Battaglie In Sintesi
26 settembre- 2 ottobre 1860
Giosuè Ritucci si arruola volontario nel 1807 partecipando a tutte le guerre napoleoniche. Il 4 novembre 1811 promosso sottotenente nel Secondo Reggimento Leggero e nel marzo del 1813 passa Tenente dei Granatieri dello stesso reggimento segnalandosi in modo distinto nella ripresa di Reggio Emilia, fu decorato Cavaliere dell'Ordine reale delle Due Sicilie. Continuò la carriera a Napoli sotto i re Borbone. Promosso capitano il 22 settembre 1826, ebbe la missione di catturare o distruggere una banda di briganti che turbavano le province di Palermo, Trapani, Caltanissetta e Girgenti, e li distrusse. Per il fatto fu decorato Cavaliere dell'Ordine di Francesco I il 28 ottobre 1836. L'8 aprile 1844 viene promosso maggiore del Secondo Cacciatori ed ebbe il comando delle Colonne Mobili, che a Nicastro, Catanzaro e Crotone si opposero al Brigantaggio. Il 25 gennaio 1848 fu ferito a una gamba nella rivolta di Palermo, ed il dodici agosto dello stesso anno, viene promosso Tenente Colonnello. Il 15 giugno 1849, Colonnello e prese il comando del Settimo di Linea. Il 21 dicembre 1853, promosso Brigadiere prende il comando della Brigata Carabinieri a Piedi e del Primo Svizzeri. Il 19 aprile 1860 venne promosso Maresciallo di campo. Ministro della Guerra del Regno delle Due Sicilie precedette il Generale Pianell e durante il ministero di quest'ultimo comandò la piazza di Napoli. Ma poco rimase al comando poiché fu sostituito dal Generale Cutrofiano il 28 agosto del 1860. Ritucci rimase fedele al Re Francesco II e, dopo aver guidato l'esercito nella battaglia del Volturno, andò con lui a Gaeta, dove fu governatore della fortezza quando venne assediata dalle truppe italiane. Dopo l'unione del Regno d'Italia fu chiamato alle armi, su consiglio dello stato maggiore tedesco, ma rifiutò dicendo: "Nella vita si giura una volta sola e io ho giurato fedeltà ai Borbone di Napoli!"
Secondogenito di Domenico, capitano mercantile, e di Rosa Raimondi; attratto dalla passione per il mare, fu dapprima mozzo sul brigantino Costanza, poi navigò con il padre e con altri armatori in Oriente. Comandava una nave propria, quando nel 1833 in una locanda di Taganrog, sul Mar Nero, informato da G.B. Cuneo di Oneglia dell'azione politica mazziniana fu «iniziato», come disse egli stesso, ai «sublimi misteri della patria» e decise di dedicarsi alla causa nazionale iscrivendosi alla Giovine Italia. L'anno stesso, a Marsiglia, fece la conoscenza di G. Mazzini. Imbarcatosi come semplice marinaio con il nome di Cleombroto sulla fregata Des Geneys, per collaborare alla rivolta che avrebbe dovuto facilitare la spedizione di Savoia, fallito il moto nel febbraio 1834, fu costretto a fuggire; riparato a Marsiglia vi apprese la sua condanna a morte (3 giugno). Si imbarcò allora per il Mar Nero; poi si arruolò nella flottiglia del bey di Tunisi. Ritornato alla metà del 1835 a Marsiglia, vi ottenne il comando in seconda di un brigantino diretto a Rio de Janeiro, dove giunse fra il dicembre 1835 e il gennaio 1836. Qui partecipò con altri italiani esuli alle riunioni della Giovine Italia. In seguito accettò con l'amico L. Rossetti di far guerra di corsa a favore dello Stato di Rio Grande do Sul, ribellatosi al governo brasiliano, e ne comandò poi la flotta da guerra. Al principio del 1842, costretto a riparare a Montevideo, portò con sé Anita, già compagna di vita e d'ideali, che divenne sua moglie. Ma subito riprese a combattere a favore di Fructuoso Rivera contro M. Oribe, sostenuto dal dittatore argentino J.M. de Rosas. Al comando di una flottiglia fu costretto dalla flotta argentina, presso Nueva Cava (15 agosto 1842), a cercare scampo a terra. Garibaldi ebbe il comando di una nuova flottiglia e, organizzata una legione italiana, risalì il Rio de la Plata; l'8 febbraio 1846 si segnalava brillantemente a S. Antonio del Salto. Richiamato a Montevideo (settembre 1846), gli giunse dall'Italia la notizia, significativa del maturarsi dei tempi propizi per la libertà, della rivoluzione di Palermo, che lo persuase a imbarcarsi, il 12 aprile 1848, con parte della legione. A Gibilterra, apprendendo che il re di Sardegna si preparava a intervenire contro l'Austria, decise di approdare a Nizza, dove, con sorpresa dei suoi compagni mazziniani, dichiarò «di non essere repubblicano, ma italiano». Accolto però freddamente dal governo sardo, al comando di un gruppo di volontari si batté a Luino (15 agosto), conquistò Varese, che poco dopo dovette abbandonare; resistette a Morazzone (26 agosto), e poi, premuto dalle soverchianti forze austriache, riparò in Svizzera. Tornato a Nizza, il 24 ottobre ne ripartì con alcune centinaia di volontari per la Sicilia, inviato da Paolo Fabrizi; ma, fermatosi in Toscana (25 ottobre - 8 novembre), offrì alla Repubblica romana il suo sostegno; tenuto dapprima in disparte, a Macerata, che lo nominò deputato alla Costituente, e poi a Rieti, fu chiamato a Roma per l'ultima difesa contro i francesi. Dopo il sanguinoso scontro del 30 apr. 1849 seguirono la breve campagna contro l'esercito napoletano, interrotta per volere di G. Mazzini, e l'assedio, conclusosi con la caduta della Repubblica. Garibaldi sfuggì all'accerchiamento e riparò a S. Marino (31 luglio) e da qui tentò di raggiungere Venezia ancora libera. Ma attaccato da navi austriache sbarcò sulla costa di Magnavacca (ora Porto Garibaldi), e, nel tragico inseguimento, vide morire la moglie Anita (4 agosto). Attraverso Romagna e Toscana riuscì a raggiungere il territorio piemontese, dal quale, senza proteste, accettò l'espulsione. Cominciava il suo secondo esilio (16 settembre). Ospite prima del console piemontese di Tangeri (novembre 1849 - giugno 1850), poi operaio in una fabbrica di candele a New York, riprese finalmente a navigare nell'America Centrale e tra il Perù, la Cina, l'Australia. A Londra, nel febbraio del 1854, rivide Mazzini e conobbe A.I. Herzen; ma a Genova e a Nizza fu conquistato dalla politica realistica del governo sardo. In seguito a un colloquio segreto con Cavour (13 agosto 1856), dichiarò pubblicamente di voler mettere a base dell'unità italiana la monarchia e aderì alla Società nazionale. Alla vigilia della guerra, il 2 marzo 1859, s'incontrò con Cavour per accordarsi sull'organizzazione dei volontari; e in quell'occasione conobbe Vittorio Emanuele. Al comando dei cacciatori delle Alpi, sconfisse il generale Urban sotto Varese (26 maggio) e a S. Fermo (27 maggio); protesse i fianchi dei franco-piemontesi ed entrò trionfalmente a Brescia (13 giugno). Gli avvenimenti che seguirono alla pace di Villafranca raffreddarono i rapporti fra Garibaldi e il governo sardo. Comandante in seconda delle truppe della lega militare formatasi fra Toscana, Romagna, Parma e Modena, passò nelle Marche per estendere in quella zona il movimento rivoluzionario, ma, richiamato dallo stesso Vittorio Emanuele, depose il comando, ritirandosi a Caprera, dopo aver lanciato a Genova un manifesto agli italiani di violenta critica alla politica piemontese. Nell'apr. 1860 gli giunse notizia della rivolta scoppiata a Palermo e, con il consenso tacito del governo, si pose a capo della missione nota come spedizione dei Mille, che partì da Quarto nella notte dal 5 al 6 maggio 1860. Tappe dell'impresa furono: lo sbarco a Marsala (11 maggio), la battaglia di Calatafimi (15 maggio), la presa di Palermo (27 maggio), la battaglia di Milazzo (20 luglio), il passaggio dello Stretto di Messina (19 agosto), la trionfale marcia attraverso la Calabria, l'ingresso a Napoli (7 settembre), la decisiva battaglia del Volturno (1-2 ottobre), l'incontro con il re a Teano (26 ottobre). Il 7 novembre entrò con Vittorio Emanuele a Napoli; sacrificando ogni ambizione alla soluzione sabauda, che sentiva necessaria per l'unità, il giorno seguente gli consegnò i risultati del plebiscito e il 9 ripartì per Caprera, rifiutando la nomina a generale e le ricompense concessegli. L'impresa che univa il Mezzogiorno al Piemonte per formare di lì a poco il regno d'Italia, apparve subito come l'azione politicamente risolutiva del processo risorgimentale; anche dal punto di vista tecnicamente militare, sia nello stratagemma della marcia avvolgente su Palermo, sia nella dislocazione e nella manovra delle forze al Volturno, Garibaldi rivelò le sue grandi qualità di comandante, esaltate dall'ascendente che esercitava sui suoi uomini. Intanto la morte di Cavour parve allontanare il compimento dell'unità italiana.
Le forze rivoluzionarie guardavano di nuovo a Garibaldi come all'uomo che sapeva osare, mentre U. Rattazzi cercava di ripetere, in modi assai più ambigui, la politica svolta con tanto successo da Cavour nel 1860. Dopo un vano tentativo di invasione del Trentino (Sarnico, maggio 1862), Garibaldi si recò a Palermo (28 giugno), lanciò un proclama contro la Francia, e al grido di «Roma o morte» marciò verso Roma; nell'Aspromonte (29 agosto) fu ferito e fatto prigioniero da soldati italiani. Amnistiato, nel marzo 1864 lasciò Caprera per Londra, dove ebbe incontri con Mazzini e con Herzen, oltre che con Palmerston, e misurò la propria straordinaria popolarità. Scoppiata la guerra del 1866, accettò però il comando dei volontari; entrò nel Trentino e li condusse alla vittoria (Monte Suello, 3 luglio; Bezzecca, 21 luglio). Dopo l'annessione del Veneto, Garibaldi sentì ancora più urgente la conquista di Roma. Fermato a Sinalunga (24 settembre 1867) da soldati italiani mentre organizzava una spedizione contro Roma, fu ricondotto a Caprera, ma, sfuggendo alla sorveglianza della flotta italiana, ritornò sul continente e il 23 ottobre passò il confine con i volontari accorsi all'impresa: a Mentana (3 novembre) le truppe francesi e pontificie lo costrinsero alla ritirata. Arrestato a Figline e condotto nella fortezza del Varignano, il 25 novembre fu imbarcato, virtualmente prigioniero, per Caprera, da cui salpò solo per partecipare alla difesa della Francia (1870), ottenendo una vittoria a Digione (21-23 gennaio 1871). Negli ultimi anni della sua vita fu sempre più incline a un socialismo di tipo umanitario e aderì all'Internazionale.
