Battaglie In Sintesi
30 giugno del 1422
Nacque a Carmagnola da umile famiglia, probabilmente intorno al 1385. Dei suoi primi anni di vita mancano notizie: sappiamo soltanto che abbandonò la città natale appena fu in grado di arruolarsi nell'esercito di Facino Cane, al cui servizio rimase fino alla morte di questo (16 maggio 1412). Più tardi il Bussone dichiarò che come prima condotta aveva ricevuto il comando di duecento lance: il che può servire a calcolare il grado che il Bussone dovette raggiungere alla morte di Facino. Passò, quindi, al servizio di Filippo Maria Visconti e fu uno dei capitani che conquistarono Milano (16 giugno 1412). Ben presto si guadagnò particolare considerazione presso il nuovo duca: testimone a un atto di governo il 23 giugno 1412, il 19 settembre dello stesso anno era già consiliarius ducalis, un anno più tardi generalis marescalcus, e infine - al più tardi intorno al 1416 - generalis capitaneus al comando supremo delle armate ducali. In una pressocché ininterrotta serie di campagne, dal 1412 al 1422, il Bussone eliminò i signori che dominavano le città lombarde e restaurò l'autorità del Visconti sull'intera regione. Per raggiungere tale scopo il Bussone condusse all'inizio le operazioni militari nella fascia più vicina a Milano, assediando le fortezze che minacciavano direttamente la città, come Monza, che capitolò nelle sue mani nel 1413, Lodi, dove entrò il 20 agosto 1416, e la potente fortezza di Trezzo, che si arrese l'11 gennaio 1417.Quando Alessandria si ribellò nel 1415, il Bussone, grazie alla rapidità della sua azione, la riconquistò in una settimana. Nella primavera del 1417 Filippo Maria Visconti, consolidato il suo potere in Milano e con maggiori mezzi a disposizione, utilizzò il Bussone in una serie di campagne ben più ambiziose, dirette contro i nemici ancora rimastigli nella regione i quali avevano stretto tra loro una lega contro di lui. In questa seconda fase il Bussone combinò operazioni di assedio su larga scala con rapidi movimenti intesi a impedire il congiungimento delle forze nemiche. Filippo Arcelli abbandonò Piacenza, dopo aver subito un lungo assedio, nel giugno del 1418; i Beccaria furono cacciati dai loro feudi nell'Oltrepò; Bergamo fu presa nel luglio del 1419 e Gabrino Fondulo si arrese a Cremona nel gennaio del 1420. Nel frattempo Niccolò III d'Este aveva abbandonato l'alleanza antiviscontea e restituito Parma al duca milanese: il Bussone ebbe perciò la possibilità di concentrare le proprie forze per attaccare nel Bresciano. Il 16 marzo 1421 entrò trionfalmente a Brescia, mentre Pandolfo Malatesta, privato dell'aiuto veneziano dall'abilità diplomatica di Filippo Maria Visconti, si ritirava in Romagna. Il Bussone passò allora con il suo esercito in Liguria e il 2 nov. 1421 raggiunse un accordo con Tommaso Campofregoso per la resa di Genova al Visconti. Nella primavera del 1422 il duca lo inviò a cacciare gli Svizzeri dalle valli alpine che essi avevano occupato: il Bussone conquistò Bellinzona e riprese la Val Levantina. Quando un corpo nemico, forte di 4.000 uomini, si lanciò in un prematuro contrattacco, il Bussone, con forze di gran lunga superiori, li attese attestato su una posizione accuratamente scelta ad Arbedo. La battaglia, combattuta il 30 giugno 1422, fu lunga e aspra; ma la superiorità numerica ebbe la meglio e gli Svizzeri furono ricacciati con gravi perdite.
