientrato in patria, fu vicepresidente del senato, ambasciatore a Londra nel 1858. Nel 1859, durante la guerra d'Italia, fu comandante dell'esercito del Reno che aveva compito di tenere in rispetto la Prussia irrequieta. In seguito venne creato gran cancelliere della Legion d'onore. Nel 1860 fu governatore generale dell'Algeria.
Per condurre a termine un conflitto che stava diventando lungo e oneroso oltre ogni aspettativa, francesi e inglesi cercarono alleati. Si rivolsero in prima istanza agli austriaci, che però non se la sentirono di prendere le armi contro l'impero russo, partner della Santa alleanza, a fianco del quale avevano combattuto sia contro Napoleone, sia in Ungheria. Alla fine adottarono una sofferta politica di neutralità, che scontentò sia gli occidentali sia i russi. In questo quadro Cavour intravide lo spiraglio per introdurre il Piemonte nello scenario europeo e rinnovare l'immagine trita e banale che gli europei avevano degli staterelli italiani: inefficienti regimi, estranei al concerto delle diplomazie continentali. La guerra, apparentemente inutile, visto che non portò guadagni o annessioni, permise al Regno di Sardegna di sedere al tavolo del Congresso di Parigi, per le trattative di pace, e di porre le basi per le alleanze e gli appoggi che avrebbero condotto alla Seconda guerra d'indipendenza. Fu un tassello fondamentale nel paziente lavoro di tessitura e preparazione che era in corso dal 1 849 e che nella politica italiana rappresentò un caso unico di organizzazione e lungimiranza. Il 10 febbraio 1855 il Parlamento del regno approvava la partecipazione alla guerra. Il giorno seguente moriva Ferdinando di Savoia, duca di Genova e comandante inpectore della spedizione. La responsabilità del comando passò allora ad Alfonso La Marmora, che non possedeva le doti di lungimiranza di Cavour e che quindi non era entusiasta del nuovo incarico: gli dispiaceva interrompere il faticoso lavoro di riforma e ammodernamento dell'esercito, per andare a combattere in lande lontanissime una guerra di cui non comprendeva lo scopo. In poche settimane la spedizione era pronta, contando su 18.000 uomini organizzati in due divisioni, agli ordini di Giovanni Durando e Alessandro La Marmora, sostituito poi da Ardingo Trotti. Le brigate erano comandate da Giorgio Ansaldi (che morì tra i primi), Manfredo Fanti, Enrico Cialdini e Rodolfo di Montevecchio. Per tornare ai ragionamenti fatti nel capitolo precedente, si vede che in qualche misura la riforma aveva già preso piede e nei comandi si trovavano tre dei cosiddetti spagnoli: Durando, Fanti, Cialdini, mentre un quarto, Giacomo Durando, subentrava ad Alfonso La Marmora nelle funzioni di ministro della Guerra. Il 13 aprile il corpo di spedizione lasciava Torino diretto a Genova, per imbarcarsi su vascelli piemontesi, francesi e inglesi. Le complessità delle operazioni d'imbarco e il viaggio richiesero quindici giorni, ma alla fine dei conti il Piemonte poté presentarsi sulla scena internazionale con una dimostrazione di notevole efficienza. Il trasferimento fu lungo ed estenuante per dei poveri soldati che in prevalenza erano montanari e che in vita loro non avevano mai visto acqua salata: soffrivano il mal di mare, le scomodità degli spazi ristretti e della compagnia di muli e cavalli, la scarsità d'acqua e il vitto «inglese», a base di carne secca e rum. Giunte davanti alle coste della Crimea, le navi dovettero attendere non poco, perché l'unico approdo, attraverso cui passava tutto il necessario per l'armata degli alleati, che era cresciuta nel frattempo a 150.000 uomini, non era che la piccola baia di Balaklava. Nelle fotografìe dell'epoca il luogo si vede così fitto di alberi e vele, con le navi talmente vicine, che sembra si potesse saltare dall'una all'altra. La quantità di materiali che doveva essere avviata alle truppe era tale che i francesi avevano costruito persine una piccola ferrovia, per muovere velocemente i rifornimenti: per i tempi un'iniziativa quasi da fantascienza. Il 9 maggio scesero a terra gli ufficiali e solo il 20 si poté completare lo sbarco. Il 25 il contingente era schierato per un'avanzata lungo il fiume Cernaia, a fianco degli alleati: un semplice movimento di truppe sorvegliato da lontano dai cosacchi. Gli italiani poi furono assegnati a lunghi ed estenuanti turni nelle trincee, da cui assistevano al vero sforzo bellico: l'assedio di Sebastopoli. Si combatteva sotto le mura della città a colpi di trincee di avvicinamento e di approccio, cioè scavando passaggi che permettessero di avvicinarsi il più possibile alle mura rimanendo al coperto. Sembrerebbe poca cosa e invece fu una fase estremamente cruenta: francesi e inglesi perdevano 100-150 uomini al giorno, i russi anche di più. Il 17 e il 18 giugno ci fu un grande bombardamento sulla città e poi un assalto generale, da cui i piemontesi furono esclusi: l'onore della battaglia era riservato agli alleati, che si consideravano superiori. Fu una fortuna, perché il tentativo finì in un sanguinoso fallimento.