Conquistata la Sicilia, nuove difficoltà si affacciavano, innanzi tutto di carattere diplomatico. Le potenze europee avrebbero concesso a Garibaldi di passare lo stretto? Ora il governo borbonico aveva concesso la costituzione, aveva un ministero liberale! D'altra parte il Cavour era preoccupato della possibilità che Garibaldi in Sicilia si lasciasse influenzare dagli elementi di sinistra e iniziasse una vera rivoluzione sociale a vantaggio dei contadini. Ciò portava in primo piano la questione dell'immediata annessione della Sicilia al regno di Vittorio Emanuele: le classi abbienti vedevano nel Piemonte la garanzia contro il ritorno dei Borboni, e al tempo stesso contro pericolose rivendicazioni sociali. E il Cavour s'illuse per un certo tempo di poter arrivare al più presto all'annessione della Sicilia; non solo, ma dì poter provocare per mezzo dei suoi agenti la rivoluzione a Napoli prima che l'eroe passasse lo stretto. Allora la flotta piemontese sarebbe intervenuta, si sarebbero evitate altre pericolose incognite e la direzione del movimento italiano sarebbe passata alla monarchìa. Ma una mente acuta ed esperta come quella del Cavour s'ingannava sulla capacità d'iniziativa dei napoletani e sul completo sfacelo dell'esercito borbonico che avrebbe dovuto passare ai liberali. Cosi alla fine di luglio il Cavour, che sapeva vedere la realtà delle cose e adattare ad esse la sua politica, era tanto scosso nella sua precedente opinione che, pur non desistendo del tutto dall'incitare all'azione i suoi emìssarì e sperando pur sempre nella defezione dell'esercito napoletano, si adoperava segretamente con Vittorio Emanuele per sgombrare il passo a Garibaldi, malgrado tutte le minacce della diplomazia europea. Ancora una volta, alla fine di luglio, la situazione politica era giunta a un punto morto; e ancora una volta il Cavour aveva bisogno dell'opera di Garibaldi per procedere oltre lo stretto! D'accordo col suo ministro, il re, per mezzo del conte Litta-Modignani, faceva avere a Garibaldi un plico contenente due lettere; nella prima il sovrano esigeva dall'eroe che non passasse lo stretto, nella seconda si suggeriva la risposta da dare al re: il generale è pieno di devozione per Sua Maestà, ma i suoi doveri verso l'Italia non gli permettono d'impegnarsi a non soccorrere i napoletani, se chiamato da loro. Il Piemonte poteva così mostrare alle potenze che Garibaldi agiva di testa sua; ma ciò non bastava, bisognava impedire alle potenze marittime d'intralciargli il passaggio dello stretto. Napoleone mirava vivamente a conservare i Borboni nella penisola come stato costituzionale vassallo della Francia. Ma voleva restare tuttavia in buone relazioni con l'Inghilterra, e i ministri francesi proponevano un accordo navale tra Francia e Inghilterra per impedire a Garibaldi di varcare lo stretto. Lord Russell credeva veramente che il Cavour e il re fossero contrari al passaggio di Garibaldi, ed era pronto ad appoggiarli. Già a Napoli s'era stipulato l'accordo fra i ministri borbonici, l'ambasciatore e l'ammiraglio francese. Mancava il consenso del gabinetto inglese, ma si prevedeva che, col consenso di Palmerston e Russell, non ci sarebbe stata opposizione. Ma Cavour riusciva a parare il colpo e per mezzo di un esule pugliese a Londra, Giacomo Lacaita, poteva mettere a parte delle sue vere intenzioni il Russell poco prima che la convenzione venisse firmata. Il 25 luglio il gabinetto britannico decideva di respingere la proposta di opporsi alla volontà di Garibaldi, e il 26 il Russell avvertiva Parigi che il governo inglese riteneva di non dipartirsi dal principio del non intervento. E allora Napoleone III lasciava cadere la cosa. Garibaldi avrebbe dunque dovuto superare soltanto l'ostacolo della flotta napoletana. Proprio ai primi d'agosto la rivolta dei contadini in Sicilia si andava estendendo e sarebbe durata fino ad ottobre. Grave e sanguinoso era stato l'episodio dì Bronte alle falde occidentali dell'Etna; questa grande proprietà fin dal 1798 era stata concessa dai Borboni all'ammiraglio Nelson col titolo di duca, per ingraziarselo in vista della guerra della seconda coalizione, ed era poi passata in eredità al fratello di lui. Già durante la rivoluzione del 1820 i contadini rivendicarono i loro diritti sulle terre che i Borboni avevano concesso al Nelson come proprietà privata, mentre queste appartenevano alla popolazione. E ora il paese si trovava diviso in due partiti: i fedeli al duca, e coloro che ritenevano che, caduto il governo borbonico, dovesse cadere anche la concessione fatta al Nelson e che le terre andassero distribuite ai contadini. Lo stesso Garibaldi il 2 giugno aveva decretato che fossero confiscati tutti i beni dei cittadini stranieri che avessero aiutato i Borboni. Nel luglio si ebbero a Bronte le elezioni per la ricostituzione del consiglio civico. Ma i fedeli del duca riuscirono a ottenere la maggioranza e la Guardia Nazionale risultò composta di 4 compagnie, 3 della fazione del duca e una di contadini. Questi richiesero la divisione delle terre. E il 2 agosto la folla insorse gridando « Vogliamo la divisione delle terre! » I capitani della Guardia Nazionale si eclissarono, la Guardia si sciolse e i benestanti si nascosero o fuggirono. Vi furono saccheggi al grido di «Viva Garibaldi, viva l'Italia! », poi si ebbe Pincendio dell'archivio comunale e cominciò la caccia ai «galantuomini», esosi e sfruttatori. Fu ucciso il notaio Cannato, poi il di lui figlio, quindi l'avvocato Mauro, e altri considerati nemici della povera gente; e molti erano imprigionati. E intanto altri moti scoppiavano a Randazzo, a Linguaglossa, ad Adernò, a Castiglione, a Centurìpe, a Maletto, insomma in gran parte della zona attorno all'Etna. Il 5 agosto, dietro richiesta del console inglese e di alcuni fuggiaschi, era mandata da Catania a Brente una compagnia di soldati col colonnello Poulet che iniziava il disarmo dei rivoltosi. Ma il console inglese voleva ben altro e si rivolse a Garibaldi, che vi mandava Nino Bixio. Questi già aveva inviato parte delle sue forze negli altri paesi in rivolta, e il 6 giungeva a Bronte. Alla vista degli incendi che ancora ardevano e degli orribili massacri si mostrò sdegnato della mitezza del colonnello Poulet: proclamò lo stato d'assedio coll'ordine di consegnare tutte le armi, pena la fucilazione, per i detentori di queste; e creò una commissione speciale per giudicare i capì della rivolta. Il 10 agosto, dopo sommario processo, l'avvocato Nicolo Lombardo, capo della rivolta contadina, era fucilato insieme con altre quattro persone; altre 316 persone erano rinchiuse nelle carceri di Bronte, e tre anni dopo la Corte d'Assise di Catania condannava all'ergastolo 37 tra i principali esponenti della rivolta! Il Bixio non aveva la minima idea dei problemi e delle necessità delle terre che pur era corso con tanto mirabile valore a liberare, e tanto meno della mentalità degli abitanti. Per lui occorreva fare l'Italia e ogni ostacolo di qualsiasi genere all'impresa doveva essere abbattuto in qualsiasi modo. D'altra parte Garibaldi mirava soprattutto a sbarcare nel continente per raggiungere Napoli e proseguire verso Roma: quello era il problema urgente e immediato.
Garibaldi poté sperare anch'egli che la dissoluzione delle forze borboniche fosse ormai cominciata. Ma dei soldati imbarcati a Milazzo pochissimi, esclusi quelli d'artiglieria, avevano risposto all'invito a fraternizzare, e a Napoli la corte, dopo la concessione della costituzione avvenuta il 25 giugno 1860 (o meglio rimessa in vigore, perché nel '48, dopo il 15 maggio, era stata sospesa, ma non abolita), non intendeva assolutamente rinunziare alla terraferma. Del resto, se gli elementi liberali andavano prendendo animo, l'esercito era pur sempre attaccato al sovrano. In Calabria c'erano 16.000 uomini dislocati fra Monteleone e Reggio; e c'era la flotta da guerra che vigilava nello stretto, cosicché per tre settimane Garibaldi si trovò al capo Pelerò (o capo Faro) a nord-est di Messina, nel punto ove lo stretto non è più largo di tre chilometri, senz'essere in grado di risolvere il problema. Lo videro spesso aggirarsi pensieroso senza confidarsi con nessuno, neppure coi più fidi; per di più di fronte alla costa sicula erano i due piccoli forti di Torre Cavallo e di Altifiumara. Il patriota calabrese Benedetto Musolino riusciva di notte a varcare lo stretto e ritenne che, all'arrivo dei garibaldini, nel forte di Altifiumara sarebbero state aperte le porte. Cosicché la notte dell'8 agosto, 200 uomini scelti guidati dal Musolino traversavano in barche a remi lo stretto, sfidando la crociera borbonica, e sbarcavano sulla costa calabra. Ma dal forte si dava l'allarme e si faceva fuoco e i volontari dovevano prendere la fuga su per la montagna dell'Aspromonte. Il grosso che doveva seguirli tosto rimase in Sicilia. Per dieci giorni quegli animosi errarono per la montagna forniti a volte di viveri dal comitato di Reggio, col tacito consenso del nuovo intendente; quindi alcune squadre di contadini calabresi vennero a ingrossarli, guidati da un altro maggiorente della zona, Agostina Fiutino. E ora il Missori prendeva il comando della piccola colonna. Ma un tentativo verso Bagnara, a oriente di Scilla, falliva; anzi, il 15 agosto, il generale Ruiz con 2 battaglioni era messo alle calcagna del Missori. Già nelle altre due province calabresi serpeggiava la rivolta e il 16 si aveva in Basilicata la famosa sollevazione di Corleto; ma nella parte sud occidentale della penisola c'erano 16.000 uomini e il regno poteva forse disporre ancora di 80.000! Per di più i siciliani ormai si sbandavano a centinaia a Messina e al Faro. Ma, il 18 agosto, Garibaldi si fa vedere ostentatamente a capo Faro; quindi si reca nello stesso giorno a Giardini oltre Taormina, a circa cinquanta chilometri a sud di Messina. Ivi sono le forze di Bixio e dell'Eber, e ci sono due piroscafi, il Torino e il Franklin, che hanno fatto tutto il giro dell'isola per evitare la crociera borbonica. E già hanno imbarcato i volontari, cosicché alla sera di quello stesso 18 agosto le navi partono e la mattina dopo i volontari con Garibaldi sbarcano a Porto Salvo presso Melito, trenta chilometri a sud-est di Reggio Calabria; la flotta borbonica si trovava nello stretto di Messina e al suo arrivo, nel pomeriggio, i garibaldini sono già sbarcati. Il Franklin è tornato in Sicilia e i borbonici possono solo sfogarsi a distruggere il Torino arenato.
