Novembre 333 a.C.
Con delle marce forzate Alessandro affronta e sconfigge in campo aperto il "re dei re" Dario III ottenendo una grande vittoria e compiendo un grande massacro.
ISSO
Alessandro III re di Macedonia, detto poi il Grande, nacque l'anno 356 Alessandro a.C., il giorno 6 del mese di Ioos, (corrispondente al mese di ecatombeone del calendario attico), e cioè verso la fine di luglio, subito dopo la presa di Potidea: si festeggiavano in quei giorni i giuochi della 106ª olimpiade, e Filippo di Macedonia ebbe appunto notizia della nascita del figlio al suo ritorno da Potidea (Plutarco, Alex., 3). Madre di Alessandro fu Olimpia, figlia di Neottolemo, re dell'Epiro, che Filippo aveva sposata in seconde nozze., dopo la morte (o il divorzio) della prima moglie, Fila, della casa principesca dell'Elimiotide. Donna passionale e altera, influì notevolmente sull'indole del figlio; a svegliare poi il desiderio della gloria nell'animo giovanile di questo si aggiunse l'appassionata lettura dei poemi omerici. Da bambino, l'erede del trono era stato affidato alle cure della nutrice Lanice, donna di alto lignaggio, e di Leonida, parente di Olimpia, il quale dirigeva l'opera de' suoi non pochi pedagoghi e istitutori: l'educazione del principe era fatta, del resto, in comune con quella di altri fanciulli nobili, fra i quali fu forse anche Efestione. All'alto e difficile compito di educatore definitivo, Filippo - e l'importanza della scelta per la formazione intellettuale di Alessandro s'intende facilmente - chiamò, nell'anno 343-42, Aristotele, che rimase per alcuni anni a fianco del giovane principe e di pochi suoi compagni di studi, nel ritiro di Mieza. Non certo per molto tempo poté Alessandro ascoltare gl'insegnamenti del suo straordinario maestro, ché già nel 340 fu dal padre iniziato alle cure dello stato. Egli tuttavia ebbe agio di apprendere, direttamente, da colui che meglio d'ogni altro poteva parlarne, la vita intellettuale e culturale, i sistemi e la prassi politica della Grecia. La consuetudine fra maestro e discepolo fu troppo breve perché potesse stabilirsi fra i due un'intima dimestichezza; e alcuno (Kaerst) ha rilevato come l'influsso di Aristotele non si riveli nelle fondamentali concezioni etiche e politiche di Alessandro; sta di fatto che il re di Macedonia conservò sempre verso il filosolo rapporti di affetto e di gratitudine, che solo negli ultimi anni si guastarono alquanto (cfr. Plutarco, Alex., 8). Non è il caso d'intrattenerci qui, perché ben s'intuiscono, sulle cure che il padre dedicò all'educazione fisica del futuro monarca macedone, né sugli aneddoti che intorno ad essa si narravano (basterà aver ricordato la valentia dimostrata da Alessandro nel domare il cavallo Bucefalo donatogli dal corinzio Demarato); piuttosto ricorderemo com'egli fosse probabilmente l'unico vero affetto familiare di Filippo, il quale era orgoglioso del suo erede e non trascurava occasione di metterlo in vista e di prepararlo all'esercizio dei poteri sovrani. Nel 340, quando Alessandro contava 16 anni, il padre, partendo per l'assedio di Bisanzio, gli affidò la reggenza della Macedonia; nella qual carica condusse una spedizione per sottomettere il popolo ribelle dei Maidi; tre anni dopo si segnalò grandemente alla battaglia di Cheronea, dove fu ascritta a suo merito la rotta del battaglione sacro dei Tebani (Plut., Alex., 9).
Queste cure paterne di Filippo per l'erede contrastano con quanto sappiamo della vita privata del re macedone; la corte di Pella seguitava sempre ad essere ciò che era stata per l'addietro: un attendamento di rudi soldati, che occupawano il tempo fra una spedizione e l'altra con banchetti ed orgie e facili amori; e il re ne dava l'esempio. Quattro concubine si erano succedute al suo fianco; e le prime tre gli avevano dato figli. Da ultimo, ritornando in Macedonia con gli allori di Cheronea, s'era invaghito della giovane Cleopatra, nipote di Attalo, uno dei più alti e influenti ufficiali del seguito del re (Diodoro, XVI, 93); la elevata condizione della nuova favorita non permetteva al re di farsene una concubina: dové unirsi a lei con legittime nozze, e n'ebbe, pochi giorni prima di morire (Diodoro, XVII, 2, 3), una bambina, Europa (alcune fonti accennano invece ad un maschio: v. Beloch, Griech. Gesch., III, 11, 2ª ed., p. 71). Olimpia, che già di malanimo sopportava la condotta sregolata del re, non poté subire quest'ultimo affronto e si ritirò nelle sue terre d'Epiro; mentre Alessandro, ad esprimere anch'egli la sua disapprovazione verso il padre, si allontanava dalla capitale, dirigendosi a comandare una spedizione contro gli Illirî. Filippo capì di essere andato troppo oltre, tanto più che Attalo vantava palesemente la certezza che i figli di Cleopatra avrebbero raccolto la successione del re, e tosto si adoperò per una conciliazione: riuscì a convincere Alessandro a ritornare a Pella, mentre si guadagnava il favore dei parenti di Olimpia, offrendo al fratello di lei, Alessandro, il matrimonio con la propria figlia Cleopatra (figlia di Olimpia e sorella di Alessandro). Nell'antica capitale dei re di Macedonia, ad Ege, nell'estate del 336, si celebrarono con gran pompa queste nozze; ma, durante lo svolgersi del corteo nuziale, il re fu pugnalato a tradimento da un ufficiale del suo stato maggiore, un tal Pausania. Piuttosto che motivi personali (e cioè risentimento di Pausania verso Filippo per non averne ricevuto giustizia in una sua questione con Attalo), è probabile che moventi politici guidassero il braccio del regicida: nell'assassinio è da veder forse l'opera di Olimpia (come del resto ne corse subito la voce), né si può escludere che Alessandro stesso fosse a cognizione di ciò che la madre preparava a stornare la minaccia ch'egli fosse privato della successione al trono, in favore dei figli di Cleopatra.
Alessandro salì sul trono nell'estate del 336 (per la cronologia, v. Beloch, Griech. Gescch., III, 11, § 23), all'età di 20 anni precisi, in circostanze difficilissime. Da ogni parte si levavano contro di lui opposizioni e minacce. All'esterno alzavano il capo i popoli barbari di recente sottomessi da Filippo, ai confini orientali e settentrionali della Macedonia; e i Greci, insofferenti del giogo dell'egemonia macedone, giudicavano venuto il momento di scuoterlo: da Ambracia veniva cacciato il presidio macedone, e lo stesso si preparava a far Tebe; gravi fermenti si annunziavano in Etolia e nel Peloponneso; ad Atene Demostene aveva scattato di gioia alla notizia dell'assassinio di Filippo, e ora trionfava dei suoi nemici e proclamava che più nulla s'aveva ormai da temere dal ragazzo che sedeva sul trono dei Macedoni (Diodoro, XVII, 3; Plutarco, Demosth., 22). E pericoli non meno gravi si disegnarono tosto contro il nuovo re, all'interno: quivi egli doveva pensare a difendersi da altri pretendenti al trono; più pericoloso di tutti Attalo, lo zio di Cleopatra, che, inviato in Asia da Filippo, insieme con Parmenione, per preparare la guerra contro la Persia, intendeva ora far valere i diritti dinastici della nipote e della sua prole, e, a buon conto, aveva allacciato trattative con Atene; pericoloso anche Aminta, figlio di Perdicca (il predecessore di Filippo), che un numeroso partito riguardava come legittimo erede del trono. L'aver superato un così difficile frangente si dové non meno alle doti personali, di prontezza e risolutezza di decisione, di cui il giovane re seppe dar prova, che all'immediato e reciso pronunciamento in suo favore di quasi tutti i generali di Filippo, e massimamente dei due più autorevoli di essi, Antipatro e Parmenione, che vollero così, col rapido consolidamento del nuovo monarca, risparmiare alla Macedonia una gravissima crisi di successione che avrebbe potuto comprometterne la posizione di predominio di recente acquistata. Né va dimenticata, a questo proposito, l'azione di quella schiera numerosa di affezionati amici, che già si stringevano intorno ad Alessandro: tali i macedoni Tolomeo ed Arpalo, il cretese Nearco, il compagno d'infanzia Efestione e aìtri ancora, tutti sempre solidali con lui come prima nei conflitti tra Alessandro e Filippo, così ora, nella crisi della successione. Ancora nel 336, Alessandro marciava in Tessaglia, facendosi riconoscere dall'assemblea federale capo supremo dei Tessali; tosto avanzò sino alle Termopili, e dall'assemblea anfizionica ivi radunata si fece riconfermare il protettorato sul santuario di Delfi; sceso fino alle porte di Tebe con minaccioso spiegamento di forze, persuadeva la città a desistere da ogni idea di ribellione, e quivi riceveva un'ambasceria inviata dagli Ateniesi per congratularsi con lui dell'ascesa al trono. Frattanto erano convenuti a Corinto i delegati degli stati greci aderenti alla Lega nazionale promossa da Filippo per muovere in guerra contro la Persia (non avevano aderito gli Spartani): quivi Alessandro si fece proclamare, al posto del padre, comandante supremo delle forze elleniche che avrebbero operato contro i Persiani. Era ormai tempo per lui di ritornare in Macedonia, per rintuzzare le velleità offensive dei popoli barbari confinanti; ma prima volle farla finita con le opposizioni dinastiche di ogni specie (Diodoro, XVII, 4; Arriano, I,1,1-3).
Attalo, che si trovava tuttora in Asia al comando dell'esercito macedonico, aveva cercato ora, dopo la sottomissione dei Greci ad Alessandro, di far pace col re; ma questi giudicò più sicuro disfarsi di lui e farlo uccidere da un sicario, appositamente inviato: né Parmenione rifiutò la sua cooperazione all'impresa, quantunque avesse dato una sua figlia in isposa ad Attalo. Venne quindi la volta dei parenti di Cleopatra e dei fratellastri di Alessandro, che Filippo aveva avuti dalle sue concubine: tutti furono egualmente fatti uccidere dal re, ad eccezione del mentecatto Arrideo, figlio della concubina Filinna. Di lì a poco Olimpia obbligava la vedova Cleopatra a uccidersi, e ne faceva sopprimere la figlia. Un vero bagno di sangue! A giustificazione del suo autore si può addurre la considerazione ch'egli non aveva altro modo di dare al suo regno, la sicurezza che gli era necessaria per la grande impresa ormai decisa; che gli ostacoli e i pericoli, di cui Alessandro dové ora liberarsi in modo così crudele, erano stati in gran parte suscitati contro di lui dalle colpe e dalle sregolatezze del padre; che, infine, un così truce procedere, oltre ad essere, purtroppo, comune alle rivoluzioni di tutti i tempi e di tutti i regimi, non va giudicato alla stregua dei nostri costumi e della nostra morale, bensì a quella dei costumi e della morale del tempo e, specificamente, del popolo macedone. Urgeva a ora ad Alessandro, prima di allontanarsi col nerbo delle forze militari dal suo regno, assicurarne stabilmente i confini e consolidare il prestigio macedone fra le genti circostanti. Nella primavera del 335 Alessandro moveva da Anfipoli; varcato il fiume Nesto, si apriva il passo attraverso le tribù della Tracia, e scendeva, a nord dell'Emo (catena dei Balcani), nel territorio dei Triballi (Bulgaria occidentale), che Filippo aveva già battuti, senza per altro riuscire a sottometterli: domato questo popolo, valicò il Danubio, probabilmente non lungi dall'odierna Silistria, spingendosi con una marcia di ricognizione nel paese dei Geti, che invano avevano tentato di contendergli il passo del fiume. Ma qui per Alessandro non vi era altro di utile da fare; tornò indietro, assicurandosi dell'obbedienza dei Triballi e degli altri popoli adiacenti al Danubio; indi si diresse, attraverso il paese degli Agriani, nella Peonia (Serbia meridionale). Qui lo raggiunse la notizia della defezione del principe illirico Clito, figlio di quel Bardile a cui Filippo aveva imposto la sovranità macedone; egli, fatta lega col popolo indipendente dei Taulanti, abitante la costa adriatica (Albania occidentale), minacciava ora da vicino i confini occidentali della Macedonia. Senza indugio Alessandro si volse contro il nuovo nemico e, non senza aver superato, mercé la disciplina e il valore delle sue truppe, qualche critico momento, riuscì a battere Clito, costringendolo a rifugiarsi presso il re dei Taulanti (Arriano, I, 5, 6; Diodoro, XVII, 8; Plutarco, Alex., 11).
