Battaglie In Sintesi
475 a.C.
Il consolato iniziò con l'accusa rivolta dai tribuni della plebe Lucio Cedico e Tito Stazio, rivolta a Spurio Servilio Prisco, di aver mal condotto l'esercito romano nella battaglia del Gianicolo dell'anno prima. Ma Servilio riuscì a confutare l'accusa dei tribuni, anche grazie alla testimonianza favorevole del collega console Aulo Verginio Tricosto Rutilo. Mentre Gaio Nauzio guidava le forze romane in soccorso dei Latini attaccati da Volsci ed Equi, che ne razziavano i territori, Publio Valerio condusse le forze romane alla volta di Veio, dove si stavano radunando forze sabine in funzione anti-romana. I Romani riuscirono a sorprendere, e a sconfiggere, i nemici, Sabini e Veienti, nella Battaglia di Veio; per questa vittoria il console, tornato a Roma, ottenne l'onore del trionfo. Publio Valerio Publicola fu eletto al secondo consolato nel 460 a.C. con il collega Gaio Claudio Crasso Inregillense Sabino. Durante il consolato continuarono le controversie tra Patrizi e Plebei, con i tribuni della plebe, per bocca di Aulo Verginio, che accusarono parte del Senato di aver ordito un complotto per uccidere i tribuni stessi. Per tutti rispose Publio Valerio, bollando come falsa l'accusa. In quell'anno sembrava che Equi e Volsci fossero pronti a ricominciare le "annuali" e "rituali" ostilità, quando una notte, appunto, il Campidoglio e la rocca furono occupati. Circa duemilacinquecento fra esuli e schiavi, comandati da Appio Erdonio, si asserragliarono fra i templi della Triade Capitolina. Quelli che non vollero aderire alla lotta furono massacrati; ma qualcuno riuscì a fuggire e si precipitò nel Foro e lanciò l'allarme alla cittadinanza. In tempi "normali" non sarebbe stato un grande problema trarre le armi dall'Erario e darle ai cittadini. Ma quelli, a Roma, non erano tempi normali. Due anni prima il tribuno della plebe Gaio Terentilio Arsa aveva proposto la Lex Terentilia che voleva migliorare le condizioni politiche della plebe. La discussione della legge aveva pesantemente squassato la vita politica della città. I patrizi resistevano temendo una perdita di potere. In questo quadro -ad esempio- si inserisce il processo al patrizio Cesone Quinzio, figlio di Cincinnato, condannato l'anno precedente e fuggito in Etruria). Era logico supporre che potesse essere alla guida di un gruppo paramilitare teso ad ottenere il rientro dell'esule. Sul versante plebeo i tribuni della plebe si agitavano a favore della legge e minacciavano di non combattere per la Patria se la plebe non avesse ottenuto qualche vantaggio politico ed economico da tanti sacrifici e tanto sangue. Appio Erdonio continuava asserendo che avrebbe preferito che l'iniziativa fosse partita dal popolo romano ma che, visto che non c'era nessuna speranza che questo avvenisse, non avrebbe esitato a ricorrere a mezzi estremi, fino alla richiesta di aiuto di Volsci ed Equi. Fino, quindi, al tradimento. La situazione aveva tutta l'apparenza di un'operazione studiata a tavolino dai nemici esterni (si sospettavano i Sabini e Veienti) e gestita con l'organizzazione di una quinta colonna interna composta da bassa manovalanza bellica lanciata allo sbaraglio dalla disperazione. Soprattutto si temeva la rivolta degli schiavi in quanto per nessuno sarebbe stato possibile sapere si i suoi schiavi sarebbero rimasti fedeli o se avrebbero costituito un pericolo addirittura dentro le pareti domestiche.