In Calabria ci sono, come sappiamo, 16.000 uomini e ne ha il comando il generale Vial che ha fissato però il suo Quartier Generale a Monteleone (oggi Vibo Valentia), nella provincia di Catanzaro, troppo lontano quindi dalla zona dello stretto; quivi la difesa è nelle mani dei due generali Melendez e Briganti. Ma le forze sono dislocate lungo la costa da Monteleone a Reggio, e a sud di Reggio non ci sono truppe. Per di più nella stessa Reggio non ci sono che 1000 uomini, quasi tutti del 14° fanteria. Sebbene da Napoli, avuta notizia dello sbarco di Garibaldi, si insista perché si concentrino le forze contro di lui, nulla viene fatto; in Reggio poi il generale Callotti, inetto, non fa preparativi di sorta, proibisce anzi al colonnello Dusmet dì prendere una buona posizione in alto, presso il castello, e gli ordina di concentrarsi coi suoi nella piazza della cattedrale. Per di più gli ingressi della città sono dati a difendere alla Guardia Nazionale liberale, che ha sostituito da poco la vecchia Guardia Urbana reazionaria. Il 20 i garibaldini, che già il 19 sera hanno preso contatto con la colonna Missori, sono in marcia verso Reggio e a mezzanotte viene sferrato Pattacco: Garibaldi con gli uomini di Missori agisce per l'alto, mentre Bixio col grosso avanza lungo la strada maestra. La Guardia Nazionale non oppone la minima resistenza; quando però le forze del Bixio stanno per entrare nella piazza della cattedrale i soldati borbonici aprono il fuoco e Bixio è ferito due volte al braccio e il cavallo colpito da un'infinità di baionettate; ma cadono anche il colonnello Dusmet e il figlio. Garibaldi dall'alto con manovra avvolgente sta per tagliare la ritirata, cosicché il 14° di linea si ritrae in fretta verso nord. All'alba Reggio è presa, all'infuori del castello. Nel mattino il generale Briganti avanza con 2000 uomini da Villa San Giovanni verso Reggio, ma dopo pochi colpi retrocede. Le truppe del castello hanno chiesto invano al generale Callotti di uscire a combattere per prendere fra due fuochi i garibaldini! Alla sera l'inetto Callotti si arrende. I garibaldini non hanno avuto che 150 uomini fra morti e feriti. E intanto nella notte del 21 agosto, al rumore del combattimento attorno a Reggio, il Cosenz lasciava con una flottiglia di barche la punta del Faro colle truppe lì riunite, 1000-1500 volontari, fra cui non pochi inglesi e francesi, e girando al largo del forte di Scilla sbarcava a Favazzina; quivi però i garibaldini si trovavano presi in mezzo fra le truppe borboniche di Scilla e quelle di Bagnara. L'attacco era respinto, ma il Cosenz riteneva opportuno salire a Solano sulle pendici dell'Aspromonte. Se non che si trovavano alle prese coi 2 battaglioni del Ruiz di ritorno dalla vana caccia data ai volontari del Missori. Ne seguiva un combattimento violento e alla fine i borbonici erano respinti. Moriva ora il repubblicano e patriota francese De Flotte, anima generosa e ardita. La colonna Cosenz riteneva però opportuno portarsi sempre più in alto fino ai Forestali, divenuti dolorosamente famosi due anni più tardi, ma ben presto doveva ridiscendere al basso per un'azione combinata preparata da Garibaldi, avente come obbiettivo l'avviluppamento a Villa San Giovanni delle truppe dei generali Briganti e Melendez, riunite per impedire sia l'ulteriore avanzata dell'eroe, sia il passaggio dello stretto da parte del grosso della divisione Medici. In Villa San Giovanni il generale Briganti aveva 2500 uomini, e 1200 col Melendez si trovavano sui poggi di Piale un po' a nord; ora Garibaldi avanzava da Reggio per avvolgere queste forze con un ampio accerchiamento dall'alto, di concerto col Cosenz. Due soluzioni si presentavano al generale Vial, comandante delle forze da Monteleone a Reggio: accorrere subito a sostegno dei due generali o prescrivere loro un sollecito ripiegamento verso Scilla; e va da sé che la prima soluzione sarebbe stata di gran lunga migliore; e giustamente il Pianell telegrafava in questo senso. Il 22 il Vial finalmente si muoveva, ma con un solo battaglione. Egli volle tuttavia precedere tale reparto e si portò a Villa San Giovanni per conferire col Briganti e col Melendez; ordinò loro di continuare la resistenza assicurandoli che avrebbe fatto sbarcare a Scilla il battaglione imbarcato a Pizzo e Io avrebbe condotto avanti di persona. Ma tornato a Scilla, e visto difficile lo sbarco per un improvviso ingrossarsi del mare, fece di nuovo spiegar le vele fino a Pizzo, abbandonando al loro destino i due generali, senza neppure avvertirli della nuova decisione: contegno veramente disgustoso! I due disgraziati generali avrebbero dovuto essere sostenuti anche dai due battaglioni del generale Ruiz, che, come sappiamo, erano andati alla caccia degli uomini del Missori, e che nel retrocedere dalla vana impresa s'erano battuti a Solano cogli uomini del Cosenz, e in seguito erano ridiscesi sulla strada costiera dirigendosi verso Villa San Giovanni. Anche il Ruiz volle precedere le sue schiere e arrivò da solo a cavallo a Villa San Giovanni. Qui ebbe l'impressione, o almeno questo disse a sua giustificazione, che i soldati fossero ormai al culmine dello scoraggiamento, e sentì voci secondo le quali il generale Briganti non intendeva più resistere e voleva venire a patti con Garibaldi. E allora retrocesse per non coinvolgere anche le sue truppe nell'imminente sfacelo e le riportò a Bagnara, quasi venti chilometri a nord-est di Scilla, Da Napoli gli giunsero telegrammi indignati ed egli depose allora il comando. Il suo successore sì rimetteva dì nuovo in cammino la mattina del 23, per San Giovanni, ma veniva arrestato a mezza strada da un messaggero speditogli dal Melendez stesso: le truppe di Villa San Giovanni e di Piale erano state circondate dai garibaldini, dopo aver invano atteso rinforzi dal Vial e dal Ruiz e aver per questo perduto l'occasione di ritirarsi tempestivamente! Di fatto nella notte dal 22 al 23 l'azione convergente delle schiere di Garibaldi da un lato e dì quelle del Cosenz dall'altro, aveva serrato in un semicerchio i borbonici, 3500 o 3800 uomini; quindi, alle prime luci, le schiere garibaldine avevano preso a scendere dalle alture in perfetto ordine, incuranti del fuoco nemico; ciò aveva finito col demoralizzare i soldati; e sebbene un parlamentare garibaldino con bandiera bianca venisse colpito e ucciso, il generale Briganti in persona uscì dalle file e propose la resa con gli onori di guerra, dichiarando di trovarsi legato ai Borboni, ma d'essere in fondo di sentimenti liberali. Garibaldi pretese la resa incondizionata per le tre, e solo concesse che fossero avvertite e non coinvolte nella resa le truppe già del Ruiz. Scaduto il termine concesso, Garibaldi mise di nuovo in movimento i suoi; i regi cercarono confusamente di fuggire verso Scilla lungo la strada, ma ai primi colpi nemici retrocessero confusamente nel paese. Allora l'eroe avanzò a cavallo in mezzo a loro, ricordò che erano tutti figli d'Italia, e che chi voleva passare ai garibaldini sarebbe stato ben accolto; altrimenti erano liberi di tornarsene alle loro case. Pochissimi si unirono ai garibaldini, ma la massa parve felice di tornarsene a casa. Restarono ai vincitori 4 pezzi d'artiglieria da campagna, nonché il forte di Pezzo con tutta la sua artiglieria.
Il giorno dopo aprivano le porte a Garibaldi il forte di Altifiumara, quello di Torre Cavallo e il robusto castello di Scilla armato di 24 cannoni. Le artiglierie di questi forti e fortini valevano a far retrocedere dallo stretto le forze napoletane, e allora anche la piccola divisione Medici poteva imbarcarsi a Messina per sbarcare poi presso Nicotera. Ora di fatto aveva inizio il vero sfacelo dell'esercito napoletano, non perché i soldati fossero presi da un morboso timor panico, ma perché dal timore di Garibaldi e da quello dell'insurrezione premente ai fianchi e alle spalle si trovarono più che mai presi i mediocri e spesso addirittura inetti generali borbonici. Anche in Calabria i contadini si sollevavano, sia nella speranza di migliorare le loro condizioni, sia perché mossi da un sentimento di devozione feudale verso alcuni dei maggiorenti della regione, come i Fiutino e i Musolino a Reggio, lo Stocco a Catanzaro, il Morelli a Cosenza, il Pace a Castrovillari. Erano gli stessi patrioti che avevano sostenuto nel 1848, sia pure con scarso coordinamento delle loro azioni e senza alcun programma sociale, la ribellione contro Ferdinando II, dopo i fatti di Napoli del 15 maggio, e avevano infuso nei loro contadini un certo spirito liberale e patriottico, insieme col sentimento dell'odio verso il malgoverno e la tirannia dei Borboni. I calabresi erano poi agili montanari e molto spesso abilissimi cacciatori e tiratori. I loro capi del resto non erano solo dei buoni patrioti, ma persone d'innegabile valore e a volte anche buoni condottieri. Nell'insieme la Calabria ebbe 10.000 insorti m armi, e di questi circa 4000 si trovarono alla battaglia del Volturno. Il 26 agosto, alla notizia dei nuovi grandi successi garibaldini, Catanzaro insorgeva proclamando il governo di Garibaldi, e il giorno dopo i montanari della zona circondavano e disarmavano la guarnigione della città in ritirata verso Nicastro, mentre le bande dello Stocco, 5 o 6000 uomini, si accampavano sulle colline sulla destra dell'Angitola (dove già si era combattuto nel '48), presso il ponte della strada maestra, per sbarrare la ritirata alle forze del generale Vial, che sommavano pur sempre a 12.000 uomini. Il Vial era rimasto in Monteleone, e in verità il Pianell aveva tardato a dargli l'ordine della ritirata. Avrebbe però potuto tentare di aprirsi il passo verso Cosenza, mettendosi in testa alle sue schiere pur sempre molto numerose, ma preferì imbarcarsi sul solo piroscafo che si trovava nelle acque di Pizzo, portando seco un migliaio di soldati e abbandonando tutti gli altri: la seconda vigliaccheria in meno d'una settimana! Il generale Ghio ebbe la triste eredità di tentare d'aprirsi il passo. Garibaldi non aveva incalzato immediatamente perché aveva voluto esser presente allo sbarco delle forze del Medici alla marina di Nicotera. Nella cittadina era giunto in quello stesso giorno, il 26, un corriere del generale Ghio, il quale chiedeva il passo libero per Napoli e gli onori dì guerra; l'eroe rispondeva esigendo la resa incondizionata. E il 27 si rimetteva in cammino. Giunti a Mileto, a una dozzina di chilometri da Monteleone, nel mezzo della via principale i garibaldini scorsero una vasta pozza di sangue e i resti carbonizzati di un cavallo. Due giorni prima i soldati borbonici che si andavano concentrando verso Monteleone avevano riconosciuto il generale Briganti, che vestito da borghese e a cavallo tentava di passar oltre inosservato. Inferociti gli si erano fatti addosso chiamandolo traditore e tempestandolo di colpi d'arma da fuoco; poi avevano spogliato il povero cadavere inferocendo anche su quello, e avevano bruciato il cavallo. Questo fatto, pur nella sua spaventosa ferocia, mostrava lo sdegno dei soldati borbonici che si vedevano abbandonati dai loro comandanti inetti e vili; era una forma di protesta dei cafoni meridionali per molti dei quali l'esercito borbonico rappresentava pur sempre un pane e una condizione di vita e una protezione contro l'egoismo feroce di molti elementi del ceto abbiente.