Ma non poté usufruire oltre della vittoria; gravi notizie arrivavano dalla Grecia, ove s'era sparsa, non si sa come, la voce che egli fosse caduto, col suo esercito, in un'imboscata degli Illiri e vi avesse perduto la vita. Tale nuova aveva rianimato le speranze dei Greci in una prossima liberazione dalla signoria macedone; e a fomentare e a preparare torbidi aveva lavorato anche la Persia, inviando nelle città greche messi forniti di larghi mezzi pecuniari. Fino allora, però, nessuna città greca, ad eccezione di Sparta, aveva formalmente aderito alle proposte persiane; ma ora Tebe si sollevava, assediando il presidio macedone nella Cadmea, e Atene aderiva al movimento tebano e preparava rinforzi da inviare in Beozia, mentre Demostene avviava nuove trattative con la Persia; dal Peloponneso gli Arcadi e gli Elei promettevano aiuti ai Tebani, e lo stesso facevano gli Etoli. Si era allora alle soglie dell'autunno del 335; con straordinaria rapidità Alessandro apparve ai confini della Tessaglia e piombò fulmineo su Tebe, isolandola prima che potesse ricevere alcuno dei rinforzi che si stavano avviando in Beozia da varie parti della Grecia. Senza misurare la gravità del pericolo, senza calcolare la sproporzione delle forze proprie rispetto ai mezzi militari del nemico, sconsideratamente i Tebani respinsero ogni offerta di trattative; tosto incominciò, da parte dei Macedoni, l'assedio, facilitato dalla presenza del presidio macedonico nella Cadmea; la città fu presa d' assalto, dopo fierissima resistenza, al principio di ottobre. E Alessandro volle ora che il destino della città fosse deciso dal sinedrio ellenico, ove, assai più che la severità del re macedone, operò la smania di vendetta dei Focesi e delle piccole città beotiche, memori del giogo che Tebe aveva per lungo tempo fatto pesare su di loro: la città fu giudicata traditrice della causa nazionale greca e condannata ad essere distrutta, ad eccezione della Cadmea, ove rimase stanziato il presidio macedone; gli abitanti superstiti (più di 30.000) furono venduti schiavi; il territorio distribuito tra le minori città beotiche (Arriano, I, 7-8; Diodoro. XVII, 9-12; Plutarco, Alex., 11). La gravissima punizione, alla quale indubbiamente Alessandro non volle opporsi (gli sarebbe stato ben facile impedirla!), perché servisse, soprattutto, d'intimidazione verso gli altri Greci, fece dovunque nell'Ellade straordinaria impressione; dappertutto dileguarono i propositi di di defezione, e le città che più si erano compromesse si affrettarono a fare atto di sottomissione ad Alessandro. All'ambasceria inviatagli dagli Ateniesi, Alessandro formulò soltanto due richieste: sfrattassero i Tebani che s'erano rifugiati nella loro città; consegnassero i responsabili della condotta politica ateniese, fra essi Demostene. Le due richieste furono, dopo vivi contrasti, respinte dall'assemblea degli Ateniesi; e Focione stesso, il capo più autorevole del partito filo-macedonico, si unì all'ambasceria che recò al re il responso del popolo ateniese. E Alessandro ritirò le sue richieste: sull'indulgenza allora usata dal re macedone influì senza dubbio il pensiero che, gettando Atene nelle braccia della Persia, egli si sarebbe reso di gran lunga più difficile l'azione futura, assicurando ai suoi nemici il dominio del mare (così Beloch); ma devesi pure ammettere che l'anímo di Alessandro non fosse insensibile al fascino che Atene esercitava allora su tutto il mondo civile, e per cui dappertutto aveva profonda risonanza ogni offesa recata alla città, luminare delle arti e delle scienze, alla trionfatrice di Maratona e di Salamina.
Alessandro poteva ora finalmente pensare alla guerra contro la Persia; un ulteriore indugio avrebbe potuto comprometterla seriamente. Già abbiamo detto come Filippo avesse inviato in Asia Attalo e Parmenione, allo scopo di preparare condizioni favorevoli allo sbarco della grande spedizione: le poche forze persiane disponibili nelle regioni costiere dell'Anatolia erano state dal re Dario affidate al comando del rodio Mentore e, dopo la morte di questo, del fratello Memnone. Da principio, i Macedoni avevano riportato notevoli successi, arrivando fino a minacciare Sardi; poi, approfittando della perplessità sopraggiunta nell'esercito macedone in seguito all'assassinio di Attalo, Memnone aveva ripreso l'offensiva, attaccando Cizico e fronteggiando dovunque con fortuna Parmenione. Sul principio della primavera del 334 Alessandro, consegnata ad Antipatro la luogotenenza del regno per la Macedonia e per la Grecia, metteva in marcia il suo esercito, iniziando così quella spedizione contro la Persia che egli aveva proclamato di condurre, come capo supremo della Lega ellenica, a vendetta di tutte le offese e dei sacrilegi commessi dai Persiani a danno dei Greci (Diodoro, XVII, 4, 9; Cicer., De republ., III, 15). Come capo di stato maggiore gli era a fianco Parmenione, ìl miglior generale dei suoi tempi, autore delle più splendide vittorie di Filippo; alla sua scuola era stato educato il magnifico corpo degli ufficiali macedoni, che inquadravano le truppe, con le quali Alessandro apriva ora la campagna. Questo esercito poteva contare circa 40.000 uomini, dei quali più di 5000 a cavallo: il maggiore esercito greco che si fosse finora veduto, il più numeroso contingente di cavalleria che un generale greco avesse mai avuto al suo comando. I contingenti degli alleati greci non sommavano in tutto che a poche migliaia di uomini: la sistematica opposizione dei Greci alla Macedonia aveva, se non altro, ottenuto il risultato di ridurre al minimo i loro sacrifici per la guerra; vero è però che le città greche avevano contribuito, in misura più notevole, a formare la llotta federale destinata ad agire nel Mare Egeo contro quella persiana (le cifre dei singoli contingenti sono in Diodoro, XVII, 17, 3 segg.: su di esse v. Beloch, Griech. Geschichte, III, 11, § 132). Non molto numerosa era la flotta federale: 160 navi in tutto; sicché doveva esser facile alla Persia raccoglierne, in un tempo più o meno lungo, una assai più numerosa: di tal condizione di cose la responsabilità risaliva ad Atene, che aveva contribuito con sole venti triremi all'armata federale.
Non faccia meraviglia che Alessandro si preparasse a fronteggiare con forze relativamente modeste la smisurata mole dell'impero persiano; quanto smisurato altrettanto debole organismo, per la non mai avvenuta fusione dei differenti popoli che lo costituivano, per la forza centrifuga rappresentata dai potenti satrapi di fronte alla corte, indebolita, specialmente nell'ultimo secolo, da frequenti conflitti dinastici e congiure di palazzo. L'esercito, restio ad assimilare i progressi della tecnica militare, nonostante il largo e frequente reclutamento di condottieri e mercenarî greci, si era visto, in occasione della spedizione di Ciro, della ritirata dei Diecimila, della guerra di Agesilao, quel che valesse da solo di fronte ai Greci. Le vere forze efficienti della Persia stavano invece ancora nelle finanze e nella flotta.D'altra parte, è stato acutamente osservato come il processo di ellenizzazione dell'Asia minore fosse già notevolmente avanzato durante il sec. IV, prima della spedizione di Alessandro; sicché il compito di questo ne fu straordinariamente facilitato, e la sua impresa non fece che accelerare e condurre a termine un movimento già molto progredito (v. W. Judeich, Kleinasiatische Studien, Marburgo 1892). Lo sbarco dell'esercito - che la flotta persiana non giunse in tempo a contrastare - fu effettuato. sotto la direzione di Parmenione, nella Troade, nella regione di Abido. Il re si fermò a visitare le reliquie di Troia e la tomba dell'avo suo Achille; indi mosse l'esercito verso est, seguendo la linea della costa. Memnone aveva disegnato un piano esclusivamente difensivo, che doveva condurre il nemico lontano dalle sue basi, attraverso un paese devastato, con le retrovie minacciate, mentre la flotta persiana si sarebbe radunata nell'Egeo e la politica persiana presso i vari stati greci avrebbe dato i suoi frutti. Ma i generali e i satrapi persiani non approvarono la strategia del Rodiese, e preferirono misurarsi senz'altro col nemico: lo scontro avvenne sul fiume Granico, nel targelione (maggio-giugno) del 334, e fu deciso in favore dei Macedoni, principalmente per merito della cavalleria tessala comandata da Parmenione e coll'impeto della carica che Alessandro stesso guidò, con grave pericolo della vita, salvatagli, in questa occasione, da Clito (cfr. Arriano, I, 13-15; Diodoro, XVII, 20-21; Plutarco, Alex., 19).
La vittoria, che Alessandro proclamò vittoria della Lega greca sui barbari (inviando ad Atene, in dono votivo a Pallade, trecento armature persiane, con la dedica: "Alessandro e i Greci, all'infuori degli Spartani, sui barbari d'Asia", Plut., Alex., 16), benché non avesse grande importanza militare, fece in tutta l'Asia straordinaria impressione: dovunque caddero le resistenze, e soltanto i nuclei di mercenarî greci si opposero qua e là efficacemente alla marcia del conquistatore; perfino l'imprendibile Sardi fu consegnata ad Alessandro, senza colpo ferire, dal comandante persiano e dai notabili della città. Poi fu la volta di Efeso: una dura resistenza oppose Mileto, appoggiandosi alla flotta persiana, finalmente comparsa nel Mar Egeo (Arriano, I, 18-19; Diodoro, XVII. 22; la cifra di 300 o 400 navi, data da questi autori, è certamentc esagerata); ma le navi greche prevennero il nemico nell'occupare l'isoletta di Lade, tagliando così la città dalle comunicazioni col mare. Caduta Mileto, un'accanita resistenza fu opposta da Alicarnasso, ove aveva preso il comando Memnone in persona, che il re Dario aveva nominato capo supremo delle forze persiane in Asia Minore, avendo da lui ricevuto in ostaggio, a garanzia della sua fedeltà, la moglie e i figli. L'espugnazione della città, potentemente fortificata da Mausolo e appoggiata dalla numerosa e valida armata persiana, si presentava oltremodo difficile; ma per Alessandro era indispensabile, prima di avanzare oltre, far crollare quella potente piazza forte o, se credeva meglio, lasciarla strettamente assediata. Preferì non dividere l'esercito: Alicarnasso fu presa d'assalto, tranne l'acropoli, dove un nucleo di difensori rimase assediato da un contingente macedone (Arriano, I, 20-23; Diodoro, XVII, 23-27); Memnone poté ritirarsi con parte de' suoi, notte tempo, a Coo. E allora tutta la Caria cadde nelle mani di Alessandro, il quale ne affidò il governo alla principessa Ada, l'ultima sorella di Mausolo, il cui favore gli aveva molto agevolato la conquista. Frattanto Lisimaco occupava tutte le altre città della costa: a tutte Alessandro elargì libertà ed autonomia (perfino autonomia politica, a giudizio del Droysen, in Monatsber. der Berl. Akad., 1878, p. 23 segg.), dovunque facendo sostituire al regime oligarchico, ligio alla corte persiana, costituzioni democratiche, ma impedendo assolutamente qualunque violenza; il che gli guadagnò le simpatie della classe abbiente.