Arbedo coronò dieci anni di ininterrotti successi in battaglia, e consolidò la fama del Bussone come il più brillante condottiero dell'Italia settentrionale. Ben poco si conosce dei suoi metodi. Nota è la ferrea disciplina che egli imponeva alle sue truppe e che probabilmente favoriva la rapidità di movimento dell'esercito di cui il Bussone si avvalse specialmente nelle campagne del 1417 e del 1418. Rapidità di movimento che può essere stata facilitata dalla preferenza che il Bussone aveva allora per colonne poco numerose di uomini particolarmente addestrati: preferenza che non gli impedì ad Arbedo, quando le circostanze lo richiesero, di operare abilmente con grandi forze dispiegate. Nei racconti relativi agli assedi posti alle città nemiche - soprattutto quelli di Trezzo e di Piacenza - viene messa in risalto la cura con la quale il Bussone preparava il blocco delle città. Nel complesso egli dava prova di grande capacità professionale, di dedizione e di inflessibile crudeltà. Favorite dalle crescenti risorse di Milano e dal complicato e sottile gioco diplomatico condotto dal Visconti, tali sue qualità riuscirono a dargli la superiorità sugli uomini che doveva battere. Non sappiamo se egli collaborasse all'elaborazione della strategia politico-militare per la riconquista della Lombardia. È certo che i contemporanei ritenevano che il duca prestasse ascolto ai suoi consigli e in quegli anni il Bussone appare in veste di testimone o procuratore in numerosi atti di governo. Nel 1414 gli fu conferito il titolo di conte di Castelnuovo (Scrivia), con il diritto di usare lo stemma ducale e il cognome Visconti; il 14 febbraio 1417 sposò Antonia Visconti, lontana parente del duca. Nel 1421, anno in cui il duca gli confermò tutti i feudi che gli aveva concesso, il Bussone possedeva numerose proprietà sparse nel ducato, per una rendita complessiva che il Biglia stimava superiore a 40.000 ducati annui. Aveva ottenuto la cittadinanza milanese e acquistato il Broletto nuovo, dove dette inizio a grandiosi lavori di miglioria.
Vittorioso in guerra, sposato con una nobile, immensamente ricco, onorato perfino dal papa, il Bussone aveva raggiunto nell'Italia settentrionale una posizione troppo forte per la tranquillità di un sovrano dotato di temperamento sospettoso. Il 9 novembre 1422 Filippo Maria lo creò governatore di Genova, probabilmente dietro suggerimento degli stessi Genovesi. Non c'era nel ducato carica più onorifica e il Bussone non dovette aver dubbi sull'accettarla. Il nuovo incarico, d'altra canto, non lo allontanava dalla guerra, poiché il Visconti, pronto ora per un più pesante intervento negli affari italiani, si avvalse proprio del prestigio goduto dal Bussone presso i Genovesi per ottenere da questi ultimi una potente flotta destinata all'azione contro il Regno. Grande dovette essere, quindi, la delusione del Bussone - come grande fu, a detta dello Stella, lo "stupore" dei Genovesi quando il Visconti affidò il comando della flotta non al Bussone, ma a Guido Torello. Per quanto se ne sappia il Bussone, tuttavia, non protestò, e lasciata la carica di governatore partì da Genova il 5 ottobre 1424, sicuro di assumere il comando di una nuova armata destinata alla Puglia. Ma la spedizione venne annullata un mese dopo. È senza dubbio leggenda il racconto del Biglia secondo il quale ad Abbiate il Bussone fu protagonista di una scena tempestosa quando il duca rifiutò di riceverlo; ma è certo, tuttavia, che egli si trovò allora senza una carica, senza un comando, tenuto lontano dal duca da persone della cui gelosa ostilità doveva essere ben conscio, e senza alcuna sicura prospettiva per il futuro. Egli abbandonò allora, in tutta segretezza, il ducato visconteo e, dopo una breve sosta a Carmagnola e ad Ivrea - ove ebbe uno scambio di messaggi con il duca di Savoia - mosse verso oriente prendendo la strada delle montagne e con poche guardie del corpo giunse a Venezia il 23 febbraio 1425, lasciando la famiglia e tutte le proprietà nelle mani del Visconti. La sua reputazione lo sostenne in questo periodo di crisi. Dopo settimane di contrattazioni accettò da Venezia una condotta di 300 lance. Quando fu chiamato dal Senato ad esprimersi circa un'alleanza con Firenze contro Milano, il Bussone si dichiarò favorevole alla