Nel pomeriggio del 27 stesso Garibaldi raggiungeva Monteleone ove riceveva un'accoglienza trionfale. Ma purtroppo per lo strano fraintendimento di un messaggio del Sirtori, capo di Stato Maggiore di Garibaldi, lo Stocco aveva inteso che le forze del Ghio, avendo aderito alla causa nazionale, dovevano avanzare liberamente; e le aveva quindi lasciate passare, ed esse procedevano ora per l'interno verso Nicastro e lo spartiacque della provincia di Cosenza. Bisognava raggiungerle e tagliar loro la strada. Il 28 agosto Garibaldi si rimetteva in cammino per incalzare l'esercito fuggitivo, ma per fortuna, il 27 agosto, anche Cosenza era insorta, aiutata dalle bande dei dintorni, costringendo il presidio di 3000 uomini a ritirarsi verso Napoli, pur conservando le armi. Le bande poi s'erano avviate verso il passo presso Soverìa Mannelli per sbarrare la via alle truppe del Ghio; nel timore che se questi avesse potuto unirsi alla guarnigione di Cosenza, i patti non sarebbero più stati rispettati. In questo modo il Ghio si trovava sbarrato il passo dalle bande di Cosenza e di Castrovillari, mentre quelle di Catanzaro, con lo Stocco, lo incalzavano e dietro ad esse avanzavano, cercando d'accelerare i tempi, le schiere garibaldine. Il Ghio si trovava dunque la strada sbarrata da alberi abbattuti e da trincee costruite in fretta dalle bande, e già demoralizzato com'era, fece sosta un po' sotto lo spartiacque nell'altipiano di Soveria, senza nemmeno curare di disporre avanguardie e retroguardie, come un uomo rassegnato al suo fato; e lo stesso atteggiamento prendevano gli ufficiali e i soldati. La mattina del 30 Garibaldi, precedendo i suoi a cavallo, sì era unito allo Stocco e via vìa che le bande giungevano le avviava sulla costa, a destra, per compiere l'aggiramento delle truppe del Ghio, che assistevano alla marcia dei loro avversati in modo impassibile e fatalistico; pure, quando Alberto Mario prima, poi l'inglese Peard, e in seguito, da parte degli insorti cosentini, l'ex prete Bianchi, sì presentarono al Ghio chiedendo la capitolazione, una parte dei soldati si mostrò sdegnata della cosa. Ma dopo mezzogiorno l'aggiramento da parte dei calabresi era quasi compiuto, mentre cominciavano a giungere i garibaldini del Cosenz. A questo punto, come a Villa San Giovanni, Garibaldi ordinò a tutte le schiere di avanzare serrando il cerchio. E allora sì manifestò il collasso: senza resistenza né vera capitolazione i soldati cedettero le armi, compresi i 12 cannoni, e si sbandarono per tornare alle loro case. Garibaldi poteva annunziare al mondo che coi suoi calabresi aveva fatto abbassare le armi a 10 000 soldati borbonici. E ormai per il dittatore non sì trattava più d'avanzare tappa per tappa, ma di raggiungere Napoli al più presto possibile.
Proprio al momento del collasso delle forze borboniche del Ghio, era giunto un corriere per Garibaldi con una lettera da Napoli di Alessandro Dumas, il famoso romanziere. In essa il ministro degli Interni, Liborio Romano, gli faceva presente la possibilità di un tentativo reazionario a Napoli, e che in questo caso egli stesso e due altri ministri sì sarebbero posti agli ordini di Garibaldi. Un duplice pericolo si profilava dunque agli occhi del-Peroe: che la guerra civile e l'anarchia scoppiassero a Napoli prima del suo arrivo nella capitale, e che allora Cavour e Vittorio Emanuele potessero intervenire ponendo fine alla sua dittatura e alla sua speranza di procedere oltre Napoli verso Io Stato pontificio. Da ciò l'urgenza di correre verso Napoli a costo di precedere di vari giorni le sue schiere che si andavano bensì ingrossando, ma non mai nel modo da lui sognato quando a Salemi aveva bandito la chiamata generale dei siciliani alle armi, prodromo di una più generale chiamata dei meridionali e degli italiani. Perciò con pochi fidi Garibaldi procedeva su Cosenza accolto trionfalmente, e quivi il Bertani Io raggiungeva per annunziargli che 1.500 volontari della grossa spedizione di 9000 uomini, preparata per invadere lo Stato pontificio e gli Abruzzi, e fatta deviare da Cavour col finale consenso di Garibaldi stesso verso la Sicilia, erano arrivati a Paola per vìa di mare. Garibaldi disponeva perché quei 1500 proseguissero sempre per mare verso Sapri, al comando del Turr, divenendo così l'avanguardia dell'esercito meridionale; i volontari sbarcavano a Sapri il 2 settembre. Il 1° settembre Garibaldi aveva lasciato Cosenza, era giunto a Castrovillari, aveva superato il passo dì Campo Tenese, giungendo quasi a raggiungere la guarnigione di Cosenza del generale Caldarellia. Sebbene il generale borbonico gli mandasse a dire: « Questo nostro esercito si mette tutto ai vostri comandi », l'eroe non ritenne opportuno affidarsi a 3000 soldati nemici in arme: aveva già visto come anche quelli che si arrendevano non intendevano che in parte minima passare nelle file garibaldine; perciò il 3 settembre Garibaldi, il Bertani, il Cosenz e pochi altri si portavano presso Maratea sul golfo di Policastro, e li una piccola imbarcazione li conduceva a Sapri ove trovavano i 1500 lombardi del Turr, sbarcati il giorno prima. Ora si trattava dì sbarrare la via ai 3000 uomini del Caldarelli che avevano continuato a mirarsi per via di terra. Costui aveva confermato a emissari di Garibaldi l'intenzione sua e dei suoi uomini di passare alla causa nazionale; ma aveva tuttavia continuato la ritirata su Napoli. Garibaldi riusciva il 5 settembre a raggiungerlo a Padula e quivi nello stesso posto dove tre anni prima Pìsacane era stato sconfitto dai soldati del Ghio, i soldati del Caldarelli fecero le viste di porsi a disposizione dell'esercito garibaldino. Ma in realtà anche ora i soldati non volevano saperne di combattere per la causa italiana, e pare non mancassero gli elementi disposti ad assassinare il Caldarelli come traditore; cosicché anche ora Garibaldi ritenne che fosse meglio lasciarli tornare alle loro case. E ora raggiungeva Garibaldi una brigata lucana di oltre 2000 volontari. Ma adesso, lasciata la Calabria e la Lucania, a Garibaldi si presentavano un nuovo quadro e una situazione diversa: se l'accoglienza della popolazione era sempre entusiasta, l'afflusso dei volontari diminuiva continuamente. E per di più pareva che i borbonici volessero preparare un'energica difesa davanti a Salerno, nella pianura di Battipaglia, traversata dal fiume Sele; protetti dall'ostacolo naturale essi avrebbero potuto utilizzare nella pianura la loro numerosa cavalleria e l'artiglieria; e poi dietro c'era la stretta presso Salerno, fra i monti e il mare, e quindi il passo dì Cava dei Tirreni; cosicché i borbonici avrebbero avuto modo di fronteggiare ripetutamente le schiere garibaldine. Oltre i 12 000 in difesa avanzata, i borbonici disponevano in Napoli e nei dintorni di ben 40.000 fanti e 4000 cavalieri, e Garibaldi aveva in realtà i 1500 uomini del Turr e dietro, compresi volontari siciliani, calabresi e lucani, 10 o 12.000 uomini al massimo, con una ventina di pezzi d'artiglieria e un centinaio di cavalieri. Altri 10.000 volontari gli sarebbero giunti ancora, fra cui il grosso della spedizione del Bertani, deviata a Terranova in Sardegna e poi in Sicilia, ma non prima di due settimane. La conquista del regno sembrava presentare dopo ogni trionfo nuove difficoltà! Ma la fiera decisione dì resistere davanti a Salerno svanì si può dire in un baleno, mostrando che la psicosi dei comandi di Sicilia e di Calabria si estendeva sempre più, contaminando tutta la direzione della guerra. Quattro signori in borghese, il volontario inglese Peard, l'ufficiale di marina inglese Forbes, Antonio Gallenga e Nicola Fabrizi, erano stati incaricati dal dittatore di precederlo e dargli notizie soprattutto sull'arretramento dei borbonici; ora avvenne che il 3 settembre, quando essi entravano in Auletta a venti chilometri da Eboli, l'inglese Peard fu scambiato dalla folla per Garibaldi e subito acclamato. In realtà ben poca somiglianzà aveva coll'eroe, ma si ripeteva quello stato d'animo esaltato delle plebi per cui nel 1799, nella penisola salentina, un avventuriere còrso, Boccheciampe, era stato scambiato per il principe ereditario e ciò aveva contribuito non poco a promuovere la controrivoluzione. Il Peard volle chiarire ad alcuni maggiorenti del paese la sua identità, ma si sentì rispondere: « Avete ragione a voler mantenere il segreto, ma a noi non potete darla ad intendere! » E allora il Peard pensò di sfruttare la situazione, e a una domanda telegrafica del comandante del presidio di Salerno circa i movimenti della brigata del Caldarelli e delle forze di Garibaldi, fece rispondere a tarda sera che tale brigata era passata ai garibaldini e marciava con loro, e che l'avanguardia era dì 4 o 5000 uomini. La notizia finiva col giungere a Napoli e col suscitare il più vivo timore che l'esempio dei soldati del Caldarelli potesse contagiare tutte le altre truppe, cosicché occorreva ritrarle immediatamente e portare la difesa a Capua e dietro il Volturno, abbandonando anche la capitale. Tanto più che le stesse notizie il Gallenga aveva telegrafato a degli amici a Napoli che avevano stretti rapporti con la corte e il ministero. E allora, il mattino del 5 settembre, veniva telegrafato da Napoli al maresciallo Afan de Rivera a Salerno ingiungendogli di ripiegare a Nocera. Il 6 settembre il re abbandonava Napoli riparando a Gaeta, naturalmente solo in via temporanea, come aveva dichiarato ai ministri, al sindaco e agli ufficiali della Guardia Nazionale. Lo stesso giorno il grosso dell'esercito si metteva in marcia per Capua, dopo aver sdegnosamente respinto l'invito a fraternizzare con la Guardia Nazionale e ad aderire alla causa italiana. Restavano a guardia dei castelli della capitale da 6 a 10.000 uomini, ma con l'ordine più rigoroso d'evitare di far fuoco. Da molte parti si temeva uno scoppio d'anarchia nella capitale e il re non avrebbe voluto tornare nella capitale, come i Borbonì sessant'anni prima, devastata dagli orrori della guerra civile. Per ventiquattr'ore Napoli parve abbandonata a se stessa. La sera del 6 settembre, precedendo di due giorni la sua avanguardia e molti di più il grosso, Garibaldi era giunto in Salerno, e la mattina del 7 telegrafava a Liborio Romano dicendosi pronto a raggiungere Napoli; questi rispondeva che Napoli attendeva il suo arrivo «con la maggior impazienza » per salutarlo quale «redentore d'Italia». Quindi arrivavano il sindaco e il generale D'Ayala. Come s'è detto, 1500 uomini dell'avanguardia del Turr erano a due giorni di distanza; cosicché Io Stato Maggiore del generale, il Bertani e gli stessi inviati napoletani ritenevano oltremodo imprudente avventurarsi così soli in Napoli. Ma Garibaldi, inteso lo stato d'ansia della capitale e i pericoli che potevano sovrastarla, troncò ogni discussione dicendo: « Napoli è in pericolo, bisogna andarci oggi, anzi sul momento ». Quindi il dittatore col suo Stato Maggiore, i suoi amici personali, una ventina di guardie nazionali salernitane e pochi altri, a Vietri prendevano posto in un vagone speciale che partì per Napoli; a Nocera c'era ancora un treno pieno di soldati bavaresi diretto a Capua! Da Torre Annunziata in poi la folla acclamante obbligava il treno a proseguire lentamente; dopo Portici un ufficiale di marina arrivò fuori di sé fino a Garibaldi gridandogli: « Ma lei dove va? È impossibile che entri in Napoli; vi sono i cannoni borbonici puntati contro la stazione », e Garibaldi calmo: « Ma che cannoni! Quando il popolo accoglie in questo modo non vi sono cannoni: avanti! » E così Garibaldi giungeva nella grande città accolto da una moltitudine entusiasta che era penetrata nella stazione; saliva in carrozza con Liborio Romano, e passava fra la folla plaudente sotto le bocche cariche dei cannoni del castello del Carmine. Gli stessi soldati borbonici guardavano incuriositi. Garibaldi s'alzò con le braccia incrociate a guardarli in faccia, ed essi rimasero silenziosi e qualcuno salutò. Passò poscia davanti al Castelnuovo e lì ricevette anzi il saluto della Guardia. Infine fu condotto al palazzo D'Angri sempre fra il maggiore entusiasmo della folla. Così il dittatore era entrato in Napoli, ottenendo un nuovo trionfo. Ma altre lotte lo attendevano.L'esercito borbonico era dietro il Volturno e si andava riordinando. Garibaldi aveva sperato più volte, e altri con lui ancora volevano sperarlo, che esso fosse alfine per sfasciarsi definitivamente. Ma quest'esercito che s'era sfasciato nel gennaio 1799, nel marzo 1806, e, pur dopo quaranta giorni di tenace lotta, nel maggio 1815, e poi addirittura in tre giorni nell'aprile 1821, ora, pur dopo tanti rovesci, si manteneva tenacemente e stranamente compatto. Per lo meno questo avveniva nell'elemento professionale e di mestiere che aveva formato il nucleo dell'esercito; ma anche non pochi elementi delle quattro ultime classi, chiamate a dare un contingente particolarmente elevato, 18.000 uomini ogni volta, si mantenevano fedeli. Ben scarsi, come abbiamo visto, erano stati i passaggi all'esercito garibaldino da parte degli elementi accerchiati, tagliati fuori e costretti alla resa; quasi tutti avevano preferito tornarsene alle loro case. Ma s'era dato anche il caso di molti che avevano camminato per giorni e giorni per riunirsi al grosso del loro esercito verso Napoli. Il giorno dopo l'ingresso dì Garibaldi in Napoli, il comandante di Castel Sant'Elmo, il maggiore dei castelli della città, avvertì di non poter trattenere le sue truppe dal bombardare la città. Il dittatore aveva risposto: «Bene, che faccìan fuoco e noi faremo altrettanto! » E ciò aveva trattenuto i soldati borbonici. Ed essi anzi nei tre giorni successivi avevano ceduto i quattro castelli alla Guardia Nazionale. Ma se ne erano partiti in perfetto ordine, lanciando torve occhiate al popolo per portarsi dietro il Volturno, in attesa dell'ultima lotta, della prima vera lotta! Nemmeno l'entusiasmo, sia pure contingente e momentaneo, della massa del popolo napoletano era valso a smuovere quei soldati mantenuti in uno stato d'isolamento e avvezzi a vedere solo nell'esercito il loro tetto e il loro pane.