Il grande evento, per quanto riguarda le truppe sarde, si presentò Ìl 16 agosto, quando i russi cercarono per l'ennesima volta di scardinare le difese nemiche e di allentare la morsa attorno a Sebastopoli. Una parte notevole dell'assalto fu diretta contro la giuntura tra lo schieramento italiano e quello francese. Nonostante la veemenza e il coraggio, i soldati russi, definiti «automi vestiti di grigio», non poterono nulla contro la fucileria e il fuoco d'artiglieria di truppe sistemate al riparo delle trincee. Per gli italiani fu una giornata buona, non certo memorabile. La Marmora, parlandone a un amico, usò questi termini: Ti dico del combattimento o battaglia (come la vorranno chiamare) della Tchernaia. Magnani Ricotti così considerò le notizie giunte in Italia di una grande vittoria:Sono tutte esagerazioni, ma pure invenzioni del giornalista, lo e la mia batteria e tutte le truppe [...] fecero il loro dovere, ma nulla di sorprendente o di straordinario. Ciononostante, la battaglia della Cernaia entrò nella storia tradizionale del Risorgimento come una grande vittoria piemontese. Costò agli italiani 14 morti, 156 feriti (tra i quali il generale Montevecchio, che morì di lì a poco) e due dispersi, mentre i francesi, che avevano resistito all'assalto principale, ebbero 181 morti e 1224 feriti; i russi impiegarono due giorni per portare via i loro caduti. I numeri non vogliono dire tutto, ma qualcosa comunque dicono.
Dopo la Cernaia i generali dello zar non tentarono più attacchi contro le linee nemiche e l'assedio di Sebastopoli potè farsi sempre più stringente. L'assalto finale ebbe luogo 18 settembre e fu ancora una volta cruentissimo: solo a sera i francesi riuscirono a conquistare il loro obiettivo, il bastione Makaloff, ma al prezzo di 1500 morti, 1400 dispersi e quasi 4000 feriti; gli inglesi, invece, fallirono al bastione Gran Redant e denunciarono la perdita di quasi 1500 uomini tra morti e feriti. Questa volta anche gli italiani della divisione di Cialdini avrebbero dovuto partecipare, ma il loro movimento, siccome connesso a quello degli inglesi, fu rinviato al giorno seguente. Tuttavia non ci fu più nessun assalto, perché nella notte i russi sgomberarono la città, lasciandosi dietro alcune migliaia di cadaveri, i feriti intrasportabili e un desolato panorama di distruzione. Lo scontro della Cernaia insieme alla caduta di Sebastopoli segnò sostanzialmente la fine delle operazioni militari, ma non la fine della guerra. Gli eserciti rimasero in Crimea fino alla primavera dell'anno successivo, ma quasi senza combattere, perché non c'erano più obiettivi strategici da raggiungere, mentre la fine delle ostilità veniva decisa ai tavoli della diplomazia. Per gli alleati questo significò il secondo inverno nella penisola russa, per i piemontesi il primo: una stagione di temperature rigidissime trascorsa in capanne di fortuna, dette gourbi (fosse con un tetto di fascine, coperto di zolle di terra e stereo di animali), dovendo improvvisare i rifornimenti di guanti, pellicce, maglie di lana. L'inazione favorì il malcontento e l'indisciplina. Per dirla con le parole di Tarchetti: Ozi tormentosi di quelle lugubri giornate d'inverno, sepolti in quelle profonde capanne scavate nella terra e coperte di uno strato immenso di neve.A fine marzo 1856 giunse la notizia che i rappresentanti dei paesi belligeranti, riuniti a Parigi, avevano raggiunto un accordo e il conflitto poteva considerarsi terminato. In Crimea l'evento venne festeggiato in un modo che oggi lascia un po' sbigottiti, ma che la dice lunga su come venisse vissuta la guerra ancora alla metà dell'Ottocento. Dapprima i cannoni di tutti gli eserciti spararono 101 salve; subito dopo soldati e ufficiali d'entrambi gli schieramenti s'incontrarono amichevolmente. Gli inglesi organizzarono corse di cavalli per gli ufficiali di tutti i paesi, alleati ed ex nemici, di fronte a un pubblico di 3000 spettatori a cavallo e di alcune migliaia appiedati, con un colpo d'occhio indimenticabile per l'incredibile varietà di elmetti, uniformi, pennacchi e ogni altro possibile addobbo militare. Ma l'evento più memorabile fu il banchetto offerto dal comandante russo a tutti gli ufficiali, di tutti gli eserciti. I generali trovarono posto in una tenda decorata con trofei, gli altri in tavolate all'aperto; per tutti ci fu «profusione di vini e squisitezza di cibi». Alla fine i calici si levarono in onore dei vari regnanti. Un ufficiale piemontese, Genova di Revel, annotò che «regnava la massima fratellanza ed allegria durante la riunione».