guerra contro il Visconti, il quale aveva preso parte ad un complotto per avvelenarlo. L'alleanza fu conclusa e il Bussone venne nominato capitano generale degli eserciti veneziani (9 febbraio 1426). Per qualche tempo egli aveva avuto contatti con alcuni elementi dissidenti di Brescia; questi riuscirono a prendere il controllo della città in nome di Venezia il 16-17 marzo, e il Bussone giunse tre giorni dopo per assumere il comando militare. La campagna del 1426 fu limitata al Bresciano e alla stessa Brescia, dove le guamigioni viscontee resistettero nelle fortezze e nelle cittadelle fino al 20 novembre e dove il Bussone con la sua solita scrupolosità costruì un grosso fossato e un doppio bastione di cinque miglia di lunghezza intorno alla città. Le operazioni belliche furono riprese all'inizio del 1427. Il Bussone sembrava deciso a non correre rischi combattendo contro condottieri della tempra di Francesco Sforza e di Giacomo Piccinino; non scese in campo fino alla metà del mese di maggio, quando, con un esercito forte di 20.000 cavalli e 8.000 fanti, gli era assicurata la superiorità numerica. Il che non gli evitò, tuttavia, di essere colto di sorpresa nei pressi di Gottolengo dal Piccinino che gli inflisse alcune perdite (29 maggio). Comunque, i suoi progressi nel Bresciano e nel Cremonese tra giugno e luglio allarmarono seriamente il Visconti e alimentarono in Venezia la speranza di poter assalire Cremona o di impadronirsi di un caposaldo sull'Adda da cui poter compiere incursioni fino a Milano. Invece, dopo una lunga, ma non risolutiva, battaglia svoltasi nei pressi di Cremona (12 luglio) e un poco chiaro combattimento che il Visconti salutò come una vittoria (30 luglio), il Bussone si ritirò nel Bresciano per difenderlo contro le incursioni del nemico. I due eserciti al completo si scontrarono a Maclodio il 12 ottobre. Il Bussone attirò il nemico in un temerario attacco lungo un angusto terrapieno che attraversava un terreno paludoso ove la sua fanteria attendeva in agguato, mentre la cavalleria, numericamente superiore, avvolgeva l'esercito nemico frontalmente e lo inseguiva dalla retroguardia, per completare la disfatta milanese. La vittoria fece sorgere nuove speranze in Venezia, ma da quel momento il Bussone limitò la sua attività al Bresciano.
Nei negoziati di pace tra le due parti la difesa dei diritti e degli interessi del Bussone fece sorgere serie difficoltà; la pace di Ferrara (19 aprile 1428) gli assicurò alla fine le proprietà e i crediti che aveva in Lombardia, e con un atto del 6 agosto 1428 Filippo Maria lo liberò da tutte le sentenze comminate contro di lui, e lo restaurò nel suo precedente stato e grado. Anche Venezia lo aveva ricompensato. Nel maggio 1426 il Bussone ottenne un titolo nobiliare per sé e per i suoi eredi, e divenne membro del Gran Consiglio; la Repubblica si impegnò a provvederlo "de tali nido de citro vel ultra Abduam in quo honorifice et bene possit stare". Dopo Maclodio ricevette in dono un palazzo sul Canal Grande e la signoria di Castenedolo nel Bresciano. Il Bussone aveva, è vero, conquistato Bergamo e Brescia, ma con un esercito eccezionalmente numeroso non era riuscito ad ottenere risultati decisivi sul campo di battaglia. Ed egli stesso dovette essere consapevole di non aver risposto in pieno alle aspettative, dato che cercò di conferire alla sua vittoria un eccessivo risalto, proponendo l'erezione di un grandioso monumento sul campo di battaglia di Maclodio. A vero che la sua salute non era buona; tra l'altro non si era mai rimesso completamente da una frattura di un braccio procuratagli da una caduta da cavallo nel 1425. È vero anche che la cautela da lui dimostrata nella conduzione delle operazioni militari poteva essere giustificata dal fatto che egli si trovava ad affrontare per la prima volta nella sua carriera alcuni dei maggiori condottieri italiani; ed è vero, infine, che mancano fondati elementi per sospettarlo di aver deliberatamente indugiato nell'incalzare il nemico. Ma la sua posizione politica andava anche al di là del campo strettamente militare: Filippo Maria Visconti aveva cominciato a tempestarlo di messaggi, almeno a partire dal maggio del 1426, per convincerlo ad assumere il ruolo di arbitro tra le parti contendenti, ruolo che male si