In verità l'esercito non aveva avuto che perdite complessivamente assai lievi: non più di 2000 uomini tra morti e feriti su 100.000 uomini; e anche la perdita in quadrupedi, in artiglieria e in mezzi di guerra non era stata poi tanto grave. L'esercito si trovava dietro la buona linea fluviale del Volturno, pur conservando al di qua l'ottima testa di ponte di Capua; e per di più poteva anche appoggiarsi ai monti e alle colline da Mondragone a Mignano, alla linea del Garigliano e alle colline di Minturno e al Monte Petrella con la stretta di Formia, e infine alla piazzaforte di Gaeta. Le truppe si trovavano quindi concentrate in una posizione che ricordava molto quella del Radetzky nell'aprile del 1848, dopo l'insurrezione del Lombardo-Veneto, allorché questi aveva riordinato le sue truppe in attesa di passare alla controffensiva. E nel Sannio, sul fianco delle forze garibaldine che si avviavano verso la linea del Volturno, già si preparava la controrivoluzione, appoggiata e diretta da non pochi di quegli stessi soldati che erano tornati alle loro case. Nella stessa capitale, dove i liberali con Liborio Romano avevano dovuto accordarsi con la camorra per tenere a freno la plebe - che dal 1799 in poi, ad ogni rivolgimento politico, era stata una costante, latente minaccia per i liberali -, c'era pur sempre da temere uno scatenamento d'anarchìa di fronte a qualche insuccesso o sconfitta dei garibaldini. Garibaldi, contro i 50.000 borbonici in attesa della rivincita, non poteva avere dapprima sulla linea del Volturno - già varcata dal nemico grazie al possesso della testa di ponte di Capua - che 10.000 volontari all'incirca, che nel corso di due settimane sarebbero diventati 20 000. E l'afflusso dei volontari dal Nord era sospeso, mentre quello delle popolazioni meridionali si manifestava in misura molto limitata, ed anzi la massa dei contadini o rimaneva inerte o addirittura passava alla reazione. Come abbiamo visto, il Cavour in un primo tempo avrebbe voluto procedere subito all'annessione della Sicilia; ma si era persuaso che ciò avrebbe significato l'arresto dell'impresa: l'esercito piemontese non poteva muovere contro un sovrano divenuto ormai costituzionale, né d'altra parte gli elementi moderati erano in grado di provocare la rivoluzione a Napoli. Perciò, d'accordo col re, aveva non solo concesso che l'eroe passasse lo stretto, ma aveva considerato la cosa necessaria. Senonché il passaggio dello stretto da parte di Garibaldi voleva anche significare la marcia della rivoluzione non solo su Napoli, ma anche su Roma, cosa che le circostanze internazionali assolutamente non consentivano; e già le due spedizioni dì volontari preparate dal Bertani per invadere lo Stato pontificio e il regno di Napoli lo avevano spaventato e preoccupato molto. Per di più il grande statista avrebbe voluto che ora, passato Garibaldi nel continente e in marcia su Napoli, si procedesse al più presto all'annessione della Sicilia attraverso il plebiscito. Ma il dittatore, spinto soprattutto dal Bertani, non aveva voluto saperne; ed era apparso chiaro che gli elementi di sinistra avrebbero inteso patteggiare il plebiscito a Palermo e a Napoli col nullaosta verso Roma. Il Cavour, preoccupato che la pretesa del partito d'azione di muovere contro Roma potesse guastare, anzi rovinare, quanto finora s'era faticosamente e miracolosamente raggiunto, aveva proibito l'invio di altri volontari a Garibaldi dall'Italia settentrionale e dalla Toscana; cosicché veniva meno proprio nel momento più grave e difficile l'apporto generoso del Nord alla rivoluzione del Mezzogiorno. D'altro lato si verificava rispetto alla massa dei contadini quanto già era avvenuto in Sicilia. In Calabria e in Basilicata i proprietari terrieri, come s'è visto, avevano trascinato molti dei loro dipendenti; ciò era avvenuto sulle prime utilizzando l'organizzazione della Guardia Nazionale, creata al posto della vecchia Guardia Urbana reazionaria; ma sovente gli arruolamenti per la Guardia Nazionale erano valsi a coprire la formazione di corpi volontari, spesso armati e organizzati dagli stessi grandi proprietari, i Fiutino, i Musolino, gli Stocco, i Barracco, i Berlingieri, i Lucifero, i Gallucci, che spesso erano patrioti dì vecchia data; e i quadri poi erano dati specialmente dalla piccola borghesia, e i gregari, oltreché dai contadini, per lo più massari, fittuari e coloni, maggiormente soggetti all'influenza delle famiglie possidenti, anche in misura minore da artigiani e operai dei maggiori centri. Anzi, sulle prime, i possidenti meridionali vollero adottare spontaneamente, sia pure senza un piano organico né alcuna vera coordinazione, una serie di provvedimenti di carattere economico e sociale. Già Garibaldi, del resto, dopo il grande successo di Soveria dovuto ai calabresi, e analogamente a quanto da Salemi e da Palermo già aveva decretato per la Sicilia, aveva stabilito con decreti emanati da Rogliano l'abolizione della tassa sul macinato di tutte le granaglie, eccettuato il frumento, la diminuzione a metà prezzo del sale e infine la concessione, agli abitanti poveri di Cosenza e del contado, dell'esercizio gratuito degli usi civici dì pascolo e di semina nelle terre demaniali della Sila, oggetto di secolari rivendicazioni e contestazioni. A Potenza il governo provvisorio aboliva il dazio sul macinato e prometteva una sollecita soluzione della questione demaniale. A Salerno era diminuito il prezzo del sale. Ma anche ora si trattava di disposizioni iniziali, a volte frammentarie, e in Calabria, in Basilicata, in Puglia, nel Salernitano cominciavano un po' dappertutto, com'era avvenuto in Sicilia, le invasioni dei terreni comunali e di quelli usurpati dai maggiorenti locali e le quotizzazioni tumultuarie. Allora ecco i «galantuomini» lucani, già pochi giorni dopo il trionfo dell'insurrezione» emettere draconiane disposizioni comminanti la pena di morte a chi guidasse azioni contro la proprietà, e l'arresto dì tutti i partecipanti; al tempo stesso la Guardia Nazionale e le formazioni insurrezionali ricevevano l'ordine di garantire la proprietà. A Cosenza, cinque giorni dopo i decreti emanati da Garibaldi in Rogliano, Donato Morelli, uno dei più grandi proprietari della zona e che tanto aveva contribuito colle sue squadre al successo di Soverfa, e che ora era stato dal dittatore nominato capo della provincia di Cosenza, emetteva un'ordinanza con cui toglieva ogni efficacia pratica ed immediata alle concessioni sulla Sila; e qualche giorno dopo con altre ordinanze disponeva per il mantenimento dell'ordine pubblico turbato da manifestazioni di «brigantaggio»!. La conclusione era anche qui il passaggio dalla speranza alla delusione e all'indifferenza e ben presto addirittura all'ostilità, sotto forma di brigantaggio: era la solita reazione della plebe delle campagne di fronte alle speranze deluse dopo una rivoluzione, ed espressa nel modo che le condizioni d'estrema arretratezza sociale le consentivano. La prima conseguenza era che, ad onta delle grida e degli applausi, i garibaldini traversavano il Salernitano e il resto della Campania fino al Volturno senza aiuto di volontari da parte dei contadini; né Garibaldi ritenne opportuno di emanare una legge come quella da Salemi sulla coscrizione militare. Formazioni militari si venivano tuttavia costituendo per opera dei democratici, come i Cacciatori Irpini, i Cacciatori del Vesuvio, i Cacciatori del Gran Sasso, i Cacciatori del Velino; e la legione del Matese e una prima e seconda legione sannita, per opera dei moderati. Alcune di queste sì acquistarono bella rinomanza; ma in gran parte furono impegnate, nella lotta contro la reazione. Altri volontari passavano invece direttamente a ingrossare l'esercito garibaldino sul Volturno, come 1500 dei 5000 insorti del Cilento, che formarono la brigata Salerno; come 2200 dei 3000 volontari lucani, che costituirono la brigata Basilicata agli ordini, in ultimo, del colonnello Corte; e come le bande calabresi di Benedetto Musolino e di Francesco Stocco, che avrebbero dovuto divenire il nerbo di una 5a divisione garibaldina (la 19a dell'esercito meridionale), insieme con altri elementi in prevalenza calabresi. Non pochi volontari si trovavano pure in azione come guardie nazionali mobili, ma soprattutto pel mantenimento dell'ordine pubblico e a sostegno delle formazioni volontarie nella lotta contro la reazione. In generale fra tutte queste formazioni mancò, salvo che nei primissimi tempi, un'azione coordinatrice; e soprattutto nella regione dell'antico Sannio, ossìa nelle province di Benevento e di Campobasso, e in quelle dell'Abruzzo, tanto importanti strategicamente, le forze liberali non riuscirono ad avere uno stabile e sicuro controllo della situazione, e la conseguenza fu un lungo e doloroso periodo di sanguinosa anarchia. L'esercito meridionale contava alla fine di settembre non meno di 40.000 uomini; ma di questi solo la metà, o ben poco più, erano in linea sul Volturno; la situazione, così rosea fino ai primi di settembre, nel corso del mese minacciava di rovesciarsi.