Ma ad Alessandro premeva di togliere al nemico le basi della sua flotta; onde, lasciato Parmenione a svernare in Lidia con la cavalleria tessala e gli alleati, egli si avviava attraverso la Licia e la Panfilia, conquistandole senza colpo ferire. Di qui risaliva nell'altipiano della Pisidia, e, aprendosi il passo fra quelle fiere tribù montanare, che non avevano mai riconosciuto la sovranità persiana, arrivava a Gordio, antica residenza dei re di Frigia; nella primavera del 333 si ricongiungeva a Parmenione, che gli conduceva anche rinforzi di truppe fresche. In Gordio Alessandro sciolse il famoso nodo, dando così, agli occhi dei Frigi, un colore di legittimità alla sua conquista (Plutarco, Alex., 18). Da Gordio Alessandro, dopo aver toccato Ancira (Angora) e sottomessi i Paflagoni, ridiscese, attraverso la Cappadocia, verso la Cilicia: superato il passo del Tauro (le porte Cilicie), che il presidio persiano non tentò neppure di difendere, giunse a Tarso, ove cadde gravemente ammalato e fu salvato dal medico Filippo (Plut., Alex., 19). Mentre egli si tratteneva qui qualche tempo, anche per allargare e consolidare la conquista della Cilicia, Parmenione lo precedeva con una metà dell'esercito, occupando i passi costieri fra la Cilicia e la Siria (Arriano, I, 23, 7; II, 6; Diodoro, XVII, 27-28). Frattanto il re di Persia (Dario III, elevato al trono sul finire del 336 dall'onnipotente ministro Bagoas, da lui poi soppresso), radunato un grande esercito, era venuto a prendere posizione nella pianura di Sochoi, ad oriente della catena dell'Amano: tosto Alessandro gli si fece incontro e, riunitosi a Parmenione, si fermò allo sbocco orientale della Porta Siriaca. I due eserciti stettero per qualche tempo di fronte immobili: non conveniva ai Macedoni attaccare il nemico in una larga pianura, favorevole ai movimenti della sua numerosissima cavalleria; né un attacco dei Persiani alle forti posizioni di Alessandro aveva probabilità di riuscita. Allora Dario, piuttosto che aspettare inattivo l'inverno, che l'avrebbe costretto a ritirare e sciogliere il suo esercito, con grave danno del suo prestigio, preferì obbligare il nemico a battaglia, aggirando, da nord, le posizioni macedoni e prendendo posizione, alle spalle di Alessandro, nella pianura costiera di Isso. ll re di Macedonia, tagliato fuori dalle sue basi di operazione, era perduto, se la battaglia non gli riusciva favorevole: ma la vittoria fu, anche questa volta, dei Macedoni. La battaglia di Isso fu anzi il più glorioso trionfo di tutta la guerra; la più tenace resistenza fu opposta dai mercenarî greci militanti nell'esercito di Dario: con l'immenso bottino caddero in mano del vincitore anche la madre, la moglie e due figlie di Dario. La vittoria produsse straordinaria impressione in Grecia, e specialmente ad Atene, ove, nelle settimane precedenti allo scontro, Demostene andava ripetendo che l'esercito macedone sarebbe stato calpestato dalla valanga della cavalleria barbarica; nei giuochi istmici della primavera successiva fu decretata ad Alessandro, quale difensore della libertà ellenica contro i barbari, la corona d'oro.
Come la battaglia del Granico aveva aperto ad Alessandro la strada dell'Asia anteriore, così ora la battaglia di Isso spalancò al vittorioso le porte della Mesopotamia, dell'Armenia, dell'Iran; gli strateghi moderni riconoscono pertanto ad Alessandro il merito di aver vinto ogni impazienza e di essersi fermato ad assoggettare la Siria, la Fenicia e l'Egitto, assicurandosi così il dominio del mare, prima d'inseguire il suo avversario sconfitto nel cuore dell'impero. Dario aveva abbandonato a Damasco l'ingente tesoro del suo esercito; e Alessandro mandò Parmenione a impadronirsene. Indi, per togliere all'attività marinara del nemico le proprie basi, si rivolse contro le città della costa fenicia. Le più importanti tra esse, Arado, Biblo, Sidone, si diedero senza opposizione ad Alessandro, che pertanto si impadronì anche delle loro flotte e di quelle delle città cipriote. Soltanto Tiro si oppose all'ingresso di Alessandro, dichiarando di volersi conservare neutrale: per ben sette mesi i Tirî resistettero all'assedio di Alessandro, finché dovettero arrendersi nel mese di ecatombeone (luglio-agosto) del 332; la popolazione superstite fu, per la maggior parte, venduta schiava. Ripresa la sua marcia verso il sud e superata, con un assedio di due mesi, l'opposizione di Gaza, intraprese anche la conquista dell'Egitto, che i nemici di Alessandro (come il disertore Aminta) avevano fatto ora centro dei loro maneggi, e la cui sottomissione avrebbe senza dubbio accresciuto il prestigio del monarca macedone. L'Egitto era del resto allora quasi indifeso, avendo il satrapo che lo governava partecipato con le sue truppe alla battaglia di Isso; e d'altra parte gli Egiziani, sempre insofferenti della dura e maldestra dominazione persiana, accolsero con simpatia e favore il conquistatore. Alessandro, dopo essersi trattenuto, durante l'inferno del 332-31, nella regione del Delta, e aver quivi fondato quella città di Alessandria che doveva, in breve volger di tempo, divenire la più ricca e popolosa del mondo, volle spingersi a visitarr il santuario di Ammone, che anche i Greci veneravano. I sacerdoti del tempio salutarono Alessandro figlio del dio, come spettava al dominatore dell'Egitto: il qual fatto assunse grande importanza più tardi, quando Alessandro ambì per sé gli onori divini. A Menfi Alessandro si fermò qualche tempo, per ricevere rinforzi e ambascerie dalla Grecia e per organizzare, col massimo rispetto alle istituzioni locali, l'amministrazione del paese. Quindi, nella primavera del 331, si mise in marcia verso il nord per incontrare Dario.
Il re persiano aveva già offerto trattative al suo nemico, dopo il disastro di Isso; né Alessandro aveva rifiutato l'offerta, ma, quando gli giunse la seconda ambasceria di Dario, con proposte concrete di pace (cessione di tutta l'Asia ad ovest dell'Eufrate, versamento di 10 mila talenti come riscatto della famiglia reale prigioniera), Alessandro era già dinanzi a Tiro, padrone della Siria e della Fenicia, libero dal pericolo dell'armata persiana: la totale conquista dell'impero non era ormai che questione di tempo, né conveniva rinunciarvi. Alessandro respinse pertanto le proposte, né altre ne furono più in seguito avanzate da Dario. Al re di Persia non rimase allora che raccogliere tutte le forze per il proseguimento della lotta. Dalle satrapie orientali del regno affluirono a lui nuovi contingenti; coi quali Dario decise di attendere Alessandro nella piana dell'Assiria, dove non gli sarebbe stata inutile, come ad Isso, la sua superiorità numerica, specie quella delle truppe montate. Nell'estate del 331 Alessandro passava indisturbato l'Eufrate a Tapsaco. il 20 settembre la difficile corrente del Tigri; dieci giorni dopo, il 1° di ottobre, attaccava le posizioni di Dario nella pianura tra il villaggio di Gaugamela ed Arbela, non lontano dalle rovine di Ninive (presso l'odierna Mossul). Anche in questa giornata la vittoria fu decisa dall'impeto dell'attacco di Alessandro, mentre Parmenione, all'ala sinistra, teneva testa alla cavalleria persiana. I magazzini e i tesori dell'esercito persiano, in Arbela, e diecine di migliaia di prigionieri vennero in mano del vincitore, al quale la vittoria non era costata che cinquecento uomini; però gli sfuggiva ancora Dario, che si dirigeva tosto verso i difficili passi della Media, allo scopo di conservare le comunicazioni con le provincie orientali dell'impero. La regione di Babilonia, e la città stessa famosa, venivano consegnate ad Alessandro dal prefetto Mazeo: la popolazione lo salutava come liberatore.
Dopo aver sostato in Babilonia, ove si guadagnò le simpatie della popolazione con la devozione mostrata ai culti indigeni, dopo essersi impadronito, in Susa, di ricchissimi tesori si trovarono anche opere d'arte greche, involate da Serse nel 480), marciò verso il cuore dell'impero, verso la Perside, vincendo l'opposizione delle tribù montanare degli Ussî (non sottomesse mai neppure dai re persiani) e la resistenza del satrapo Ariobarzane. A Persepoli, ove caddero in suo potere gl'inesauribili tesori della corte persiana (circa 120.000 talenti), distrusse il famoso, magnifico palazzo reale (Arriano, III, 16-18; Plut., Alex., 36-38; Diodoro, XVII, 65-72). Di questo procedere di Alessandro contro la capitale persiana si dettero, da antichi e moderni, spiegazioni diverse; volendoviisi dai più vedere la vendetta che Alessandro prendeva, in nome di tutti i Greci, sui Persiani per le distruzioni da questi arrecate in Grecia, e specialmente per l'incendio dell'Acropoli di Atene: sta di fatto che egli si trovava ora nella patria vera e propria dei suoi nemici, non marciava più attraverso nazioni che ne festeggiavano l'arrivo, in odio ai dominatori persiani; sicché entravano ora in vigore, per gli assalitori e per i difensori, tutte le dure leggi della guerra (così Beloch). Dopo una sosta di quattro mesi nella Perside, Alessandro marciò su Ecbatana (Hamadhan), la capitale della Media, ove Dario aveva preso i quartieri d'inverno; là giunto, seppe che Dario aveva continuato la sua ritirata verso l'oriente. Ma ormai il fine che Alessandro si era proposto, come capo e rappresentante della nazione greca, era raggiunto: il regno di Persia aveva finito di esistere; l'ultimo epigono dei superbi monarchi che avevano a più riprese minacciato la libertà e l'esistenza stessa delle città elleniche cercava nella fuga un ultimo scampo agli estremi confini del suo regno distrutto.
Inseguendo il fuggiasco, Alessandro oltrepassò Rhagae (presso l'odierna Teheran) e le Porte Caspiche (passo di Sirdassa); ivi apprese che un gruppo di satrapi e di alti ufficiali persiani aveva deposto Dario e lo conduceva seco prigioniero nella ritirata: a capo di essi stava Besso, satrapo della Battriana e Sogdiana, appartenente ad un ramo collaterale della dinastia degli Achemenidi. Alessandro si mise loro alle calcagna coi corpi più rapidi del suo esercito: in procinto di esser raggiunto, Besso preferì far uccidere Dario piuttosto che lasciarlo cader vivo nelle mani del vincitore; con la speranza, anche, di far così desistere Alessandro dall'inseguimento: così morì Dario, in Ecatompilo, nel mese di luglio del 330; il suo cadavere fu da Alessandro fatto trasportare nella Perside, ove fu sepolto, con tutti gli onori, nella tomba dei re (Arriano, III, 19-21; Curzio Rufo, V, 9-13; Diodoro, XVII, 73). Sull'organizzazione che Alessandro diede all'impero così rapidamente conquistato sarebbe erroneo voler dare un giudizio definitivo; poiché è chiaro che non si poteva trattare, allora, che di una sistemazione provvisoria, come soltanto poteva permetterla lo stato di guerra tuttora esistente, e che, d'altra parte, avrebbe servito di esperimento per un'ulteriore, definitiva sistemazione. In realta Alessandro conservò quasi dovunque la divisione persiana dello stato in satrapie, su basi storiche ed etniche, nominando, salvo poche eccezioni, al posto dei satrapi, ufficiali macedoni, con poteri civili e militari: laddove, invece, furono lasciati al potere i satrapi o i principi indigeni (come in Caria, in Egitto, nelle satrapie conquistate dopo la battaglia di Arbela), Alessandro mise loro a fianco ufficiali macedoni, investiti del comando militare. In seguito fu costretto però a deporre gran parte di questi satrapi, e i due poteri furono così anche qui riuniti nelle mani di comandanti macedoni. Con speciali provvedimenti, però, Alessandro era riuscito ad assicurare al potere centrale mezzi di governo più sicuri, diretti ed efficaci di quelli di cui disponeva la corte persiana: a tal uopo furono posti a capo delle più importanti piazze forti comandanti militari alle dipendenze dirette del re; mentre, agli effetti dell'amministrazione finanziaria, tutto lo stato fu diviso in un certo numero di distretti, diretti da speciali funzionarî. In tal modo il potere centrale dominava militarmente e finanziariamente lo stato, indipendentemente dall'autorità dei satrapi. La misura dei tributi, fu, in genere, da Alessandro lasciata invariata: però le città greche ne furono liberate e assoggettate invece a una contribuzione di guerra.