conciliava con la lealtà che egli doveva a Venezia. All'inizio del 1429, durante un periodo di pace per Venezia, il Bussone manifestò il desiderio di non rinnovare la propria condotta. Ma il governo, temendo che egli volesse cercare servizio altrove, lo riassoldò come capitano generale per altri due anni (15 febbraio 1429) e gli concesse inoltre il feudo di Chiari, con il titolo di conte e una rendita annua valutata a 6.000 ducati. Il Bussone tuttavia aspirava ad ottenere di più: e quando Venezia iniziò i preparativi per riprendere la guerra contro Milano, pretese una parte del bottino. Il Senato si impegnò (1º settembre 1430) a concedergli, in caso si fosse giunti allo smembramento del ducato milanese, una qualsiasi città al di là dell'Adda, con relativo comitato, a sua scelta con la sola esclusione di Milano. La guerra ebbe inizio ai primi del 1431. Venezia ancora una volta sollecitava l'attraversamento dell'Adda, ma il Bussone, lasciatosi attirare a Soncino, fu colto di sorpresa e sconfitto. Allora non si mosse più dal Bresciano, e soltanto alla fine di maggio avanzò verso Cremona. Il 22 giugno la flotta veneziana sotto il comando di Niccolò Trevisan fu attaccata dal nemico fuori Cremona e pressoché distrutta, mentre il Bussone, accampato sulla riva opposta in ingannevole attesa di un attacco da parte dello Sforza e del Piccinino, non si mosse in suo aiuto. Il Trevisan fu ritenuto responsabile del disastro, mentre il Bussone fu assolto da ogni biasimo. Il suo esercito rimase intatto ma inattivo. Solo quando egli dichiarò che avrebbe dovuto portarsi nei quartieri d'inverno fin dalla fine di agosto, per la prima volta il Senato contestò apertamente il suo piano e rifiutò di accettare la sua decisione. Il Bussone rimase fermo e non prese alcuna iniziativa, e in ottobre il Senato discusse il problema "qualiter vivere habeamus et non stare in his perpetuis laboribus et expensis", senza però trovare una soluzione. Alcune proposte per incoraggiarlo, anche in merito alla speranza - che si riteneva egli nutrisse - di rendersi signore di Milano, furono discusse durante l'inverno, ma vennero poi differite o rifiutate. Alla fine, il 27 marzo 1432, mentre l'esercito visconteo attaccava il Bergamasco e il Bresciano riportando alcuni successi, il Consiglio dei dieci avocò a sé la questione del Bussone, già affidata ai Pregadi. Convocato a Venezia per un consiglio di guerra, il Bussone lasciò Brescia il 6 aprile, e giunse a Venezia il pomeriggio successivo. Fu scortato fino al palazzo ducale per un incontro con il doge, separato dalla sua guardia del corpo e imprigionato. A Brescia era stata presa ogni precauzione per evitare disordini, sua moglie era stata arrestata, venne intercettata la sua corrispondenza, e ogni sua proprietà fu sequestrata. Venne costituito un "Collegio di esamina", come richiesto dalla legge, e il procedimento contro di lui fu aperto in forma segreta il 9 aprile. Si dice che il Bussone, sottoposto a tortura, confessasse subito la sua colpa. Il Consiglio dei dieci ricevette il 5 maggio il rapporto del Collegio, condannò il Bussone come pubblico traditore dello Stato e con un voto di maggioranza emise contro di lui la sentenza di morte. Nello stesso pomeriggio, imbavagliato e con le braccia legate, fu decapitato tra le due colonne in piazza S. Marco. Il suo corpo fu sepolto in S. Maria dei Frari.
Venezia fornì spiegazioni sulla natura dell'accusa formulata contro il Bussone in una lettera dell'8 aprile 1432 inviata ai suoi alleati. Egli aveva deliberatamente mancato di proseguire la guerra, differendola in collusione con il Visconti, a danno dello Stato. La sorte del Bussone dette luogo a numerosi commenti e a divergenti opinioni e continua ad alimentare varie speculazioni. Secondo l'uso le prove che potevano essere esistite contro di lui non furono rese note, e gli atti del Collegio non sono stati conservati. La questione della sua colpevolezza rimane ancora aperta. Se la sicurezza di Venezia richiedeva la sua morte, è improbabile che il Consiglio dei dieci avrebbe esitato. Ma le relazioni politiche che il Bussone manteneva poste in relazione con le sue aspirazioni territoriali (egli aveva espresso la speranza di ottenere uno Stato per sé) offrono elementi per credere a una sua colpevolezza. Egli