Torniamo a Garibaldi. Lo schieramento dei suoi volontari davanti a Santa Maria Capua Vetere, fronteggiava a qualche distanza la fortezza di Capua, quindi piegava in direzione nord-est fino a Sant'Angelo e alle pendici settentrionali del Monte Tifata, che giungevano al Volturno, poscia volgeva in direzione sud-est, fra monti e colline, fino a nord di Maddaloni. Era una linea molto estesa, con Pinconveniente di dover fronteggiare il nemico già al di qua del Volturno, a Capua, e col pericolo di un avvolgimento alla destra. Tale schieramento, nel tratto da Santa Maria a Sant'Angelo, appoggiava la sinistra a Santa Maria e il centro alle pendici del Tifata; ma con la destra sì prolungava ai bordi d'una zona montana molto estesa, con tre successivi avvallamenti sboccanti il primo a San Leucio, il secondo sopra Caserta e il terzo, particolarmente pericoloso, a Maddaloni. Fra Santa Maria e Maddaloni era la città di Caserta, divenuta poi sede del Quartier Generale di Garibaldi, posizione assai idonea al giuoco delle riserve per linee interne, da posizione centrale verso Santa Maria e Sant'Angelo da un lato e verso Maddaloni dall'altro. Garibaldi comprese subito i vari elementi di debolezza del suo schieramento e come le possibilità offensive nemiche, da Capua sulla sinistra del Volturno, non fossero compensate da un'analoga testa di ponte garibaldina sulla destra, di fronte al Tifata per esempio, o più in là sulla collina del villaggio di Caiazzo. Pensò per prima cosa di rimediarvi mandando oltre il Volturno l'ungherese Csudafy con 200 uomini, col compito di spingersi da Caiazzo fino a Roccaromana per rafforzare e dirigere i movimenti delle bande già costituite nell'alta valle del Volturno, nella zona di Alife e di Piedimonte, ai piedi dell'altopiano del Matese, cosi da rappresentare una permanente minaccia sul fianco e alle spalle dei borbonici, concentrati a Capua e nella retrostante zona fino a Teano ed oltre.
Ma il 16 settembre il dittatore doveva correre a Palermo, ove un forte partito con alla testa lo stesso prodittatore Depretis voleva l'annessione immediata. Lasciava quindi per il momento il comando delle sue forze al Turr, soldato valoroso, ma non di rado imprudente e avventato. Il Turr pensò subito di occupare e tenere Caiazzo, grossa terra situata in alto, in forte posizione al di là del Volturno. I garibaldini avrebbero così avuto una forte testa dì ponte in grado dì controbilanciare, a circa quindici chilometri di distanza, la minaccia borbonica da Capua. Ma v'era di più. Lo schieramento garibaldino troppo esteso, in un vasto arco di cerchio da Sant'Angelo a Maddaloni, ed esposto in tre punti alla minaccia nemica sul fianco destro e alle spalle, obbligava il nemico, che volesse manovrare offensivamente contro Maddaloni - pur disponendo della sola base di Capua e non già di due diverse basì di operazione da cui muovere con azione convergente - a compiere un'ampia marcia di fianco; l'occupazione garibaldina di Caiazzo avrebbe invece costretto i borbonici a un giro sempre più ampio, con una lunga marcia più a nord, nella media valle del Volturno, ove le bande rafforzate dallo Csudafy avrebbero potuto recare non piccola molestia; senza dire che Pala avvolgente avrebbe finito col dover ugualmente passare a non molta distanza da Caiazzo. L'occupazione di Caiazzo aveva dunque le sue valide ragioni; si trattava però di vedere se i garibaldini avrebbero avuto le forze e i mezzi di conservarla di fronte a un nemico tanto vicino e tanto numeroso; e comunque era un'operazione dì carattere strategico che andava oltre le attribuzioni d'un comando interinale di pochi giorni. Il Turr, per agevolare l'impresa distraendo l'attenzione dei regi da Caiazzo, aveva stabilito che l'operazione fosse accompagnata da una forte ricognizione verso Capua. Il 19 settembre ebbe luogo la duplice azione. Comandava la ricognizione verso Capua il colonnello Rustow, scrittore e critico militare assai noto, già ufficiale dell'esercito prussiano ed esule in Svizzera per le sue idee nettamente democratiche, quindi venuto in Sicilia colla spedizione di Terranova, e ora a disposizione presso il comando di Garibaldi. Era pur sempre nel Turr e nel Rustow una certa speranza che la dissoluzione dell'esercito borbonico dovesse continuare, tanto più che da otto giorni l'esercito sardo aveva invaso le Marche e l'Umbria e di conseguenza anche la situazione dei borbonici diventava sempre più difficile. I lombardi del Rustow respinsero i borbonici dalle posizioni avanzate e continuarono a incalzarli arditamente, nella speranza di poter entrare coi fuggiaschi nella fortezza. Ma la fortezza si rivelò preparatissima alla difesa; i garibaldini dovettero indietreggiare con perdite, e tuttavia restarono per ben due ore sotto il fuoco nemico davanti alle mura, senza appoggio d'artiglieria, nella vana speranza d'una defezione delle truppe avversarie. Ma appena ebbero iniziato la loro ritirata si videro incalzati dai borbonici, usciti dalla fortezza, fin nelle loro posizioni davanti a Santa Maria. Qui rifecero testa e i regi retrocessero definitivamente; ma i garibaldini avevano avuto 130 uomini fra morti e feriti e le rosee speranze d'un affratellamento erano svanite. Dall'altro lato, l'occupazione di Caiazzo era avvenuta senza incontrare alcuna resistenza; ma non s'era tardata a manifestare la reazione di truppe nemiche. Quando Garibaldi nel pomeriggio di quello stesso 19 settembre, di ritorno da Palermo (dove s'era mostrato nettamente contrario all'annessione immediata), giunse sulle rive del Volturno, trovò i volontari impegnati sulla sponda opposta, e non credette in tale circostanza di farli ritirare, pur non avendo approvato, sembra, l'operato del suo luogotenente. Ma 300 uomini al di là del fiume, in una posizione tanto importante, erano troppo pochi, e il giorno dopo furono mandati altri 600 a rinforzarli: tuttavia 900 uomini erano pur sempre una forza inadeguata. Il 21 settembre 7000 borbonici, tutte truppe sceltissime, cacciatori napoletani e reggimenti esteri con 8 cannoni, muovevano dalla strada di Capua contro i 900 garibaldini; la difesa fu tenace e si protrasse per parecchie ore, ma alla fine la cittadina era presa d'assalto. Due terzi dei volontari poterono salvarsi e passare il Volturno in piena; 250 erano rimasti morti, feriti e prigionieri; i borbonici avevano avuto circa 100 uomini fra morti e feriti.
Fu un insuccesso d'una certa gravita, anche perché Garibaldi, che finora era apparso come invincibile, ora finalmente aveva subito uno scacco, e il morale dei soldati napoletani pare si risollevasse molto, passando anzi a una baldanza eccessiva. Ma il successo avrebbe dovuto essere subito sfruttato; anche perché il 18 settembre le schiere pontifice erano state sbaragliate a Castelfidardo e i borbonici avevano ormai necessità di liquidare, se possibile, le forze garibaldine per poi volgersi contro i due corpi d'armata dell'esercito sabaudo. Tanto più poi che l'episodio di Caiazzo aveva mostrato, in uno con la spedizione dello Csudafy, che le popolazioni della zona attorno al teatro d'operazioni, a differenza di quanto era capitato in Sicilia, in Calabria, in Basilicata, erano ben poco propense ai garibaldini e alle formazioni volontarie locali, in gran parte d'elementi borghesi; occorreva quindi afferrare l'attimo fuggente, considerando che la sistemazione difensiva dell'ampio fronte garibaldino era appena abbozzata. Ma se i soldati erano desiderosi di battersi e fiduciosi nella vittoria, se la massa degli ufficiali, assai meno eccitata dei soldati, era tuttavia pronta a combattere, negli alti comandi si rivelava ancora una volta l'inettitudine e la mancanza d'energia che avevano contraddistinto fin qui la loro azione. A capo delle forze operanti era stato messo il generale Ritucci, anch'egli vecchio, anch'egli assolutamente privo d'iniziativa, malgrado la sua presunta grande esperienza. Fin dal 16 settembre il re cercava di spingere all'azione il Ritucci; dopo il successo di Caiazzo la corte più che mai insisteva: occorreva cogliere il momento propizio. Ma il 22 il Ritucci rispondeva in modo veramente pietoso: un'offensiva da Capua esporrebbe le proprie linee di comunicazione, perché il nemico potrebbe contromanovrare sul fianco e alle spalle, e quand'anche si fosse giunti fino a Napoli, ci si potrebbe trovare serrati fra il nemico e le città insorte alle spalle; in caso di rovescio sarebbe impossibile, ad onta della testa di ponte di Capua, potersi ritirare dietro il Volturno e probabilmente il nemico incalzando occuperebbe non solo Capua, ma Gaeta. Occorreva dunque rimanere dietro il Volturno per contrattaccare il nemico ovunque si presentasse, come si era fatto con tanto successo il 19 davanti a Capua e il 21 a Caiazzo. Aggiungeva che tutti i generali di divisione erano dello stesso parere.
Il principio della difensiva-controffensiva era senza dubbio un principio di fondamentale importanza; ma qui non sì trattava del principio tattico, bensì del principio strategico. Proprio questo richiedeva che, dopo i successi di una difensiva tattica a Capua e di una difensiva-controffensiva pur sempre nel campo tattico, si passasse veramente a una controffensiva strategica. La Conquista di Caiazzo era valsa a renderla meno difficile, tanto più che la superiorità numerica permetteva una manovra a tanaglia, con duplice avvolgimento d'ala. Ma indubbiamente, il Ritucci sembrava averlo dimenticato, la guerra è il regno del rischio e del pericolo, e il successo è proporzionato al rischio, specialmente quando si hanno truppe più numerose e spiritualmente molto animate. La strategia di logorio e di pura manovra, prevalente nel secolo XVIII, veniva alla battaglia solo quando sì avevano condizioni tali da rendere quasi certo il successo; la strategia napoleonica - è stato giustamente rilevato - cercava la battaglia con sessanta probabilità di successo su cento, e lasciava all'abilità del capo, alla sua energia, al suo intuito, all'uso intelligente delle riserve, la garanzia contro il margine pur sempre largo d'imprevisto. Il Ritucci e i suoi dipendenti avevano la mentalità statica dì un secolo e mezzo prima e soprattutto lo spirito di burocrati assai più che di soldati. Sembra che il re di Napoli, abbandonata la capitale, ritenesse di dover cercare all'estero un generale per la riscossa, e pensasse al francese Lamoricière distintosi in Algeria, poi nel '48 ministro della guerra, quindi in esilio come legittimista antinapoleonico, e infine chiamato a riordinare pochi mesi prima l'esercito pontificio. Ma il papa non volle privarsi di questo generale. Sembra che, di fronte all'improvvisa irruzione dei piemontesi nelle Marche e nell'Umbria, il Lamoricière, d'accordo col governo pontificio, proponesse che l'esercito borbonico, lasciata una copertura sul Volturno, accorresse subito a sostegno suo, per liquidare i due corpi d'armata italiani e volgere poi contro i garibaldini: una mossa per linee interne a largo raggio. Ma comunque la manovra per linee interne s'imponeva all'Alto Comando borbonico, sia che si volesse agire prima contro i piemontesi, o contro i garibaldini. Il 25 settembre lunga discussione fra il monarca e i generali: il re dichiara che i soldati bramano una gloriosa battaglia; per l'onore dell'esercito napoletano non bisognava restare solo sulla difensiva, il nemico avrebbe potuto nel frattempo riordinarsi e rianimarsi. Alla fine il Ritucci consentiva che sì tentasse la battaglia il 28 settembre, ma riteneva che si dovesse concentrare lo sforzo in un punto solo, a Santa Maria, estrema sinistra dei garibaldini. Il suo punto di vista non era disprezzabile: un'offensiva veramente vigorosa contro Santa Maria avrebbe potuto avvolgere non solo tutta quanta la linea difensiva garibaldina, ma pure le stesse riserve concentrate in Caserta, e aprire la via di Napoli, tagliando ai garibaldini le loro linee di comunicazione verso la base di Napoli e serrandoli contro la regione montuosa e ostile del Sannio. Ma in guerra, secondo il detto di Napoleone, il concepire è poco, l'eseguire è tutto. Il re preferiva invece un'operazione che mirasse « ad investire i garibaldini dì fronte e al tempo stesso di fianco e a tergo», con un attacco «immediato e vigoroso», con azione convergente contro i Ponti della Valle, Caserta e Santa Maria. Anche il punto di vista del re era degno di molta considerazione: l'azione convergente è stata sempre considerata come quella ricca di maggiori risultati, sebbene di esecuzione più difficile e più pericolosa. L'opinione del re prevalse. Ma un tale piano richiedeva una notevole superiorità di forze, che non si può dire facesse difetto; i borbonici diedero battaglia con circa 30.000 uomini contro i 21.000 garibaldini, ma disponendo di 50.000 uomini circa, più il sostegno dell'insorgenza, avrebbero potuto impegnarne 40.000, o almeno 35.000, e disporre così d'una superiorità numerica schiacciante. Inoltre, persa una settimana preziosa, non avrebbero dovuto perdere ancora altro tempo: la battaglia ebbe luogo invece il 1° ottobre.