Dopo la caduta di Alicarnasso Memnone non si era dato affatto per vinto, ma tosto aveva cominciato le operazioni nel Mar Egeo, nell'intento di sollevare la Grecia contro la Macedonia, alle spalle del re, che s'inoltrava frattanto nell'Asia; e in realtà, dati i sentimenti che gran parte dei Greci nutrivano verso il re macedone, le operaziohi di Memnone potevano rappresentare un serio pericolo per Alessandro. Appoggiandosi ai partiti oligarchici, dovunque a questo ostili, Memnone ebbe in breve guadagnato Chio e quasi tutta Lesbo; dalle Cicladi giunsero offerte di sottomissione al re di Persia; un'ambasceria partì da Atene alla volta di Dario; in tutta la Grecia si rinnovò un fermento che ricordava quello insorto dopo la morte di Filippo. Ma Memnone moriva di malattia durante l'assedio di Mitilene, e coloro che lo sostituirono nel comando (il nipote Farnabazo e Autofradate) si rivelarono tosto inferiori al loro ufficio. E frattanto la flotta greca si organizzava sempre meglio, e Antipatro, lasciato da Alessandro suo luogotenente in Macedonia, ordinava in tutto il territorio greco preparativi di difesa Soltanto il re spartano Agide osava tuttavia dichiararsi apertamente per la Persia, alla quale chiedeva soltanto di sostenerlo con navi e denari. La vittoria di Isso, aprendo ad Alessandro la via della Siria e della Fenicia, toglieva all'armata persiana il meglio delle sue forze, in seguito alla perdita dei contingenti fenici e ciprioti, passati ad Alessandro; onde, in breve volger di tempo, tutti i successi ottenuti nell'Egeo dai Persiani andarono perduti: dappertutto furono abbattuti i governi oligarchici e si fece atto di sottomissione alla Macedonia. Ma Sparta non si dava ancora per vinta: memore del suo grande passato, insofferente di far atto di sudditanza a uno stato che non molto tempo prima i Greci giudicavano ancor barbaro, aspettava che un'occasione propizia le desse modo di sottrarsi al fato ineluttabile. Dopo la battaglia di Isso, il re Agide si era recato in Creta, per creare qui una base di azione contro Alessandro, reclutando navi e soldati. Allora Antipatro scese senz'altro a guerra aperta contro di lui; Agide ritornò nel Peloponneso e prese l'offensiva (maggio 331). I Peloponnesiaci si divisero fra l'uno e l'altro contendente. Atene, tenuta in rispetto dalla ormai prevalente flotta macedone, si mantenne neutrale. Nell'autunno dello stesso anno, Antipatro, alla testa dei contingenti alleati, diede battaglia all'esercito spartano, presso Megalopoli, riportando piena vittoria. Agide stesso cadde con gran parte de' suoi (Diodoro, XVII, 62-63; Curzio Rufo, VI, 1-16). Come già verso Atene, Alessandro usò allora grandissima moderazione verso quest'altra gloriosa città: tutto fu perdonato, e solo si chiesero ostaggi agli Spartani, indennità di guerra agli Elei e agli Achei loro alleati. L'assoggettamento della Grecia era definitivamente compiuto; né alcun altro tentativo di defezione si ebbe a verificare fino alla morte di Alessandro.
Via via che Alessandro allargava le sue conquiste verso l'oriente, venivano sotto il suo scettro popolazioni che della dignità regia avevano una concezione totalmente diversa da quella dei Greci, Spartani o Macedoni che fossero: per i più degli orientali, il re non soltanto era tale per diritto divino, ma era creatura divina egli stesso, espressione della divinità; e con onori divini lo si salutava e lo si onorava. Alessandro, che aveva posto a base del suo programma di conquista il rispetto e l'adesione più piena alle costumanze e alle credenze dei popoli presso i quali giungeva, non poteva sconfessare questo concetto dell'autorità regale, peculiare e fondamentale negli orientali, strumento potente di coesione fra i popoli dell'impero. Dové accettare pertanto la venerazione divina che gli si rendeva; ci si abituò; i suoi straordinarî successi, il nimbo di gloria che lo avvolgeva, l'innato orgoglio gliela fecero giudicare naturale e quasi doverosa: non poté, a lungo andare, essere contemporaneamente persiano e greco, "despota orientale e re occidentale" (Ranke). Si straniò così dai suoi, ai quali volle, per di più, imporre il cerimoniale di corte persiano; sorsero malcontenti fra gli ufficiali macedoni, e alla fine una congiura (autunno 330). La cosa non fu grave; ma Alessandro si valse di essa per liberarsi dell'uomo potente al quale doveva, in gran parte, i suoi successi, e che, solo ormai fra tutti, gli manifestava e gli opponeva, ogni qual volta fosse necessario, da pari a pari, il proprio reciso giudizio: Parmenione. Il grande generale teneva del resto il re bene in sua mano: non solo egli era il primo dei suoi generali, amato e stimato da ufficiali e soldati, ma i suoi due figli, Nicanore e Filota, e altri suoi parenti comandavano i più importanti reparti dell'esercito e i posti militari più gelosi nel paese conquistato. Nicanore era morto durante l'inseguimento di Dario: restava Filota. Ch'egli prendesse parte alla congiura di cui abbiamo detto sopra, è poco probabile (v. le considerazioni del Beloch, Griech. Gesch., IV, 1, 21, n. 4); certo è però che, avendone avuta notizia, non ne avei.a avvertito il re. Alessandro fece, sotto questa imputazione, tradurre Filota dinnanzi all'assemblea dei soldati macedoni, la quale lo condannò alla pena capitale, come reo di alto tradimento. Parmenione era rimasto ad Ecbatana, al comando di una metà dell'esercito. Che cosa avrebbe fatto, quando avesse saputo ciò che era successo al campo del re? Alessandro ruppe ogni indugio: un ufficiale fu inviato, con l'ordine pei due luogotenenti di Parmenione, di uccidere il loro generale: questi fu trucidato nei giardini del palazzo reale; i soldati non osarono ribellarsi contro ciò che si era perpetrato per ordine del re (Arriano, III, 27; Diodoro, XVII, 80; Plut., Alex., 48-49). Alessandro aveva corso un grave pericolo: se il colpo non fosse riuscito, è impossibile prevedere che cosa sarebbe successo, data la potenza e il prestigio di cui godeva Parmenione presso l'esercito; l'avere egli provocata una tal crisi dimostra come fosse divenuta per lui insopportabile l'autorità e l'inframmettenza del suo generalissimo. Da questo momento la volontà di Alessandro non ebbe più a soffrire limitazioni od opposizioni da parte di chicchessia. Malintesi e malcontenti continuarono, però, fra il re e i suoi Macedoni, specialmente a causa della pretesa, che Alessandro avanzò di lì a poco tempo, di essere salutato anche dai Greci così come lo salutavano i sudditi orientali: col cerimoniale, cioè, del "bacio della terra". Alessandro non riuscì mai a vedere appagato questo suo desiderio; ma di tal contrasto furono episodî dolorosi l'uccisione di Clito (amico a lui dilettissimo e comandante di uno dei due reggimenti di ?ta????), ch'egli trafisse di sua mano, nell'ebbrezza di un banchetto, e la congiura promossa dal paggio Ermolao, e nella quale fu in qualche modo implicato anche il filosofo Callistene, che aveva seguito Alessandro come storiografo di corte: tutti i colpevoli, o i presunti colpevoli, furono condannati a morte e giustiziati. I due fatti avvennero rispettivamente nella primavera del 328 e in quella del 327, quando Alessandro si trovava nella Sogdiana, e dopo il suo ritorno a Bactra (Arriano, IV, 8 segg. e 13-14; Plut., Alex., 50 seg., 55).
La caduta di Persepoli e la morte di Dario segnavano la fine della missione che Alessandro s'era assegnata, di fronte ai Greci e ai Macedoni: il regno di Persia e i suoi dinasti, i secolari nemici dell'ellenismo, non erano più. Gia da Ecbatana Alessandro aveva rimandato indietro i contingenti federali, mantenendo soltanto in servizio i Greci come volontarî e mercenarì (Arriano, III, 19, 5 seg.; Plut., Alex., 42); anche i Macedoni consideravano la spedizione finita, e cominciarono per il re le difficolta di trascinarli più oltre (Diodoro, XVII, 74, 3). Alessandro si considerò ora non più come avversario, ma come continuatore della monarchia persiana, e giudicò di dovere anzitutto punire coloro che avevano tradito e ucciso Dario, il suo nemico, è vero, ma anche il suo predecessore sul trono ch'egli ora occupava: in primo luogo Besso, che frattanto s'era fatto riconoscere re col nome di Artaserse, ritirandosi verso i confini orientali dello stato. Inseguendo Besso, Alessandro attraversò e assoggettò l'Ircania (Khurasan sett.); dové poi dirigersi a sud, per domare la sedizione di Satibarzane, satrapo di Areia: quivi fondò la città di Alessandria (Harat). Attraverso la Drangiana (Afghanistan occidentale), nella cui capitale si svolse la catastrofe di Filota, e l'Aracosia (Afghanistan or.), giunse alla catena del Paropamiso o Caucaso indico (Hindukush), che l'esercito macedone superò con grandi difficoltà nella primavera del 329 (Curzio Rufo, VII, 4, 22 seg., descrive questo valico con tinte esagerate, che l'hanno fatto ravvicinare a quello alpino di Annibale). Besso fu alla fine raggiunto, nella Battriana, in vicinanza del fiume Osso (Amu Darya); Alessandro lo fece trasportare a Bactra, ove una corte di giustizia persiana lo condannò a morte, come reo di alto tradimento; la sentenza fu eseguita in Ecbatana (Arriano, III, 22-25; Plut., Alex., 48). Dopo aver assoggettata la Sogdiana e la regione dell'Iassarte (Sir Darya), abitata dagl'indomiti Massageti (dove fondò Alessandria Eschata, oggi Khagiand), ritornò a Bactra, ove passò l'inverno del 329-28; ma durante quella marcia, presso il fiume Politimeto, Alessandro perdé, in uno scontro coi Massageti, ben 2000 uomini: la perdita più grave che l'esercito di Alessandro abbia subita, nelle sue campagne d'Asia. Indi Alessandro si trattenne in Maracanda (Samarcanda), per consolidare il suo dominio nella Sogdiana (episodio di Clito); il che fu compiuto dopo la morte del satrapo ribelle Spitamene. In una delle fortezze da lui espugnate, Alessandro fece prigioniero il bactriano Ossiarte con la figlia Rossane, la quale egli fece sua sposa (Arriano, III, 28; IV, 22; Curzio Rufo, VII, 3; VIII, 4). Recatosi a Bactra (fine della primavera 327: congiura di Ermolao), Alessandro affrettò i suoi preparativi per la spedizione nell'India.