non poteva attendersi che la Repubblica di Venezia rinunciasse a territori propri nella misura necessaria per soddisfarlo, e d'altra parte non poteva sperare seriamente di riuscire a smembrare i territori viscontei a proprio vantaggio. Nonostante ciò, manteneva aperti i canali di comunicazione con Milano. Cristoforo Ghilini, un maestro delle Entrate del duca, aveva avuto l'incarico di aniministrare le proprietà del Bussone in Lombardia nel 1425. Egli visitò varie volte il Bussone nel 1429-30 e fu uno dei tutori delle figlie nominati dal Bussone nel testamento redatto nel 1429. Filippo Maria Visconti continuò a corteggiarlo anche dopo la ripresa della guerra e i messaggi del Ghilini lo raggiunsero fino al febbraio 1432. È vero che il Bussone metteva regolarmente Venezia a conoscenza di questi messaggi, ma la possibilità di più segreti contatti (la cui esistenza è stata sostenuta dal Porro) non può essere esclusa. Per il Bussone, il mezzo meno improbabile per realizzare le sue ambizioni consisteva nel premio che Filippo Maria sarebbe stato disposto ad offrirgli per la riconquista di Bergamo e Brescia. Il Bussone, oltre a una figlia illegittima (andata sposa a Riccardolo Anguissola nel 1424), ebbe da Antonia Visconti quattro figlie. Una andò sposa a Luigi Dal Verme, e le altre tre trovarono in seguito marito a Milano, nelle nobili famiglie Castiglioni, San Severino e Visconti. I feudi del Bussone, compresi Chiari, Castenedolo (venduto all'asta nel 1435 per lire 35.520) e Sanguinetto, e la sua ricchezza personale "in capsis sive cofanis", stimata 308.000 ducati, furono confiscati dopo il suo arresto. Vennero presi provvedimenti a favore della vedova, che si diceva avesse fornito prove contro di lui, ma con l'obbligo di risiedere a Treviso. Ella fuggì a Milano nel 1434 e stabilì la sua residenza in "casa Carmagnola" (il Broletto nuovo). La difesa dei suoi interessi economici nello Stato milanese costò la vita al Bussone, ma assicurò un futuro agiato alla sua famiglia. Le sue spoglie furono più tardi trasferite a Milano e sotterrate in una tomba marmorea, costruita lui vivente nella chiesa di S. Francesco, dove rimasero, insieme con quelle di Antonia Visconti, finché la chiesa non fu distrutta nel 1798. Un ritratto, ritenuto del Bussone, opera del Ferramola, ora nella fondazione Ugo da Como a Lonato, mostra un uomo grosso e pesante di media altezza. Le grosse, corte dita, il viso accuratamente sbarbato, la faccia collerica con il labbro inferiore sporgente, gli occhi fieri, il naso piatto costituiscono una fisionomia attendibile di questo forte e spietato comandante, assurto dal popolo al supremo comando militare. Di temperamento irascibile, brusco nel parlare e di indubbio coraggio, egli aveva spiccate doti naturali di condottiero, di capo severo e di organizzatore efficiente, ma non contribuì in nessun modo, per quanto ne sappiamo, alla formazione di una scuola. o allo sviluppo di nuove tecniche militari. Il Bussone aveva appreso l'arte militare sotto Facino Cane prima che Braccio e lo Sforza avessero elaborato nel Sud i loro sistemi. Il Bussone raggiungeva il successo con l'adattarsi alle circostanze e col porre grande attenzione ai dettagli. Le sue vittorie ad Arbedo e a Maclodio furono ottenute dalla concentrazione di forze preponderanti dispiegata su un terreno attentamente scelto. La sua riluttanza a impegnare troppo in profondità il proprio esercito nelle campagne del 1427 e del 1431 sottolineava la crescente cautela subentrata nella sua tattica militare. I piani di queste campagne mostrano scarsa originalità, ed egli (come, d'altra parte, molti condottieri del suo tempo) non sapeva sfruttare le sue vittorie. Il Decembrio sostiene (cfr. Battistella) che i primi successi del Bussone furono dovuti specialmente al genio politico di Filippo Maria Visconti; il giudizio è forse attribuibile al desiderio del Decembrio di adulare il Visconti, ma è indubbio che dopo che il Bussone abbandonò il servizio dei Visconti declinarono anche le sue doti di condottiero. Al presente, sono da accettarsi le riserve espresse su di lui da storici moderni quali il Fossati. Il Bussone fu un buon soldato, ma la reputazione che acquistò nei primi tempi della sua carriera esagera alquanto le sue reali capacità di condottiero.