Il ritardo si dovette al fatto che, prima d'impegnare battaglia, i consiglieri del re vollero eliminare la minaccia alle spalle, in realtà molto più apparente che reale, rappresentata dal Csudafy e dalle piccole bande raccolte dai liberali nella zona di Roccaromana e di Piedimonte d'Alife svizzero avrebbe dovuto poi ridiscendere su Amorosi e Ducenta per costituire, varcato il Volturno, l'ala sinistra dell'esercito borbonico che avrebbe dovuto superare la difesa garibaldina ai Ponti della Valle e poi agire contro Maddalonì e Caserta. Il Von Mechel liberò facilmente dalle bande il territorio fra Roccaromana e Piedimonte d'Alife, ma agì come se avesse avuto un comando del tutto indipendente, e non si curò di tenersi in comunicazione col Ritucci, dal quale pur sempre dipendeva; così che questi dovette spingersi il 28 fino a Caiazzo, alla sua ricerca, e venne finalmente a sapere che il Von Mechel aveva passato il Volturno, s'era spìnto in ricognizione oltre Ducenta e, dopo essersi assicurato della presenza di numerose forze garibaldine ai Ponti della Valle, a sbarramento della via su Maddaloni, era indietreggiato di nuovo fino ad Amorosi. E il 29, sempre da Caiazzo, il Ritucci gli scriveva indignato minacciando di sostituirlo: aveva sì avuto grande autonomia d'azione dal re, « ma ciò non importava ch'ella per tre giorni mi tenesse all'oscuro totalmente delle sue operazioni e delle sue vedute», così da obbligarlo a correre di persona fino a Caiazzo e dopo « aver fatto vagare queste truppe con strapazzi inutili ed in controsenso delle istruzioni generali date». La conclusione era il ritardo di tre giorni ancora nella battaglia e la mancanza di coordinamento fra l'azione della destra borbonica e quella della sua sinistra. La situazione di Garibaldi non era invero molto lieta. L'insurrezione reazionaria era cominciata in modo veramente grave ad Ariano, il 13 settembre, con un vero massacro di liberali da parte dei contadini eccitati dal clero reazionario; e rivolte avevano luogo nel settembre a Colle, Circello, Castelpagano, Gallo e Letino, represse con grande energìa dalla la Legione sannita e dai Cacciatori del Vesuvio. E l'affluenza di volontari era sempre minore; a più riprese, dopo aver rimandato al 1° agosto la presentazione alle armi, Garibaldi s'era rivolto ai siciliani perché dessero almeno numerosi volontari disposti a seguirlo nel continente. Così da Palermo il 18 luglio aveva detto in un proclama: « Il continente italiano c'invia numerosi i suoi Prodi. Io... chiamato dagli oppressi... marcio con quelli verso Messina. Là io aspetto la valorosa gioventù della Sicilia...» Nell'agosto aveva dichiarato: «Noi dobbiamo creare un esercito di 200.000 uomini». E il 19 settembre da Napoli rivolgeva un angoscioso proclama: «L'Italia non è ancora libera tutta, e noi siamo ben lungi dalle Alpi, meta nostra gloriosa. Il più prezioso frutto di questi primi successi è di potere armarci e procedere... Affrettatevi alla generale rassegna di quell'esercito, ch'esser deve la Nazione Armata, per far libera ed una l'Italia;... raccoglietevi nelle piazze della vostra città, ordinandovi con quel popolare istinto di guerra che basta a farvi assalire uniti il nemico. Italiani, il momento è supremo. Già fratelli nostri combattono lo straniero nel cuore d'Italia. Andiamo ad incontrarli in Roma per marciare di là assieme sulle venete terre». Ma l'affluenza dei volontari era sempre assai scarsa. A una deputazione venuta a parlargli del plebiscito Garibaldi rispose secco: « Portatemi degli uomini armati, non dei voti ». Alla battaglia del Volturno la capitale del Mezzogiorno non dava che 80 combattenti. Si capiva che il momento del supremo sforzo borbonico si avvicinava. Il 22 settembre, in un proclama agli ufficiali dell'esercito meridionale riassumeva il suo fondamentale principio tattico: «Poche sono le raccomandazioni ch'io devo fare ai soldati di Calatafimi e di Varese; però ripeterò per l'ultima volta che chi tira da lontano e dì notte è un codardo, e che spero non si scorderanno le fatate baionette dei Cacciatori delle Alpi». La linea di battaglia da Santa Maria a Maddaloni era troppo estesa; pure la ricognizione del Von Mechel verso i Ponti della Valle aveva mostrato che la minaccia nemica poteva esercitarsi anche su Maddaloni. Occorreva dunque occupare saldamente Maddaloni e Santa Maria per non essere avviluppati da uno di questi due punti. E Santa Maria non si sarebbe potuta tenere senza Sant'Angelo e il Monte Tifata. Il ritardo degli ultimi tre giorni fu però provvidenziale. Il 27 Garibaldi aveva in linea fra Santa Maria e Sant'Angelo, verso Capua, solo una mezza dozzina dì cannoni. Ma gli ultimi tre giorni si lavorò febbrilmente a piazzar cannoni fatti venire da Napoli. Furono preziosi in questa circostanza due ex capitani dell'esercito borbonico, un ex sergente d'artiglieria inglese reduce da Sebastopoli e, la sera del 20, anche 20 artiglieri piemontesi, seguiti il giorno dopo da altri. In Napoli erano ormai molte navi da guerra piemontesi, mentre la flotta borbonica aveva defezionato, sebbene i marinai se ne fossero tornati quasi tutti alle loro case; così che la brigata piemontese Re (già brigata Savoia) aveva potuto cominciare a sbarcare indisturbata, e con essa 2 battaglioni di bersaglieri e alcune altre forze supplementari.
Garibaldi aveva le sue forze così disposte al mattino del 1° ottobre: dal lato di Maddaloni, ai Ponti della Valle, Nino Bixio con 5650 uomini, all'altra estremità, a Santa Maria, il polacco Milbìtz con 3000 uomini; alla destra del Milbitz, a Sant'Angelo, sulle pendici del Tifata, il Medici con 4000 uomini, e poi di collegamento fra le forze di Santa Maria - Sant'Angelo e quelle dì Maddaloni, a San Leucio, il Sacchi con 1800 uomini, alla cui destra, e molto avanti, a Castelmorrone, era Pilade Bronzetti con 300 uomini distaccati dalla riserva. Questa, al comando del Turr e forte di 5600 uomini, era concentrata in Caserta. Dal che appare quanto Garibaldi mostrasse di temere la minaccia dai Ponti della Valle, se quivi aveva collocato ben 5650 uomini col ferreo Bixio, e l'importanza che dava anche al possesso di Sant'Angelo e del Tifata se qui aveva messo 4000 uomini col tenace Medici, il difensore del Vascello a Roma, nel 1849. La riserva di circa 6000 uomini, data la scarsità delle forze disponibili, era piuttosto forte. La difesa Sant'Angelo - Santa Maria doveva fare sistema, vale a dire i due pilastri dovevano sorreggersi a vicenda. Non è molto facile calcolare esattamente la forza dei borbonici, data la scarsità di notizie sicure al riguardo e la tendenza degli scrittori di parte borbonica a diminuire sistematicamente i loro effettivi. Si può tuttavia calcolare con una certa approssimazione, e dato che i reggimenti dovevano avere gli organici al completo, che contro Santa Maria agissero nel corso della giornata 8 o 10 000 uomini e altrettanti contro Sant'Angelo, con un insieme di 3200 cavalieri e 56 cannoni. All'ala sinistra il Von Mechel disponeva di 3000 svizzeri e bavaresi, e di 5000 napoletani. Nell'insieme dunque 28 o 30 000 uomini. In complesso tre masse agivano, con azione concentrica, contro Santa Maria, contro Sant'Angelo e contro Maddaloni. Non era né la battaglia di tipo napoleonico, con la massa dapprima concentrata non lungi dal campo di battaglia, e poi dispiegata per lo svolgimento dì questa, né l'azione di tipo federiciano, con due masse partenti da basi lontane e destinate a convergere sul campo di battaglia; ma un qualche cosa di ibrido, che la divisione Von Mechel non partiva da una base d'operazione sua propria, ma era pur sempre legata, anche se in malo modo, a quella di Capua. La massa maggiore si scindeva poi in due masse minori, verso Santa Maria e verso Sant'Angelo, ma con obbiettivo divergente: quella di Sant'Angelo avrebbe avuto in pratica la funzione di richiamare sopra di sé molte forze avversarie da destra, da sinistra e dalla riserva generale del nemico, così da facilitare l'azione delle due branche della tanaglia; ma bisognava che ciò non fosse a detrimento dell'efficacia loro. Dopo mezzanotte, nella nebbia, i reggimenti borbonici uscivano da Capua; alla prima alba l'attacco si manifestava subito vigoroso davanti a Capua, mentre una forte colonna borbonica tentava un'azione aggirante contro l'estrema sinistra garibaldina dal lato di San Tammaro. Quivi alcuni difensori si davano alla fuga verso Napoli, ma il grosso retrocedeva in discreto ordine, sul lato occidentale e meridionale dì Santa Maria: in complesso una divisione attaccava frontalmente, mentre una brigata compiva un'azione avvolgente, a raggio però molto ristretto. Garibaldi dalla prima alba era sul posto e provvedeva a richiedere riserve a Caserta: il Turr gliele spediva sollecitamente. Singolare la posizione di Garibaldi in questa battaglia: dato il numero delle forze impegnate e l'ampiezza straordinaria della linea di battaglia formante per di più un ampio semicerchio, Garibaldi avrebbe dovuto trovarsi, secondo le buone norme usuali, a Caserta presso la sua riserva generale - che, si suoi dire, un comandante in capo esercita le sue funzioni soprattutto in quanto adopera le riserve; egli invece si portava sulla linea del fuoco, a Santa Maria, per rendersi conto personalmente dell'entità dello sforzo nemico da questo lato, animare i suoi volontari e provvedere alla tempestiva e adeguata richiesta delle riserve (del resto Caserta non distava dalla linea di battaglia davanti a Santa Maria che sette od otto chilometri). Dei 5650 uomini della riserva circa 2500 erano prima delle otto assorbiti dalla difesa di Santa Maria; ma qui l'attacco nemico era già fermato e la difesa mostrava di sostenersi validamente. Il rumore della battaglia si faceva però sempre più intenso alla destra, verso Sant'Angelo, e allora Garibaldi partiva in vettura verso questa località con Canzio, Missori e il suo Stato Maggiore. La strada principale sorpassava varie stradicciuole incassate nella pianura. All'improvviso da una di queste sbucarono dei soldati napoletani e fecero fuoco a pochi metri di distanza sulla carrozza. Garibaldi scese a terra, sguainando la spada; per fortuna si avvicinava pure un drappello di garibaldini, ed egli senz'altro lo portava a caricare alla baionetta i nemici. Così poté procedere sebbene a piedi; ma giunto presso Sant'Angelo, vide che la situazione sì faceva grave: il nemico aveva varcato il fiume protetto dalla fitta nebbia e s'era impadronito della linea avanzata coi cannoni che la guarnivano, spingendosi fino al villaggio e risalendo pure le pendici del Tifata. Anche ora Garibaldi agiva da animatore, preparando e guidando spesso le cariche alla baionetta che risolvevano la situazione nei momenti critici: per tre ore, dalle nove a mezzogiorno, egli sosteneva e dirigeva la lotta, coadiuvato dall'intrepido Medici, profittando del vantaggio del terreno dominante e del fatto che gli attacchi borbonici erano slegati fra di loro e senza nessun coordinamento coll'altro grande attacco dì Santa Maria. I borbonici tentavano un'azione avvolgente verso la destra garibaldina, ma erano subito fermati; avevano una riserva di 4000 uomini, dietro il Volturno, ma non s'impegnarono affatto, e sì che fra Santa Maria e Sant'Angelo s'era venuto a creare un vuoto di almeno un chilometro e mezzo! Ma è da notarsi che Garibaldi non richiamò qui nessuna forza dalle sue riserve.