Sull'India correvano fra i Greci notizie favolose, e non pochi episodî della loro mitologia si facevano svolgere in quella terra misteriosa e meravigliosa: là Prometeo sarebbe stato incatenato alla rupe, là sarebbero giunti, nelle loro spedizioni, Dioniso e quell'Eracle dal quale Alessandro faceva discendere la propria origine. È naturale che Alessandro, anche se non fu mosso da impulsi mitologici di tale specie sentisse l'ambizione, più che naturale, di penetrare in quella regione, della quale si trovava ormai alle soglie: ed è forse superfluo discutere se Alessandro riguardasse fin da allora questa impresa come un viaggio di esplorazione e di consolidamento dei confini del suo regno, deciso però a non trasportarli più lontano (Niese), o se egli fosse senz'altro mosso dalla gigantesca idea d'un impero mondiale, i cui confini dovessero coincidere con quelli dell'Ecumene (Kaerst, Pöhlmann). Certo è che la spedizione non presentava difficoltà militari notevoli, a causa soprattutto del grande frazionamento politico degl'Indiani e dei dissensi e delle lotte che li dividevano e li armavano gli uni contro gli altri. Con alcuni di quei principi Alessandro già si trovava in relazione amichevole, come, ad esempio, col re di Tassila (Diodoro, XVII, 86, 4; Arriano, IV, 22, 6). Lasciato nella Battriana Aminta con una forte guarnigione, Alessandro valicò per la seconda volta il Paropamiso nell'estate del 327, conducendo seco un esercito di circa 40.000 uomini (la cifra di 120.000 uomini, data dalle fonti, è indubbiamente esagerata: v. Delbrück, Gesch. der Kriegskunst, I, 3ª ed., p. 219 segg.; Beloch, Griech. Geschichte, III, 11, 343), nel quale entravano ora per la prima volta in buon numero i contingenti forniti dai suoi nuovi sudditi orientali. Varcato l'Indo, nella primavera del 326, all'altezza del confluente del Kophen (Kabul), si fermò nello stato di Tassila, ben accolto da quel principe, per muovere di cui contro il comune nemico, Poro, re dei Paurava, il cui regno si estendeva ad oriente dell'Idaspe (Gelam). Passato il fiume, l'esercito di Alessandro vinse in battaglia campale le truppe nemiche: lo stesso Poro cadde prigioniero del vincitore (Schubert, Die Porusschlacht, in Rhein. Mus., LVI, 1901, p. 543 segg.; Delbrück, op. cit., I, p. 220 segg.). Alessandro lasciò il vinto a capo del suo regno e se ne fece un vassallo; sulle due rive dell'Idaspe furono fondate le due forti colonie di Bucefala e di Nicea (maggio 326). Dopo questa vittoria fu facile ad Alessandro procedere oltre sino all'Ifasi (Satlege), coll'intenzione di spingersi di qui fino al mare orientale, attraverso l'ignoto e misterioso paese che allettava il suo orgoglio non meno che la sua fantasia. E nulla in realtà gli avrebbe ormai impedito di arrivare fin là; ma Alessandro dové rinunziarve per l'opposizione passiva, ormai vicina a degenerare in aperta rivolta, del suo esercito, arrivato al massimo dell'esaurimento per gli strapazzi prodotti dal clima e dalle fatiche della guerra. E allora, eretti sulla riva del fiume dodici altari in segno di ringraziamento agli dei, prese la via del ritorno: all'idaspe trovò quasi pronta la flotta di cui aveva già ordinata la costruzione. Dopo avervi imbarcato una parte dell'esercito (ottobre 326), ridiscese il fiume e quindi l'Acesine (Cinab) e poi l'Indo sino alla foce, trovando difficoltà soprattutto nel vincere l'opposizione di carattere religioso dei Brahmani. Anche in questa regione furono da lui fondate parecchie colonie e l'India conquistata venne divisa in tre satrapie. Da Pattala, alla foce dell'Indo, ove Alessandro era arrivato nel luglio del 325, inviò una parte dell'esercito, al comando di Cratero, attraverso l'Aracosia (Afghanistan merid.), ad attenderlo nella Carmania (Persia di sud-est); egli stesso, col grosso, seguendo la via costiera della Gedrosia (Belucistan), si ricongiunse con Cratero nel dicembre dello stesso anno: contemporaneamente la flotta, al comando del cretese Nearco, aveva navigato lungo le coste dell'Oceano Indiano, arrivando fin nell'interno del Golfo Persico. Durante l'inverno Alessandro marciò col suo esercito attraverso la Perside: nel marzo del 324, dopo circa sei anni da che n'era partito, Alessandro rientrava in Susa (Arriano, IV, 22; VI, 28; Diodoro, XVII, 84-106; Curzio Rufo, VIII, 9; X; 10; Plut., Alex., 57-67: v. anche, Arr., Hist. Indica).
Era tempo che il re riprendesse di persona le redini del potere; durante la sua lunga assenza, mancando, in certo modo, un potere centrale, satrapi e governatori avevano soddisfatto più ai proprî interessi e alle proprie voglie che a quelli del re e dello stato; specialmente i primi, i satrapi indigeni, avevano continuato a seguire, a danno dei proprî amministrati, i sistemi già in uso sotto la corte persiana; ma anche parecchi dei comandanti e funzionarî macedoni o, in genere, greci, ne avevano seguito l'esempio; Arpalo, ministro delle finanze, aveva fatto man bassa delle casse dello stato, ed ora, all'avvicinarsi di Alessandro, era fuggito ad Atene. Qua e là erano scoppiate rivolte tra i popoli di recente sottomessi (più grave di tutte quella della Bactriana), e, in Media, era perfino comparso un usurpatore (Bariasse); ma questi erano episodi prevedibili e non preoccupanti, di fronte alla crisi del sistema di governo, alla quale urgeva porre rimedio. Dopo aver energicamente proceduto contro tutti i colpevoli, dopo avere, quasi dovunque, sostituito ai satrapi indigeni governatori macedoni, Alessandro si accinse immediatamente all'attuazione di quel programma, ch'egli giudicava indispensabile al consolidamento del suo impero universale: la fusione del popolo vincitore coi popoli vinti. Egli stesso ne aveva dato l'esempio, sposando Rossane: una ripetizione più rilevante di questo fatto furono le pompose cerimonie nuziali di Susa (primavera 324), destinate a celebrare il matrimonio di Alessandro con Statira, figlia di Dario, e con Parisatide, figlia di Ochos; mentre, contemporaneamente, ottanta dei migliori ufficiali macedoni si sposavano con altrettante nobili persiane. Anche l'esercito s'imbastardiva ogni giorno di più: accanto agli antichi reggimenti macedoni della guardia erano venuti a prender posto ora i nuovi contingenti persiani (30.000 giovani nobili persiani, fatti educare militarmente alla greca, chiamati Epigoni). Una gravissima rivolta di veterani macedoni, scoppiata in Opis, sul Tigri, nell'estate del 324, fece capire al re quanto fosse necessario procedere per tale via con estrema cautela (Arr., VII, 8, 11; Plut., Alex., 71; Diodoro, XVII, 109). Frattanto era rapidamente progredita la trasformazione della monarchia in senso orientale, manifestantesi nella pompa di cui il re si era circondato, nel cerimoniale e nella burocrazia di corte, nella poligamia adottata da Alessandro, e soprattutto negli onori divini ch'egli reclamò per la sua persona o per la sua immagine, non solo dagli orientali (per gran parte dei quali - non però per i Persiani - erano abituali), ma anche dai Greci; e i Greci, se non si erano potuti adattare al "bacio della terra", non esitarono ad innalzare a divinità il monarca macedone e, come a dio, a rendergli culto. (Su questo programma politico di Alessandro, vedi i principali giudizi dei moderni riassunti in Pöhlmann, Grundriss der griech. Geschichte, 5ª ed., 1914, § 147 segg.; e cfr. Beloch, Griech. Gesch., IV, 2ª edizione; I, p. 46 segg.).
Dopo aver sedato la rivolta dei veterani in Opis, Alessandro, seguendo la moda della corte persiana, si ritirò a passare l'estate nell'Alta Media. Ad Ecbatana, dette magnifiche feste con agoni musici e ginnastici; addolorato della morte dell'amico prediletto Efestione, e dopo aver condotto una spedizione contro il popolo montanaro dei Cossei, ritornò a Babilonia. Quivi lo aspettavano le legazioni venute da ogni parte della Grecia e dell'Occidente (anche dall'Italia), per salutarlo e per rassicurarlo che dovunque era stato ubbidito il suo decreto (letto solennemente nelle feste olimpiche del 324), che ordinava a tutti gli stati greci il richiamo degli esuli. Alessandro si era frattanto deciso ad assoggettare l'Arabia, con lo scopo di porre in diretta comunicazione la Babilonia con l'Egitto: già esercito e flotta erano pronti ad entrare in campagna, quando il re, colto improvvisamente da violenta febbre, moriva, dopo dodici giorni di malattia, il 13 giugno del 323, non avendo ancora compiuto i 33 anni, e dopo quasi 13 anni di regno (Arriano, VII, 25; Plut., Alex., 75-76). In questo breve periodo di tempo si compirono le gesta meravigliose, che aprirono un nuovo periodo nella storia dell'umanità e l'autore di esse ebbe dalla posterità il nome di Grande e fu annoverato nella schiera di quei pochissimi esseri che appaiono quali poderosi strumenti della provvidenza divina. Egli vinse quattro delle più grandi e significative battaglie della storia dell'antichità (al Granico, ad Isso, ad Arbela, all'Idaspe), ciascuna delle quali preparava un nuovo orientamento nelle condizioni del mondo; portò i concetti spirituali dei Greci ai più lontani confini allora umanamente raggiungibili; aprì ai traffici e alle attività umane nuove e insperate; favorì la cultura, in tutte le sue manifestazioni. Bello della persona, prestante nelle membra, appassionato per tutti gli esercizî ginnici, spiritualmente colto, i Greci videro in lui l'ideale umano quale essi solevano raffigurarlo impersonato dal loro dio Dioniso. Del suo popolo e della sua schiatta Alessandro aveva ereditato in alto grado le virtù e i vizî: coraggioso, sprezzante del pericolo, affabile, facile alle amicizie, generoso, fu, come il mitico suo avo Achille, subitaneo e violento, pronto a cedere alle più opposte passioni, all'ira come al dolore e al rimorso; ordinariamente temperato, non disdegnava di abbandonarsi, di quando in quando, insieme coi suoi ufficiali e coi suoi amici, agli eccessi del bere, nei banchetti protraentisi di solito per tutta la notte. Alle donne fu poco dedito, e piuttosto indulse all'amore pederastico, così diffuso allora presso tutti i Greci.
La critica moderna ha, in parte, seguito i giudizî e le valutazioni dell'antica, collocando Alessandro tra gli uomini più altamente e largamente dotati, esaltando senza riserva la sua figura e le sue imprese (Droysen); in parte ha lavorato in modo da ricondurre la sua personalità ad un livello assai più vicino a quello di molti altri uomini intelligenti e fortunati che a quello dei pochissimi genî. Di queste critiche la più severa (Beloch) ha negato che le imprese compiute da Alessandro richiedessero, per il suo autore, qualità eccezionali: dimostrando come la Macedonia e il suo esercito fossero già stati preparati, durante il regno di Filippo, a fornire gli uomini e gli strumenti adatti alla conquista dell'Asia, e come, d'altra parte, lo sfacelo politico e militare della Persia fosse progredito a tal segno ch'essa doveva, per forza, crollare, appena la Grecia, non più divisa, ma riunita (per opera di Filippo) e rivolta ad un solo scopo, si fosse proposta questo fine; facendo considerare come tutte le grandi vittorie di Alessandro (ad eccezione di quella dell'Idaspe) furono opera e merito esclusivo di Parmenione; come, infine, nell'opera di organizzazione dell'impero da lui conquistato, Alessandro non abbia dato alcun segno di originalità, se non nel tentativo, erroneo e fallito, della fusione del popolo greco col persiano. Per parte nostra, aggiungeremo che, in qualunque modo si voglia giudicare questa grande figura della storia, si dovranno riconoscere ad Alessandro le caratteristiche dell'"uom fatale", dell'uomo, cioè, che seppe o poté, con lo straordinario fascino emanante dalla sua persona, segnare e spianare la via agli eventi che si compirono in suo nome; sicché, se anche alcuni di coloro che operarono con lui e per lui gli furono superiori in determinati campi di attività, nessuno avrebbe potuto sostituirsi a lui nel raccogliere in sé l'opera di tutti, nel concludere il destino delle passate generazioni, nel preparare quello delle future.