Altre volte, i Partrizi e i plebei erano riusciti a ritrovare la concordia per affrontare i nemici esterni. Questa volta però, i tribuni della plebe, resi edotti da altri comportamenti poco "nobili" del patriziato, ostacolavano le leve militari asserendo che non si trattava di una guerra ma di un simulacro di guerra appositamente mandato nel Campidoglio per bloccare la votazione della Lex Terentilia. Ne derivava l'analisi che la sommossa era stata organizzata dai patrizi utilizzando ospiti e clientes che sarebbero tranquillamente scomparsi in quanto inutili una volta approvata la Lex Terentilia. I patrizi, su queste basi dialettiche, ritenevano che i tribuni fossero, per lo Stato, ("loro" si consideravano "lo Stato") un pericolo ben maggiore che qualche schiavo ribelle. Il console Publio Valerio, alla notizia che la plebe stava deponendo le armi, lasciò la seduta del senato e si precipitò ad esortare i tribuni: « Cosa sta accadendo, tribuni? volete proprio rovesciare lo Stato sotto gli ordini e gli auspici di Appio Erdonio? È stato così abile a corrompere voi, lui che non è riuscito a sollevare gli schiavi? ». È interessante questa parte del discorso di Valerio. Se ne può evincere che le richieste di Appio Erdonio fossero state presentate in tempi precedenti. Probabilmente la sovraesposizione mediatica della contestatissima Lex Terentila ha messo in secondo piano queste richieste - forse persino poste in modo legale- e Appio Erdonio si era visto costretto all'azione violenta. Violenza che, d'altra parte, permeava la quotidianità di quegli anni di lotta per il potere fra patrizi e plebei.
Publio Valerio continuò implorando i concittadini di "liberare gli dèi" e si diceva deciso a intraprendere l'attacco anche da solo considerando come nemico chiunque si fosse interposto fra lui ed Appio Erdonio. Ma la notte fermò l'azione del console, l'inazione dei tribuni. La vita politica della città si era fermata. La legge non fu approvata e i rivoltosi riuscirono a resistere. Nella stessa notte (Eadem nocte -Liv. III,18) la notizia giunse a Tusculum, città alleata di Roma e il dittatore tuscolano Lucio Mamilio, vedendo un'ottima occasione per rendersi gradito ai potenti vicini, partì per l'Urbe alla guida del suo esercito. Sul far del giorno i Tuscolani arrivarono a Roma. Dapprima scambiati per Volsci ed Equi, i Tuscolani furono fatti entrare e si unirono a Publio Valerio che stava nuovamente cercando di schierare un esercito. Nonostante l'opposizione dei tribuni della plebe i due eserciti si scagliarono sul Campidoglio e i ribelli «furono presi da scoramento perché ormai potevano contare solo sulla posizione favorevole e su di loro si abbatté l'assalto dei Romani edegli alleati». I malcapitati furono costretti ad arretrare all'interno dei templi per difendersi. Nell'atrio del tempio (Tito Livio non specifica quale ma probabilmente si tratta del tempio di Giove Capitolino) Publio Valerio Publicola rimase ucciso, ma questo non fermò i cittadini ormai giunti a concludere l'attacco guidati da Publio Volumnio Amintino Gallo che era stato console l'anno precedente. «Molti esuli profanarono col loro sangue il tempio: molti furono presi vivi; Erdonio rimase ucciso». La punizione dei ribelli fu comminata a seconda della loro condizione. Gli uomini liberi furono decapitati; gli schiavi, crocefissi.
Marciò, contro i Tirreni, l'armata Romana sotto gli auspici del console Publio Valerio, perocché si era di bel nuovo levata in arme la città di Vejo, unendosele i Sabini, alieni fino a quel giorno di unirsele, quasi aspirasse cose impossibili: quando però videro Menenio in fuga e presidiato il monte prossimo a Roma, giudicando scadute le forze Romane, e sbaldanzito l'animo di quella repubblica, concertaronsi co' Tirreni, spedendo loro milizie numerose. I Vejenti confidati su le schiere proprie e su quelle giunte di fresco da' Sabini frattanto che aspettavano le ausiliarie degli altri Tirreni anelavano di volarsene a Roma col più dell'esercito, quasi niuno ne uscirebbe a combattere, ma dovessero per assalto espugnarla, o ridurla con la fame. Indugiandosi però essi ed aspettando i confederati, lenti a congiungersi, Valerio ne prevenne i disegni, guidato contra loro il fiore de' Romani, e gli alleati, con sortita, non manifestia, ma occulta quanto potevasi. Imperocché uscito da Roma sul far della sera, e valicato il Tevere, si accampò non lontano dalla città. Poi levando l'esercito verso la mezzanotte, si avanzò con marcia ordinata; e prima che fosse giorno, investì uno de' campi nemici. Erano due questi campi, disgiunti, ma non molto, fra loro, l'uno de' Tirreni, l' altro de' Sabini. Fattosi primieramente sul campo Sabino, lo assali' e lo prese; visto che dormivavi i più senza guardia sufficiente, come fossero in terra amica, e liberi da ogni sospetto, mentre non si annunziavano in parte alcuna i nemici. Preso il campo, alcuni furono uccisi tra il sonno, alcuni sorti appena o mentre si armavano, e quali già armati, mal resistendo disordinati e dispersi: la più parte peri', fuggendo verso l'altro campo, sorpresa dalla cavalleria. Valerio, invaso il campo Sabino, marciò su l'altro de' Vejenti, postisi in luogo non abbastanza sicuro: ma non poteano più gli assalitori giungervi occulti, per essere il giorno già chiaro, e datovi da fuggitivi l'avviso della strage Sabina, e di quella imminente ai Tirreni.