La situazione appariva però grave da questo lato; ma Garibaldi già pensava a difendere Sant'Angelo in altro modo, in un modo che doveva non solo liberare le pendici del Tifata dalla pressione nemica, ma risolvere definitivamente la giornata, tanto più che alla destra, dal lato di Maddaloni, la situazione già s'era risolta a vantaggio dei garibaldini. Il Von Mechel, come sappiamo, si era mosso da Ducenta coi suoi 8000 uomini: nell'avvallamento dei Ponti della Valle aveva di fronte il Bixio con 5500 volontari. Ora di sua iniziativa il generale svizzero scindeva le forze per compiere una duplice azione a tanaglia: riservava a sé i 3000 svizzeri e bavaresi per l'attacco diretto di fondovalle, mentre il generale Ruiz, che già abbiamo visto condursi poco brillantemente presso Villa San Giovanni in Calabria, con 5000 napoletani doveva prendere la via di Limatola e Caserta Vecchia, per minacciare sul fianco e alle spalle le forze del Bixio. Al solito, il princìpio d'una azione a tanaglia poteva in teoria ben sostenersi, ma l'azione andava condotta con il massimo sincronismo e la più costante collaborazione fra i due generali borbonici; e invece il Von Mechel diede delle direttive generiche che implicavano, quando la colonna Ruiz fosse giunta a Caserta Vecchia, la possibilità di un'azione contro i garibaldini tanto verso Sant'Angelo che verso Maddaloni!. Il Von Mechel moveva dunque coi suoi 3000 uomini e 6 cannoni da montagna contro il Bixio, che aveva 5500 volontari e 6 cannoni: i borbonici avevano fatto nella zona le manovre campali e conoscevano magnificamente il terreno. L'abilità dei montanari svìzzeri riusciva a far loro superare la destra di Bixio, cosicché la via verso Maddaloni pareva aperta; ma l'ala sinistra, con Dezza e Menotti Garibaldi, si dispiegava sul lato opposto della valle sbarrando gli accessi verso Caserta Vecchia e Caserta Nuova e minacciando sul fianco la marcia nemica su Maddaloni. E qui i successi del Von Mechel si fermavano: egli attendeva per alcune ore di veder comparire il Ruiz, da Caserta Vecchia, alle spalle del Bixio per rinnovare l'attacco; ma gli uomini mandati in cerca di lui tornavano dicendo di non averlo trovato! E allora a mezzogiorno il generale svizzero ordinava la ritirata su Ducenta: aveva perduto un centinaio d'uomini fra morti e feriti e quasi altrettanti prigionieri, nonché un cannone; il Bìxìo aveva avuto 200 uomini fra morti e feriti. Il Ruiz intanto non aveva agito né a sostegno del Von Mechel né a sostegno di Afan de Rivera. Giunto a Limatola, all'alba aveva respinto elementi avanzati del generale Sacchi, che era a San Leucio, quindi aveva proceduto per Caserta Vecchia. Ma sul suo fianco destro era un monte dai fianchi ripidi, su cui stavano 280 uomini della riserva generale mandati il giorno prima, protetti soltanto, oltre che dalla fortezza naturale del sito, da un parapetto in rovina. Il Ruiz per molto tempo si ostinava a non avanzare se prima non era eliminata tale molestia sul fianco. Ma la difesa si protraeva accanita per quattro ore, finché i garibaldini avevano munizioni, poi essi si difendevano rotolando grosse pietre e a colpi di baionetta. Alla fine i regi inferociti superavano il muricciolo e penetravano fra le rovine del castello, uccidendo Pilade Bronzetti che giaceva a terra ferito. I garibaldini avevano avuto un centinaio di morti e feriti. In questo modo, però, il Ruiz aveva perso quattro ore preziose, e solo alle quindici e trenta egli arrivava a Caserta Vecchia. E li rimaneva burocraticamente legato all'ordine che gli diceva di fermarsi a Caserta Vecchia, senza pensare a collegarsi a sinistra o a destra, né a puntare su Caserta, di dove le ultime riserve erano partite da un'ora. Verso le tredici Garibaldi lasciava Sant'Angelo per tornare a Santa Maria. Sebbene egli si fosse prodigato nel rincuorare i suoi, dicendo che ormai sì vinceva su tutta la linea, e avesse mandato staffette con la buona novella in ogni direzione, la situazione a Sant'Angelo non era molto lieta. I borbonici tendevano a estendere l'attacco verso sud, lungo le pendici del Tifata e la strada diretta per Santa Maria percorsa la mattina era intercettata: una sacca sempre più pericolosa si andava formando fra i due capisaldi garibaldini. Garibaldi infatti per giungere a Santa Maria dovette percorrere un ampio giro e non vi arrivò prima delle quattordici. Qui per fortuna i garibaldini continuavano a tener duro. Garibaldi prendeva ora la decisione suprema. Visto che l'attacco ai Ponti della Valle era fallito, egli richiamava da Caserta su Santa Maria il grosso delle sue riserve, 3000 uomini o poco più, i quali giungevano alle tre pomeridiane condotti dal Turr in persona e dal Rustow. E disponeva queste forze fresche per l'azione decisiva: 1500 uomini con direttrice Sant'Angelo, per prendere alle spalle i borbonici e alleggerire così la pressione ormai molto pericolosa da quella parte; gli altri 1500 più a sinistra, con lo scopo di tagliare ai borbonici la via della ritirata su Capua, In sostanza Garibaldi rispondeva alla manovra borbonica contro la sua destra, con analoga manovra alla sua sinistra, contro la destra borbonica e il centro, in modo da troncare definitivamente l'attacco progredente al centro e tagliare la via della ritirata a tutte quante le forze borboniche da questo lato. Certo la manovra avrebbe dovuto esser fatta con forze almeno doppie; ma data la situazione era impossibile fare di più. Proprio allora sembra che i borbonici stessero per iniziare, colle ali interne delle colonne di Santa Maria e di Sant'Angelo, un'azione a cuneo volta ad avvolgere, oltre San Prisco, le posizioni garibaldine; ma tale operazione, già dì per sé difficile (essa andava compiuta da un'apposita riserva autonoma), si può dire che non avesse nemmeno un principio d'attuazione, che il contrattacco di Garibaldi l'arrestava in sul nascere e determinava tosto la ritirata su Capua delle truppe di Santa Maria e di Sant'Angelo, ritirata che nell'insieme poteva svolgersi senza eccessiva difficoltà. Anche ora come a Milazzo, dove analogamente aveva manovrato coU'ala destra minacciando la ritirata al centro e alla sinistra dell'avversario, Garibaldi non riportava la vittoria annientatrice: questa richiede quasi sempre superiorità numerica e di mezzi.
Tuttavia, dato che strategicamente la battaglia del Volturno rappresentava per i borbonici la prima fase di una grande manovra per linee interne, il pieno fallimento di questa, che avrebbe dovuto risolversi coll'annientamento delle forze garibaldine, accompagnato da un'esplosione di tutte le forze reazionarie, significava la sicura rovina in un tempo più o meno prossimo. La vittoria si doveva innegabilmente al genio di Garibaldi, che s'era garantito con molte forze dal lato di Maddaloni e aveva finito col portare tutte le sue riserve alla sua sinistra, dove aveva sferrato la manovra decisiva. Ma al tempo stesso aveva supplito con la sua presenza, dapprima a Santa Maria e poi a Sant'Angelo, alla mancanza di riserve che compensassero la notevole inferiorità numerica. Egli era stato ben coadiuvato e i suoi volontari nell'insieme s'eran battuti egregiamente per ben dieci ore, dalle sei della mattina alle quattro pomeridiane. Quanto mai difettosa invece la condotta della battaglia da parte borbonica. L'attacco a Santa Maria e Sant'Angelo non fu coordinato e solo troppo tardi si pensò - se vi si pensò - a un'azione fra i due capisaldi nemici, in un tratto ch'era pressoché sguarnito, e la riserva dietro il Volturno, riserva che avrebbe dovuto servire anche come collegamento fra le due colonne, non funzionò affatto. Ma soprattutto grave fu la mancanza di coordinamento delle forze di Capua con quelle del Von Mechel, e di quelle di quest'ultimo colle altre del suo subordinato Ruiz. Cosicché tutta la battaglia si risolse in una serie d'azioni slegate. Fu poi deplorato da parte borbonica che il generale Afan de Rivera, a Sant'Angelo, non si mostrasse alla testa dei suoi soldati, mentre dalla parte opposta Garibaldi dirigeva abilmente la difesa. Il generale in capo Ritucci si espose tutto il giorno da valoroso, ma non seppe compiere affatto le sue funzioni di comandante supremo, mentre Garibaldi sapeva essere l'una cosa e l'altra. Quanto alle perdite, i garibaldini ebbero 1600 tra morti e feriti e 250 prigionieri; i borbonici ammisero 1220 fra morti e feriti e 74 prigionieri, più 2089 prigionieri perduti il giorno dopo, elementi della colonna del generale Ruiz, che invece di ritirarsi vollero la mattina dopo scendere a saccheggiare la reggia di Caserta e si trovarono accerchiati e costretti alla resa. Ma era questa l'ultima maggiore battaglia che chiudeva degnamente la meravigliosa epopea garibaldina del 1860.
I borbonici restavano sul Volturno e a Capua, e non pensarono, dopo lo scacco, di muovere subito contro i piemontesi. La reazione delle bande contadine, che avrebbe dovuto accompagnare la loro vittoria, si sviluppava però in vari punti del Sannio, e specialmente a Isernia, quasi al limite fra l'alto bacino del Volturno e i monti del Molise. Le bande, anzi, avevano cominciato a muoversi già alla vigilia della battaglia del Volturno, invadendo la cittadina, saccheggiandola e compiendo atrocità sugli elementi borghesi. Garibaldi non essendo riuscito, ad onta della vittoria, a prendere Capua, pensava allora di compiere, a raggio più vasto, quanto già il Csudafy con forze esigue aveva tentato, tanto più che vari profughi da Isernia gli avevano promesso il valido aiuto di volontari del posto. Mandava così, il 17 ottobre, Francesco Nullo a capitanare una spedizione che fra volontari siciliani, volontari della legione del Matese, Cacciatori irpini, volontari beneventani e molisani giungeva appena a 1200 uomini. Essi trovarono, al contrario, bande reazionarie assai numerose sostenute da forze regolari: il Nullo non ebbe la necessaria solerzia nel guardarsi i fianchi, e subì un doloroso rovescio. I borbonici tendevano a fronteggiare l'esercito piemontese nelle forti posizioni presso lo spartiacque fra la valle del Volturno e i corsi d'acqua del Molise, e speravano di poter guadagnar tempo, nell'illusione che una prolungata resistenza di tal fatta avrebbe potuto mostrare che la massa della popolazione restava fedele, e provocare alla fine qualche complicazione internazionale.
Tratto da:
"Storia militare del Risorgimento", Piero Pieri, Torino, Einaudi, 1962