Fu posto sul trono di Persia nel 335 dall'eunuco Bagoa che aveva assassinato il padre di lui Artaserse III e il fratello maggiore Oarse. Di Bagoa, deluso nell'aspettativa di sottomissione da parte del giovane re, si liberò costringendolo a bere il veleno che quegli aveva preparato per lui. Dotato di eccellenti qualità di governo, egli avrebbe forse infuso nuova vitalità alla dinastia achemenide, se sull'Impero persiano non si fosse abbattuta la violenza delle armi macedoni. Battuto a Gaugamela presso Arbela da Alessandro nella primavera del 331, dové rifugiarsi nelle provincie orientali lasciando che il Macedone s'impadronisse di Babilonia, Susa e Persepoli. Cercò di costituire un esercito nella Media ma il suo proposito fu troncato dalla morte che lo colse (luglio 330) per mano di due satrapi ambiziosi di succedergli.
ISSO
Per trent'anni le poleis greche avevano combattuto tra loro la guerra del Peloponneso (431 - 362 a.C.) e tutte ne erano uscite disgregate e vulnerabili, persino Sparta e Atene che ormai volgevano al declino. Dalla loro debolezza trasse vantaggio il piccolo regno settentrionale di Macedonia sul cui trono sedeva Filippo II Argèade. Messe in guardia dalle violente orazioni di Demostene, che da Atene tuonava contro l'arroganza di Filippo, le poleis greche si strinsero allora nella Lega Ellenica, che però fu battuta nel 338 a.C. a Cheronea, in Beozia, dalla cavalleria macedone: dalla Tessaglia al Peloponneso, la Grecia subiva il potere di Filippo II che, per provvedere alla pacificazione e al riordinamento del paese, promosse una Lega Panellenica, cioè una lega di tutti i Greci. Egli stesso ne assunse il comando e si propose come guida nella lotta che intendeva intraprendere contro la Persia, l'eterna nemica fin dai tempi di Maratona e Salamina. L'esercito panellenico era praticamente in marcia, e alcune avanguardie si trovavano già in Asia Minore, quando un oscuro intrigo di palazzo fece passare la corona sulla testa del principe Alessandro, terzo nel nome come re di Macedonia, che gli Elleni chiamarono subito Alessandro il Grande.
Il giovane sovrano, che era stato allevato nello spirito greco dal suo maestro Aristotele, continuò la politica del padre e nel 334 a.C., dopo aver sedato una serie di ribellioni contro il suo potere in Grecia, mosse contro l'impero persiano sul cui trono sedeva il gran re Dario III Codomanno.
La calda estate del 333 a.C. volgeva ormai al termine quando l'esercito panellenico guidato da Alessandro il Grande raggiungeva la Cilicia, nell'Anatolia sud-orientale, con l'intenzione di forzare gli accessi montuosi alla Siria per colpire il cuore dell'impero persiano. Da appena un anno il giovane re di Macedonia aveva ripreso il sogno paterno di intraprendere quella che egli considera una "nuova guerra di Troia" ed era sceso in campo contro Dario III, il gran re dei Persiani.
In mezzo all'Ellesponto aveva sacrificato un toro a Poseidone dio del mare e, messo piede in terra d'Asia, era voluto salire fino a Troia per rendere omaggio ad Atena Iliade. Poi, sicuro del proprio valore e del favore degli dèi, si era avventato contro i satrapi dell'Asia Minore, vassalli del gran re, e si era impadronito dei punti chiave della penisola anatolica. Le città greche della costa lo avevano accolto come un liberatore. Ma ciò che adesso il giovane condottiero si apprestava a fare era audace e pericoloso perché si lasciava alle spalle truppe nemiche ancora in armi e la flotta persiana intatta.
ISSO
Il periodo ellenistico si apre con le riforme alle dottrine e ai regolamenti dell'età classica, introdotte da Alessandro Magno, sulla base delle esperienze del secolo che va dalla guerra del Peloponneso al suo regno. Il fante della falange macedone aveva avuto, anzitutto, un alleggerimento delle varie parti del suo corredo di armi, uno scudo più piccolo e una lancia assai più leggera benché più lunga. Lo schieramento della fanteria in ordine di battaglia continuò a essere il sistema rigido che sino dai tempi «omerici» aveva avuto il nome di falange, ma questo stesso nome, almeno nell'uso moderno, indica appunto la regolamentazione della falange macedone, introdotta da Filippo II in base allo studio e alle esperienze di Epaminonda.
La falange macedone era caratterizzata da diversi nuovi fattori: la sarisa, detta di solito sarissa, una lunga lancia di circa 4,30 metri; la profondità dello schieramento che aveva raggiunto le 16 linee (l'uomo di prima linea che comandava tutta la fila conservava il grado di decadarca, suggerendo che l'originario schieramento fosse sulla profondità di 10 e non 16 linee); la maggiore flessibilità della falange, determinata dall'introduzione al centro dello schieramento di alcune linee di fanti leggeri e arcieri e dalla suddivisione della massa della fanteria falangitica in unità pari ai reggimenti, le taxeis, di 1500 uomini l'una, a loro volta suddivise in locoi, compagnie; l'accresciuta sicurezza, grazie alla protezione dei fianchi e della parte posteriore dello schieramento ottenuta con l'impiego tattico della cavalleria, delle fanterie leggere e, in caso di necessità, delle truppe speciali (arcieri e frombolieri).
Con questo nuovo sistema si erano rimediati alcuni dei gravissimi inconvenienti che impedivano all'antica falange oplitica di essere di qualche utilità nel combattimento in campo aperto su distese pianeggianti molto vaste. Però rimanevano altri inconvenienti assai seri. Di fronte a un attacco frontale, la falange macedone si presentava terribile per la serie di lance che sporgevano sulla sua fronte, micidiali per il nemico attaccante in avvicinamento. Però continuava a essere assai problematica ogni conversione, per la difficoltà di movimento su se stessi, sia parziale che totale, di uomini di armamento così ingombrante, tanto più che sui fianchi e a tergo non si potevano schierare uomini così scelti come i pezetairoi (fanti ad armatura pesantissima) e soprattutto i decadarchi della prima fila. D'altra parte, per assicurare qualche maggiore possibilità di manovra, le taxeis venivano tenute separate fra loro, ma, a questo modo, tra l'una e l'altra unità dovevano essere lasciati corridoi che, se erano utili per la manovra, servivano anche al nemico per infiltrarsi e impedire di tenere fermo l'allineamento.
In questo periodo venne inaugurato anche un nuovo tipo di fanteria pesante messo regolarmente in uso dai Macedoni fu quello composto dagli ipaspisti o Hypaspistai. Essi avevano uno scudo analogo a quello dei peltasti; cioè la piccola pelta rotonda o a forma di cetra, e il loro armamento, nell'elmo, corazza, schinieri e sarisa non differiva sostanzialmente da quello dei pezetairoi, gli opliti falangitici, ma si trattava di un corpo scelto, di particolare prestanza, destinato a rafforzare e trascinare la normale fanteria di linea della falange. Con questo rinforzo di truppe scelte, la falange macedone rimase, con Alessandro e con i re suoi successori, la base che consentiva il largo impiego di fanteria leggera e di cavalleria. Questi corpi si sentivano a loro volta appoggiati alle spalle da una fanteria che non decideva più le battaglie come faceva in epoca classica, ma le rendeva possibili, garantendo il massimo coefficiente di sicurezza tattica possibile.
In alcune battaglie di Alessandro Magno la fanteria pesante, sotto la sua guida personale, ebbe parti importanti, come accadde a Isso nel 333; in genere, però, questi furono casi nei quali fu sfiorata la sconfitta appunto per l'estrema difficoltà di far tenere lo schieramento a una truppa pesante, il cui ordine di battaglia era utile solo in una formazione molto serrata.
ISSO
Nell'evoluzione dell'arte greca della guerra del sec. IV si ha quindi quel continuo accrescimento di importanza delle fanterie leggere e della cavalleria, che già stava delineandosi alla fine del secolo precedente, mentre la fanteria pesante passa a una funzione di appoggio. Alessandro adattò, anche meglio di suo padre, i nuovi ordinamenti alle necessità della guerra su vaste distese di pianura, opponendo l'azione elastica e ardita della fanteria leggera persino alla cavalleria e ai carristi, facendo colpire i cavalli e scavalcare i cavalieri, o rovesciare le carrette da combattimento. Arcieri e frombolieri, insieme ai fanti leggeri e al loro giavellotto, furono spesso in grado di decidere i combattimenti. Alessandro aveva fanti leggeri e arcieri che furono gli autori della vittoria di Gaugamela, ove riuscirono a infrangere l'urto dei carri armati persiani. Con questi nuovi sviluppi dell'arte della guerra, sia al comando, sia nei ranghi occorsero uomini non solo dotati di muscoli, coraggio e buona fede, ma gente sicura di determinate tecniche, padrona dell'uso delle proprie armi, in sostanza gente del mestiere, come soltanto poteva ottenersi da ufficialità e truppe di professione.
Il trionfo del mercenarismo fu, quindi, anche una conseguenza delle nuove tecniche militari, almeno in egual misura di quanto fu la conseguenza di un nuovo corso economico e sociale per cui ormai non era più possibile distogliere i cittadini dai loro affari per mandarli a combattere, mentre era assai più vantaggioso assoldarne altri che combattessero al posto dei cittadini e con maggiore capacità e quindi efficacia.
Con Alessandro e dopo di lui, cavalleria e fanteria leggera decisero le guerre; ma nel corso del III secolo tutti ebbero eccellenti cavallerie, che finirono per neutralizzarsi a vicenda, lasciando così le fanterie falangetiche ad affrontarsi nuovamente all'uso antico. Alessandro Magno aveva cavalleria nella proporzione di 1 a 2 rispetto alla fanteria pesante, ma nel corso del III secolo si scese nuovamente sino alla proporzione di 1 a 8, divenuta abituale quando il nemico maggiore fu l'esercito romano, debole nella cavalleria e fortissimo nella fanteria. Il periodo aureo della cavalleria ellenistica fu quindi assai più breve di un secolo, e fu strettamente connesso con il periodo migliore dell'impiego degli arcieri, dei frombolieri e, in genere, della fanteria leggera. Alessandro sviluppò gli effettivi e l'importanza della cavalleria impiegandola in tutti i modi possibili, cioè in avanguardia (esplorazione, disturbo, combattimento di cavallerie contrapposte); in azione di appoggio e di carattere complementare (che poteva divenire decisivo) sui fianchi e sul tergo dello schieramento di fanteria; in attacco frontale per penetrare nello schieramento nemico e sconvolgerlo.
Dei tre impieghi della cavalleria il terzo era il più nuovo, il preferito di Alessandro, quello con cui la cavalleria divenne la forza decisiva delle battaglie. Alessandro aveva varie specialità di cavalleria fra cui i normali cavalleggeri di tipo tradizionale e poi altri che usavano una corta lancia, lo xyston, che si contrapponeva alla cavalleria persiana armata di corte spade e giavellotti. Quest'ultimo tipo di cavalleria ebbe poi varie specialità negli eserciti ellenistici, nei quali si ebbe anche cavalleria armata di solo giavellotto e di giavellotto e spada. Gli arcieri a cavallo non ebbero mai largo impiego negli eserciti ellenistici come ebbero in quelli dei paesi iranici. Inoltre si ebbe la cavalleria catafratta (corazzata), dando armatura al cavaliere e al cavallo, e armando l'uomo con la sarisa; si creava così la terza specialità della cavalleria, i lancieri corazzati, inattaccabili dalla fanteria, ma inevitabilmente senza scampo qualora disarcionati.