La guerra di Crimea fu molto sanguinosa per tutti gli eserciti che si trovarono ad attaccare bastioni possenti o sistemi di trincee. Per l'armata piemontese, coinvolta nel solo combattimento della Cernaia, il bilancio sarebbe stato del tutto leggero - 14 morti -, se le generali condizioni di vita, in accampamenti malsani e improvvisati, non fossero state pessime e non si fosse scatenata una spaventosa epidemia di colera. Il morbo si manifestò già all'indomani dello sbarco. La prima persona a morire fu un cappellano militare, 1' 11 maggio. Da quel momento le cifre dei ricoveri e dei decessi salirono in maniera vertiginosa, con una punta massima di 73 morti in un solo giorno, il 7 giugno: tra loro ci fu anche Alessandro La Marmora, il fondatore dei bersaglieri. A fine giugno la situazione era ancora terribile e gli ospedali, diventati tre, ospitavano quasi 2000 uomini. Poi i decessi iniziarono a scemare, ma non per questo le infermerie si vuotarono: in agosto, quando l'epidemia era pressoché finita, c'erano poco meno di 2000 uomini ricoverati con patologie varie; nel gennaio dell'anno seguente erano ancora 1528. Un'annotazione doverosa: gli ospedali non erano certamente paragonabili agli istituti sanitari moderni, ma soltanto luoghi in cui venivano trasportati e concentrati i malati. Chiamano ospedali di 300 letti certi cattivi baraccamenti dove non v'era nulla per i poveri malati; chiamano infermerie di 200 letti le tende nelle quali si ricoverano sulla nuda terra quei poveri sventurati. Genova di Revel racconta di aver visto in una di queste tende ospedale un infermiere che passava con un secchio d'acqua e un pennello a inumidire le labbra dei malati, ammucchiati alla bell'e meglio, per mancanza di spazio. I pochi medici presenti - di tutti i paesi in guerra - non avevano rimedi efficaci per il colera ed erano ridotti a distribuire, come profilassi, caffè ogni mattina e, come cura, un quantitativo di acquavite. In Piemonte si sapeva ben poco di come si vivesse in Crimea e comunque le sofferenze vennero accettate come un fardello connesso alla guerra. In Inghilterra, invece, le descrizioni del «Times» delle condizioni atroci in cui versavano i malati e i feriti fecero scandalo e indussero un'agiata gentildonna a partire per il Mar Nero. Florence Nightingale, la «signora con la lampada», come divenne universalmente nota, intervenne sulle condizioni inumane degli ospedali, cercando d'introdurre una minima professionalità: niente più che igiene e pulizia e un po' d'attenzione alle esigenze dei malati, cose che oggi appaiono ovvie, ma che ai tempi erano ignote a una classe medica dominata dall'ignoranza, dall'approssimazione e dalla superstizione. La Nightingale introdusse anche le statistiche di guarigione come metro per giudicare l'efficacia delle cure e si procurò la consulenza di un cuoco francese, per studiare quali fossero i cibi più adatti ai convalescenti: altri due contributi di modernità di quella strana guerra.
Tratto da: "Storia militare del Risorgimento", Piero Pieri, Torino, Einaudi, 1962