Nel corso del Quattrocento l'Italia non conobbe nella generalità del suo territorio alcuna grande invasione di eserciti stranieri, almeno fino al 1494. In quell'arco di tempo ben pochi furono i condottieri che non fossero di origine italiana. Tuttavia, come già abbiamo visto, una consistente percentuale dei connestabili di fanteria erano stranieri e dagli anni Ottanta molti furono gli stradioti albanesi e anche i turchi che servirono nella cavalleria leggera degli eserciti italiani. Inoltre, ricordiamo che le vicende del regno di Napoli nel Quattrocento furono quelle caratterizzate da un conflitto continuo tra Aragonesi e Angioini. Così, parecchi corpi di spedizione angioini penetrarono in Italia durante il Quattrocento e il nerbo delle forze armate con cui Alfonso d'Aragona si conquistò la corona di Napoli era costituito da spagnoli; ma l'attività di francesi e spagnoli che si batterono per Napoli non si limitò di fatto al solo regno. Lungo tutto il secolo sappiamo che ci furono diversi scontri in cui soldati italiani avevano fronteggiato soldati stranieri, a cominciare dalla battaglia di Brescia nel 1401, quando forze armate di Milano sconfissero un contingente tedesco, fino alla comparsa del duca di Lorena con 250 lance francesi tra i condottieri assunti da Venezia al tempo della guerra di Ferrara. La battaglia di Brescia nel 1401 fu l'unico episodio in cui si ebbe un intervento massiccio sul suolo italiano di forze armate tedesche e quella volta la cavalleria tedesca venne battuta da Facino Cane e da Jacopo Dal Verme. Nel 1411 e nel 1418 Venezia dovette affrontare irruzioni in forza di ungheresi e riuscì felicemente ad averne ragione. I Beccaria furono cacciati dai loro feudi nell'Oltrepò; Bergamo fu presa nel luglio del 1419 e Gabrino Fondulo si arrese a Cremona nel gennaio del 1420. Nel frattempo Niccolò III d'Este aveva abbandonato l'alleanza antiviscontea e restituito Parma al duca milanese: il Carmagnola ebbe perciò la possibilità di concentrare le proprie forze per attaccare nel Bresciano. Il 16 marzo 1421 entrò trionfalmente a Brescia, mentre Pandolfo Malatesta, privato dell'aiuto veneziano dall'abilità diplomatica di Filippo Maria Visconti, si ritirava in Romagna. Il Carmagnola passò allora con il suo esercito in Liguria e il 2 nov. 1421 raggiunse un accordo con Tommaso Campofregoso per la resa di Genova al Visconti. Nella primavera del 1422 il duca lo inviò a cacciare gli Svizzeri dalle valli alpine che essi avevano occupato: il Bussone conquistò Bellinzona e riprese la Val Levantina.
Quattromila svizzeri, infatti avevano varcato il passo del San Gottardo per attaccare Bellinzona stessa e Domodossola; il Carmagnola si fece loro incontro con un esercito forte, tra l'altro, di cinquemila cavalieri e tremila fanti. Gli svizzeri formarono alla loro maniera tradizionale un quadrato di picche, ma si videro ben presto circondati. Il Carmagnola li attese attestato su una posizione accuratamente scelta ad Arbedo e, una volta fatti scendere da cavallo i suoi armigeri, li lanciò contro il quadrato svizzero con una tattica che ricordava quella di Giovanni Acuto. La battaglia, combattuta il 30 giugno 1422, fu lunga e aspra; ma alla fine la superiorità numerica italiana ebbe la meglio. Rifiutando la resa offerta dagli svizzeri, egli li fece completamente a pezzi e fu quello un colpo di cui in Svizzera durò il ricordo per molti anni e forse contribuì in qualche modo a trattenere gli svizzeri da fare altre comparse, se non sporadiche, in Italia per tutto il resto del secolo.
Arbedo coronò dieci anni di ininterrotti successi in battaglia, e consolidò la fama del Carmagnola come il più brillante condottiero dell'Italia settentrionale. E' nota la ferrea disciplina che egli imponeva alle sue truppe e che probabilmente favoriva la rapidità di movimento dell'esercito di cui il Bussone si avvalse specialmente nelle campagne del 1417 e del 1418. Rapidità di movimento che può essere stata facilitata dalla preferenza che il Carmagnola aveva allora per colonne poco numerose di uomini particolarmente addestrati: preferenza che non gli impedì ad Arbedo, quando le circostanze lo richiesero, di operare abilmente con grandi forze dispiegate. La battaglia fece registrare pesanti perdite in entrambi gli schieramenti. I cantoni di Uri e di Obvaldo persero il controllo sui territori situati a sud della gola del Piottino. Con il trattato di pace del 1426 i Confederati riottennero comunque la franchigia doganale nel Ducato.