La cavalleria catafratta era anch'essa copiata da esempi asiatici, e si differenziavano i reparti corazzati con armature di piastra metallica e quelli difesi con cotte di maglia di ferro o di bronzo, combattenti soprattutto con le loro lunghissime lance e facendo conto su un elemento non sempre facile da ottenersi in larga misura, cioè cavalli di costituzione abbastanza robusta da poter sopportare la propria armatura e un uomo, pure pesantemente corazzato. Occorrevano cavalli di grandi dimensioni, e li si ottennero incrociando i grandi cavalli nesei, di origine asiatica, con cavalli libici, ottenendo esemplari di notevole robustezza muscolare e di grandi proporzioni senza cadere nelle varietà da tiro e da lavoro pesante.
ISSO
L'armata che Alessandro aveva portato con sé in Asia era il frutto di una lunga evoluzione dell'arte militare ellenica e in gran parte risaliva alle riforme militari di suo padre Filippo.
Il nucleo principale dell'esercito era composto dalla fanteria dei Pezetairoi, in massima parte di etnia macedone, che muniti di una picca lunga fino a sei metri, la sarissa, componevano la falange. A differenza delle città stato greche i Macedoni, noti come allevatori di cavalli da tempi immemorabili, avevano sviluppato anche una forte componente di cavalleria pesante, in specie i reparti d'elite degli Hetairoi (compagni); vari reparti di fanteria e cavalleria leggera, spesso di etnia non ellenica, fornivano la componente esplorativa e di mobilità dell'esercito.
L'esercito macedone si schierava sul campo suddiviso in tre corpi principali: l'ala destra di cavalleria pesante della quale facevano parte gli Hetairoi l'ala sinistra di cavalleria leggera composta in genere da Macedoni, Tessali o Greci mercenari; il centro composto dalla fanteria in cui si schierava la falange. Di solito, sulla destra della falange c'erano anche unità di Hypaspistoi ton hetairon, che avevano il compito di difenderne i fianchi vulnerabili. Nelle prime fasi di movimento le formazioni maggiori venivano precedute dalla fanteria leggera composta da frombolieri, arcieri e lanciatori di giavellotto.
Lo studio delle battaglie combattute dall'esercito macedone mostra uno schema tattico ricorrente che può essere definito "incudine e martello".
La battaglia veniva aperta da un deciso attacco della cavalleria pesante degli hetairoi contro il fianco sinistro dello schieramento nemico, mentre la cavalleria leggera assumeva un atteggiamento difensivo estendendo il fronte per prevenire un eventuale tentativo di aggiramento. Subito dopo si muoveva la falange volgendo contro il centro nemico e avanzando a scaglioni da destra.
Quando la pressione della falange cominciava a farsi sentire, la cavalleria pesante operava una conversione a sinistra diventando il martello che schiacciava il nemico sull'incudine costituita dalla linea dei falangiti, irta di picche.
L'esercito persiano, da par suo, era una vera armata internazionale nella quale confluivano numerosi mercenari di origine ellenica che combattevano con il tradizionale metodo oplitico.
La falange ellenica al soldo dei Persiani costituiva di solito il centro dello schieramento attorno al quale si disponevano le moltitudini della fanteria orientale, armata alla leggera. La cavalleria, di gran lunga più efficiente, era costituita da reparti pesanti e da arcieri montati, privi di protezione. La cavalleria pesante persiana era simile a quella macedone alla quale si ispirava e costituiva il punto di forza dell'esercito di Dario.
Il cavaliere persiano era protetto da una corazzatura di maglia o di piastre di ferro, sulla quale indossava un'ampia casacca tessuta o ricamata a vivaci colori; non è certo se sotto il copricapo di feltro, con cui le fonti iconografiche lo rappresentano, portasse o meno un elmo o, comunque, una cervelliera di ferro o di bronzo. L'armamento offensivo era costituito da due giavellotti o da una lancia (xiston) e un giavellotto; per il combattimento ravvicinato il cavaliere persiano disponeva di una corta sciabola ricurva da usare prevalentemente di taglio. Da nessuna fonte risulta che usassero lo scudo.
ISSO
Dopo la vittoria del Granico, Alessandro apparve, esattamente secondo le sue intenzioni, come il liberatore delle citta' greche dell'Asia; ma, nella realta' dei fatti, la vittoria del Granico, era semplicemente una delle prime tappe che avrebbero portato il giovane re macedone alla conquista di un impero sterminato. In effetti, nella mentalita' di Alessandro, il termine liberazione non era presente in maniera tanto forte da sopravanzare il deisderio di conquista effettiva, ed e' per questo che azioni come quella di Memnone, il quale, dopo essere sopravvissuto al Granico stesso, inizio' a supportare dal mare le citta' greche dell'Asia Minore che si opponevano all'invasione macedone, vennero in parte sostenute dalle poleis asiatiche stesse. D'altra parte pero' le capacita' del re macedone ed il suo forte carisma, impedirono a queste azioni di disturbo di divenire effettive e sostanziali. In effetti, riprendendo ancora il piano progettato dallo stesso Memnone, il tentativo di quest'ultimo di lasciare confinata l'armata macedone nell'entroterra senza rifornimenti, falli' per il supporto raccolto dallo stesso Alessandro presso quelle regioni, fatto che doveva far riflettere molto anche Dario in personAlessandro Caddero in sequenza Mileto, Magnesia, Tralles ed Alicarnasso, alcune senza difficolta' per i macedoni (Magnesia e Tralles), altre costarono molto di piu' in termini di perdite al re macedone (Mileto ed Alicarnasso), senza impedirgli di proseguire l'inseguimento di Memnone, che, per quanto non vincente, riusci', impieando prevalentemente forze navali, a dare il tempo alle forze persiane di accumularsi per prepararsi agli scontri successivi con i macedoni. Da par suo, Alessandro, approfitto' dello stesso tempo per consolidare la propria posizione: mando' a casa i soldati che si erano sposati da poco, inivo' ufficiali nel Peloponneso per reclutare forze aggiuntive, guidando nel frattempo parte delle sue forze nel sud-ovest dell'Asia Minore, dove impose il suo controllo; dopodiche' rivolse le sue attenzioni a nord della sua posizione, verso Gordium, dove si ricongiunse con le forze di Parmenione, inviato preventivamente nella zona per occuparla, e con le forze reclutate dai suoi ufficiali inviati in Grecia(3000 fanti, 300 cavalieri macedoni 200 Tessali e 150 mercenari Peloponnesiaci). Fu proprio nell'azione di Gordium che Memnone perse la vita, e questa mancanza, per le forze persiane, fu sentita talmente da convincere lo stesso Dario a scendere personalmente in testa alle proprie forze.
ISSO
Gli eventi in Asia Minore, forzarono quindi il re persiano Dario, non solo a prendere personalmente il comando delle operazioni persiane, ma anche ad assemblare un'armata talmente imponente da ammassare forse la cifra di circa 600,000 unita'. I moderni storici contestano una cifra cosi' grande per l'armata persiana, ma bisogna riflettere sul fatto che ogni armata del regno di Persia, veniva reclutato considerando ogni singola satrapia dell'immenso impero, e che necessitava, per essere raggruppato in un solo luogo, non solo di una certa quantita' di giorni, ma anche di un seguito, magari di solo supporto logistico, che faceva schizzare il totale degli uomini in movimento agli ordini di Dario. Al contrario, l'armata macedone era assai piu' "indipendente" di quella nemica, e quindi i numeri degli uomini che passarono l'Ellesponto al seguito di Alessandro non potevano che essere assolutamente inferiori ai persiani: le fonti storiche riportano spesso la cifra di circa 40,000 combattenti. Da par suo, Dario sperava che i soli numeri sarebbero bastati come deterrente, e per seguire questa sua convinzione, cerco' di far inoltrare le froze di Alessandro in piena Asia cosi' da circondarlo e quindi annientarlo. Come Alessandro continuava la sua marcia verso sud, in direzione delle "Porte di Cilicia", cosi' Dario risaliva la valle dell'Eufrate, entrando in Siria. Il suo obiettivo era quello di prevenire l'occupazione macedone di Tarso, e per conseguirlo invio' un suo ufficiale, Arsames, per bloccare il nemico proprio alle "Porte di Cilicia". Ma la forza assegnata ad Arsames non era adeguata allo scopo, tanto che una piccola unita' di cavalleria, guidata dallo stesso Alessandro, fu in grado di sbaragliare il nemico, e di salvare Tarso dalle fiamme in cui lo stesso ufficiale persiano avrebbe voluto avolgerla per non farla cadere integra in mano nemica. Nella stessa Tarso pero', Alessandro fu bloato da una febbre improvvisa, interropendo momentaneamente la marcia macedone e convincendo Dario che il nemico volesse evitare lo scontro in campo aperto. Si accampo' cosi' nei pressi di Sochi, l'odierna Antiochia in Siria, dove rimase anche dopo essere stato informato che Alessandro aveva ripreso la marcia, questo perche', in quelle regioni poteva contare su ampi spazi in cui la forza dei suoi numeri sarebbe stata un fattore di non poco conto. Ma di li' a breve, Dario vide una potenziale occasione per un colpo decisivo. Alessandro marcio' lungo la costa verso il piccolo porto di Isso, gia' occupato in precedenza da Parmenione, e li' vi lascio i feriti macedoni, per proseguire la sua marcia verso sud, passando le porte della Siria nei pressi dell'odierna Iskenderun. A questo punto Dario prese la decisione di evitare l'insuccesso alle "Porte di Cilicia" e tentare una manovra che separasse Alessandro dal grosso della sua armata: ma stavolta il re macedone aveva con se ben piu' che una singola unita' di cavalleria. Dario, persegui' on decisione il suo piano ma per far questo, dovette dirigersi dall'entroterra alla parte costiera della Siria, immettendosi in un territorio che morfologicamente parlando non favoriva affatto i grandi numeri dell'armata persiana: la striscia costiera offriva una piana non sufficientemente ampia per le esigenze tattiche orientali. Ancor peggiore fu la sorpresa, sempre immaginando che tale fosse, che Dario ebbe, nel momento in cui, occupando Isso, vi trovo' una sorta di ospedale militare, anziche' una buona parte delle forze di Alessandro, cosi' ordino' di massacrare tutti i macedoni feriti che fossero all'interno della citta'.
In realta' anche Alessandro fu stupito dalla mossa di Dario, e per avere conferma di questo mando' addirittura una trireme per verificare le mosse del suo avversario; una volta confermata la posizione del nemico, Alessandro non si lasciò intimorire né dal numero dei nemici né dal pericolo di rimanere tagliato fuori dalla costa e tornò sui suoi passi fino al fiume Pinaro, sulla cui riva destra si erano schierati i Persiani.
Il campo di battaglia sarebbe stato la piana tra il mare e la montagna, larga in quel punto appena un miglio e mezzo, ed entrambi gli eserciti si trovavano nella strana situazione di avere la propria linea di comunicazione sbarrata dal fronte opposto.
Durante l'avanzamento di Alessandro, Dario mandò avanti, a sud del fiume Pinaro, 30.000 cavalieri e 20.000 fanti leggeri, per proteggere il corpo principale mentre veniva schierato per la battaglia. Quando lo schieramento fu completato, questa linea avanzata fu ritirata e usata principalmente per rafforzare l'ala destra persiana.
L'esercito persiano aveva assunto una posizione difensiva, protetto dalle rive scoscese del fiume Pinaro fortificate ulteriormente con lavori di sterramento e palizzate. I 25.000 mercenari opliti, affiancati ai lati dai 60.000 della fanteria orientale armata alla leggera, costituivano il centro dello schieramento che avrebbe affrontato la falange macedone; sul fianco destro, quello appoggiato al mare, manovravano 50.000 cavalieri, mentre un contingente appiedato era stato inviato sulla sinistra per tentare un movimento aggirante. Dario disponeva certamente di un numero maggiore di fanti asiatici ma, a causa del campo limitato (il mare non era molto lontano alla sua destra, e le colline erano alla sua sinistra), questi erano stati relegati dietro le prime linee, scaglionati in profondità e disposti in linea continua per quanto lo stretto campo di battaglia permetteva. Dario aveva preso posizione al centro dello schieramento, alla guida del suo carro. La posizione centrale per i sovrani persiani in battaglia era usuale, infatti, da essa erano in grado di inviare gli ordini a qualsiasi parte dei loro eserciti di solito molto estesi.