Pertanto era necessario andar con fortezza al nemico. Ecco dunque resistere con ardore sommo i Tirreni avanti gli alloggiamenti, e farvisi aspra tenzone e strage vicendevole; stando lungo tempo incerta, e pendendo or quinci or quindi la sorte della guerra. Alfine dan volta i Tirreni, sospinti dalla cavalleria Romana, e ricacciansi tra le trincee. Segueli il console, ed approssimatosi alle triuciere né ben formate, né in luogo, come ho detto, abbastanza sicuro, le assali da più parti; travagliandovi tutto il resto del giorno, nè desistendone pur nella notte appresso. I Tirreni, vinti da' mali incessanti, abbandonano su l'alba il campo; altri in città fuggendosi, altri dispergendosi pei boschi vicini. Il console, invaso pur questo campo, diè riposo in quel giorno all'esercito: e nel seguente comparti la preda copiosa de' due alloggiamenti tra le sue milizie, coronando co'premj usati chiunque s'era più segnalato nel combattere. Servilio, il console dell'anno precedente, quegli che sfuggì le pene popolari, mandato ora luogotenente di Valerio, parse aver più che tutti risplenduto fra le arme, e sospinto i Vejenti alla fuga; e per tale suo merito ne ebbe il primo i premj, riputati più grandi tra' Romani. Fatti quindi spogliare i cadaveri nemici, e seppellire quelli de' suoi, marciando, e venendo il console coll' esercito ne' campi prossimi a Vejo; sfidò quelli d' entro per la battaglia. Ma non presentandovisi alcuno, e conoscendo altronde esser cosa ben ardua pigliarli di assalto, come chiusi in città fortissima, scorse in gran parte il lor territorio, e si gittò su quello de' Sabini. E saccheggiato per più giorni, pur questo, che era ancora intatto; ricondusse l'esercito carico di prede amplissima in patria. Uscì di città molto a dilungo per incontrarlo il popolo cinto di ghirlande: ed accolse lui, dove passava con profumi d'incenso, e l' armata con crateri di vino con mele. Il Senato in fine decretò loro la pompa trionfale. Cajo Nauzio, l'altro console, a cui toccò per sorte la difesa dei Latini e degli Ernici, indugiò per andarvi, aspettando l' esito della guerra co' Vejenti, non per imperizia, o timor de' pericoli, ma perchè se l'armata aveva in essa disagio, ne stesse un'altra pronta in città, per impedire che i nemici spaziassero pel territorio quando venisseno, e, tentassero come prima fortificarsi presso di Roma. Frattanto anche la guerra degli Equi e de' Volsci contro i Latini prese buon termine: e venne chi annunziò che i nemici vinti in battaglia eransene levati dal territorio, né più vi si bisognava allora degli alleati.
Dopo li bei successi contro i Tirreni, il console cavò l'esercito, e piombò su le campagne de' Volsci; ma fattosi a scorrerie non vi occupò che poco di bestiame e di schiavi, per essere già state derelitte. Diè le fiamme ai lor seminati, rigogliosi già per le messi; e fatti altri danni non lievi, né comparendo alcuno per combatterla; ne ritirò le milizie. Tali furono le gesta di que' consoli.