La conformazione delle alture era tale che Dario, sulle colline, aveva disposto una formazione di fanteria orientale al di là del fiume, questa costituiva una minaccia per la destra di Alessandro (la linea persiana somigliava alla lettera greca gamma, Γ). Al centro, le unità di fanteria asiatiche, schierate secondo le diverse località da cui erano state reclutate, erano così densamente radunate che potevano difficilmente essere messe in azione. Riguardo all'entità delle forze in campo i 600.000 uomini attribuiti all'esercito di Dario (Arriano e Plutarco), nonostante siano un'esagerazione, non furono tutte effettivamente presenti sul campo di battaglia, dato il limitato spazio a disposizione per schierarle.
L'esercito di Alessandro, forte di 40.000 uomini, si schierò là dove la fascia costiera si allargava appena e si dispose in ordine di combattimento secondo uno schema tattico ben collaudato con la cavalleria sulle due ali dello schieramento. La linea di fanteria pesante che si dispose al centro era composta (da destra a sinistra) da tre unità di Hypaspistai al comando di Nicanore, dalle unità della falange guidate rispettivamente da Ceno, Melangro, Tolomeo, Perdicca e Aminta, i fedeli generali che condivisero l'impresa e la gloria di Alessandro, e la fanteria al comando di Cratero. All'estrema destra stavano gli arcieri di Antioco e gli agriani di Attalo, mentre alla sinistra stavano le truppe mercenarie greche e gli arcieri cretesi, che, insieme alla cavalleria Tracia, erano al comando di Sitalce. La cavalleria peonia e tessala era inizialmente posizionata sulla destra con quella macedone degli Hetairoi e i Prodromoi (cavalleria da ricognizione) di Protomaco, mentre a sinistra stava la cavalleria greca. La fascia sinistra dello schieramento era sotto il comando di Parmenione, mentre Alessandro era alla destra.
Mentre lo schieramento macedone avanzava lentamente verso il fiume, Alessandro spostò la cavalleria tessala sulla sinistra, che passò dietro le linee in avanzamento senza essere vista, per rinforzare l'ala sinistra di Parmenione. Infatti, Dario, aveva concentrato le cavallerie sulla destra, vicino al mare, dove il terreno pianeggiante favoriva il combattimento di cavalleria.
Allo stesso tempo, sulla destra, gli agriani con gli arcieri appoggiati dalla cavalleria (Peoni e Prodromoi) furono inviati verso la montagna per proteggere il fianco destro dallo schieramento nemico che minacciava l'aggiramento, e per cercare di accerchiare la sinistra persiana. Questi dispersero facilmente i persiani che cercarono rifugio più in alto sulle montagne, dove non rappresentavano più alcuna minaccia; tuttavia, 300 cavalieri furono distaccati per tenerli sotto controllo.
Il fronte macedone continuò il suo lento avanzamento cercando di mantenere l'allineamento. All'ultimo momento, Alessandro spostò due squadroni di cavalleria Hetairoi, rispettivamente di Peroidas e Pantordanos, dalla destra degli Hypaspistai e li mandò a rafforzare la sua fascia destra. Questa rettifica fu senza dubbio necessaria, dato che aveva già spostato la cavalleria tessala a sinistra. Anche questo spostamento fu fatto in modo tale da non essere osservato dal nemico, infatti, i due squadroni di Hetairoi apparentemente trovarono facilmente copertura tra i contrafforti che si estendevano verso il mare dalle colline dell'entroterra.
Quindi, arrivato a portata degli arcieri persiani, Alessandro lanciò il suo attacco sulla destra. Al comando degli Hetairoi attraversò il fiume e piombò sull'ala sinistra persiana che non resse all'urto.
Allo stesso tempo Dario lanciò la sua cavalleria all'assalto sulla fascia destra, come Alessandro aveva previsto spostando la cavalleria tessala per rinforzare l'ala sinistra di Parmenione contro la carica persiana.
La carica di Alessandro, tuttavia, portò troppo avanti gli Hetairoi che persero il contatto con il centro. Le sponde ripide e disuguali del fiume, insieme agli sterramenti e palizzate persiane, resero particolarmente difficile per le falangi mantenere compattezza e allineamento, e tanto meno il contatto con la cavalleria di Alessandro. Nel varco creatosi si incunearono i mercenari greci al soldo dei Persiani che, di lì a poco, sarebbero stati in grado di costringere le falangi a indietreggiare nel fiume e minacciare alle spalle la cavalleria macedone di Alessandro che aveva messo in rotta la sinistra persiana. Intanto, sul lato a mare, il terreno aperto favoriva la cavalleria persiana che si era lanciata all'attacco mettendo a mal partito quella tessala e greca di Parmenione che si mise sulla difensiva, tentando di resistere all'attacco persiano; anche lui rischiava di perdere il contatto con la falange centrale, rimanendo pericolosamente isolato.
Ma il centro macedone fu in grado di contenere l'attacco, pur soffrendo perdite significative, tra cui la morte di Tolomeo. Difatti, i macedoni riuscirono a difendersi dal pericoloso contrattacco e riuscirono a contenere il saliente che si era sviluppato alla loro destra, fino all'intervento di Alessandro. Questi, evitò che i suoi cavalieri commettessero l'errore di mettersi all'inseguimento della sinistra persiana ormai in disfatta e senza speranza di recupero, e, riorganizzata la sua cavalleria, la scagliò contro il fianco dei mercenari greci che furono travolti e costretti ad abbandonare la posizione lungo il fiume, mentre la falange riprese ad avanzare abbattendo la maggior parte di quelli che erano sopravvissuti all'impatto della cavalleria.
Invece alla sua destra l'esercito di Dario era vicino al successo contro l'ala sinistra macedone comandata da Parmenione. Qui, sulla spiaggia e sulla pianura adiacente, la preponderanza schiacciante nei numeri della cavalleria volse ovviamente a vantaggio persiano.
Ma la battaglia si stava decidendo al centro. Sotto i ripetuti attacchi della cavalleria di Alessandro e incalzati dalla falange, i mercenari greci al soldo di Dario cedettero, provocando la rotta generale della fanteria persiana che si ammassava alle loro spalle: in pochi minuti decine di migliaia di uomini, che ancora non avevano neppure combattuto, si ritiravano in gran disordine. In mezzo a loro anche Dario, il gran re, cercava scampo nella fuga. Vedendo l'esercito in rotta anche la cavalleria persiana, che pure verso il mare stava per avere la meglio, vacillò e si diede alla fuga. Infatti, qualsiasi tentativo di mantenere la posizione li avrebbe portati all'accerchiamento da parte della falange macedone e della cavalleria di Alessandro. La precipitosa inversione di movimento, di per sé, li gettò in confusione esponendoli così al contrattaco della cavalleria tessala che si mise subito all'inseguimento. La disfatta dell'esercito di Dario in questo settore divenne ben presto catastrofica.
La battaglia era virtualmente finita, ma il massacro era appena cominciato. La cavalleria macedone si gettò all'inseguimento dei Persiani, 100.000 dei quali secondo le fonti greche rimasero sul campo - ma si tratta di cifre da prendere con beneficio d'inventario - mentre le perdite macedoni sommarono a poco più di 1.000 uomini; tra la massa dei prigionieri c'era anche la famiglia imperiale che Dario aveva abbandonato fuggendo.
ISSO
Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, 17.32-36 (traduzione dell'autore)
17.32 Alessandro seppe che Dario era a sole poche giornate di marcia, quindi mandò Parmenione a controllare le porte di Siria. Dario mandò il suo bagaglio verso Damasco. Alessandro occupò Isso.
17.33 Quando gli esploratori riportarono che Dario era a solo 30 stadi di marcia e stava avanzando con tutto l'esercito in formazione di battaglia, Alessandro comprese che questa era l'occasione per "distruggere il potere persiano in una singola vittoria". Mandate le truppe leggere davanti alla falange egli prese il comando dell'ala destra col meglio delle sue truppe montate. La cavalleria tessala era sulla sinistra. Prima vi fu uno scambio di dardi tra le due formazioni, poi le trombe suonarono l'attacco e i due eserciti vennero a contatto.
17.34 La strategia di Alessandro e dei suoi compagni era quella di attaccare il gran re, e questo cercarono di fare. Gli ufficiali da ogni parte combatterono bene. Ci furono molti morti e molti feriti. Alessandro venne ferito ad una coscia. Quando i cavalli del gran re, terrorizzati dalla battaglia, minacciarono di sbalzarlo Dario salì su un secondo carro. A questo punto, Dario fu colto dal terrore e si mise in fuga con molti dei suoi uomini. Anche molta della cavalleria si diede alla fuga cercando scampo verso le città amiche.
17.35 I Macedoni allora si volsero verso il campo persiano dove presero molto oro. Anche molte donne persiane furono prese.
17.36 Fu una vista pietosa vedere queste donne, di nobili natali, essere condotte via come schiave. Particolarmente pietosa fu la vista della famiglia di Dario, la madre, la moglie, due figlie in età da marito e un figlio di sei anni. I paggi reali prepararono la tenda di Dario e prepararono ogni cosa in modo che egli [Alessandro] di ritorno dall'inseguimento potesse prendere le proprietà di Dario come una sorta di offerta per la conquista dell'Asia.
ISSO
Dario era riuscito a fuggire, ma la sconfitta subita ad Isso aveva lasciato aperta ai Greci la via della Siria e della Fenicia e aveva inoltre dato un colpo mortale alla fama di invincibilità sul suo territorio dell'armata persiana. Biblo e Sidone furono subito assoggettate e risparmiate, ma la superba Tiro, che volle opporre resistenza, venne distrutta dopo un assedio di sette mesi. Nel 332 a.C. il Macedone strappò l'Egitto al dominio persiano e i sacerdoti di Hammon-Ra lo riconobbero come faraone attribuendogli onori divini. Sul delta del Nilo fondò la città di Alessandria, la prima delle tante che battezzò col suo nome. Tornato in Siria nel 331 a.C., Alessandro sconfisse di nuovo Dario a Gaugamela, il "pascolo dei cammelli" sull'alto Tigri; poi, mentre il gran re trovava ancora una volta scampo nella fuga, raggiunse trionfalmente le capitali imperiali: Persepoli fu data alle fiamme con tutti i suoi tesori.
A Ecbàtana, la capitale estiva, Dario III venne assasinato nel 330 a.C. dal satrapo Besso, che si diede il titolo di re col nome di Artaserse IV, ma Alessandro, che si considerava ormai l'erede della dinastia persiana, lo inseguì a oriente fino al fiume Osso (Amu Darja), quindi lo catturò e lo Fece crocifiggere nel 329 a.C. Intanto conquistava il regno dei Parti e la Sogdiana, di cui sposò la principessa Ròssane, e nel 327 a.C. avanzava in territori sconosciuti corrispondenti agli odierni Afghanistan, Uzbekistan e Tagikistan.
Anche se si trovava ormai a 5.000 chilometri da Pella e a 3.000 da Babilonia, Alessandro continuò ad avanzare verso la valle dell'Indo e dei suoi affluenti, superando i limiti mai prima raggiunti da nessun altro conquistatore. Nel Punjab si scontrò con Poro, rajah di Lahore, e lo sconfisse sul fiume Idaspe (Jhelum); poi i suoi uomini si rifiutarono di procedere oltre per non essere inghiottiti dal "mare Oceano" che segnava il limite delle terre conosciute. L'avventuroso ritorno in Occidente, via mare e via terra, si concluse a Susa nel 324 a.C.; un anno dopo il grande Alessandro moriva a Babilonia mentre preparava una nuova spedizione verso l'Arabia. Aveva 33 anni e aveva regnato per 13.
Pubblicato il 15/04/2010
Bibliografia:
John Warry, Alexander 334-323 BC: Conquest of the Persian Empire, Osprey Publishing, 1991
LA STORIA vol. 2: La Grecia e il mondo ellenistico, Redazione Grandi Opere di UTET Cultura, 2004