Battaglie In Sintesi
396 a.C.
Fu censore nel 403 a.C., tribuno militare con potestà consolare negli anni 401 e 398, e interrex nel 397. Creato dittatore nel 396, pose fine al decennale assedio di Veio facendo penetrare nella città dei soldati romani per un cunicolo sotterraneo. La città fu distrutta, il dittatore trionfò. Il territorio romano, che prima non raggiungeva i 1000 kmq., si accrebbe di quasi 600 kmq., e Roma divenne lo stato di gran lunga più esteso del Lazio e dell'Italia Centrale. Col decimo della preda, secondo un voto fatto da Camillo all'Apollo Delfico, che aveva predetta la vittoria dei Romani, fu inviato a Delfi un cratere d'oro, che fu più tardi fuso durante la guerra focese, ma la base di bronzo rimase. Camillo, evocata solennemente la Iuno Regina di Veio, le dedicò un tempio sull'Avellino. Tribuno militare consolare per la terza volta nel 394, Camillo si rivolse contro Capena e Falerii. La tradizione dice che con Falerii la pace sarebbe stata conchiusa non per forza di armi, ma per l'impressione che sui Falisci fece la lealtà di Camillo, che rimandò in Città i figli dei loro principali cittadini condotti a lui da un pedagogo traditore, che egli fece spingere legato alla città dai giovinetti (Livio, V, 27; Plutarco, Camillo, 10 ecc.). Nel 392 Camillo fu ancora interrex. Nel successivo anno 391, secondo la tradizione vulgata, cade il processo e la condanna di Camillo. Da Diodoro, XIV, 117, si è voluto da alcuni moderni indurre che secondo la tradizione più antica, riprodotta da questo autore, il processo sarebbe avvenuto invece nel 389, dopo la catastrofe gallica, e che sarebbe stato poi spostato al 391 per fare che Camillo fosse già condannato ed esule all'arrivo dei Galli; ma il Beloch (Römische Geschichte, pp. 117 e 304) ha dimostrato che la fonte della notizia in Diodoro collocava in realtà il processo nel 393, e che la data del 389 è frutto di una svista. Sulla natura del processo abbiamo versioni discordi: la più antica sembra quella che parla d'iniqua distribuzione o di sottrazione della preda di Veio, un crimine quindi di peculato. Un'altra versione parla invece di offese agli dei, per aver Camillo indossato nel trionfo l'abbigliamento di Giove e fatto tirare il suo cocchio da quattro cavalli bianchi; e questa versione alcuni pensano sia sorta nell'età cesariana, come protesta contro gli onori trionfali decretati a Cesare. Camillo andò prima della condanna in esilio ad Ardea, e la multa (da 15.000 a 500.000 assi a seconda delle fonti) gli fu quindi inflitta in contumacia. Alcuni moderni ritengono il processo e l'esilio o il solo esilio, inventati per fare che Camillo si trovasse lontano da Roma durante la catastrofe gallica e farlo poi ritornare al momento opportuno; ma, pur respingendo come fittizi o incontrollabili i particolari, il fatto, concordemente testimoniato, deve accettarsi come storico. In ogni caso, Camillo non figura nella prima parte del racconto della presa di Roma per opera dei Galli, e poiché Polibio dice che i Galli, concluso un patto coi Romani, se n'andarono con la preda (I, 6, 2; II, 18, 2; 22, 4), la critica moderna ritiene d'origine tarda ed escogitato allo scopo di cancellare l'onta del riscatto il famoso racconto, che mentre si stavano pagando ai Galli le 1000 libbre d'oro Camillo, richiamato con una legge dall'esilio ed eletto dittatore dai Romani rifugiatisi in Veio, sarebbe comparso in Roma con un esercito, gridando che col ferro e non con l'oro si salvava la patria e, dichiarato nullo il trattato conchiuso senza il dittatore, avrebbe sgominato i Galli. Sull'età e sui fatti che possono aver dato origine a questo celebre racconto si sono fatte molte ipotesi: il cosiddetto oro gallico custodito nel tempio di Giove Capitolino, e sulla cui provenienza gli antichi davano versioni varie, potrebbe aver fatto pensare che l'oro non fu pagato ai Galli, mentre altri ritengono che una sconfitta reale inflitta da Camillo a qualche banda vagante di barbari, possa aver dato origine al racconto. Camillo, dopo la vittoria, si sarebbe opposto ancora una volta, come dopo la presa di Veio, alla proposta di trasportare in quest'ultime città la sede dello stato romano (Livio, V, 49 seg.) e la questione sarebbe stata decisa dal comando del centurione, che passando per caso con la sua centuria attraverso il comizio, gridò: signifer statue signum: hic manebimus optime.
Camillo fu ancora interrex nel 389, ciò che presuppone il suo richiamo dall'esilio per la salvezza della patria minacciata, dopo la Catastrofe gallica, dalla ribellione dei Latini e dall'aggressione di tutti i suoi nemici tradizionali. Camillo, eletto dittatore nello stesso 389, soccorse l'esercito romano ridotto a mal partito dai Volsci, che vinse a Maecium presso Lanuvio; vinse quindi gli Equi, e infine a nord gli Etruschi che avevano preso Sutri. Con la preda furono fatte tres paterae aureae... quas cum titulo nominis Camilli aute Capitolium incensum in Iovis cella constat ante pedes Iunonis positas fuisse (Livio, VI, 4, 2); e contro questa testimonianza monumentale sembrano eccessivi i dubbi di alcuni moderni, che ritengono questa vittoria inventata per bilanciare la sconfitta avuta dai Galli o duplicazione di gesta anteriori. Tribuno militare consolare per la quarta volta nel 386, sconfisse i Volsci presso Satrico; ma fu richiamato al nord dagli Etruschi, ch'egli sconfisse. La somiglianza con la campagna del 389, fa dubitare che questa del 386 (al pari di quella del 381) ne sia un duplicato. Tribuno consolare per la quinta volta nel 384, Camillo si sarebbe opposto al tentativo di M. Manlio Capitolino di farsi tiranno; si narra anzi da qualche fonte di una dittatura di Camillo, che avrebbe assalito il Campidoglio occupato da Manlio; ma la notizia è sospetta. Tribuno consolare per la sesta volta nel 381, egli avrebbe condotto l'esercito contro i Volsci e i Prenestini, differendo però per prudenza la battaglia. La volle invece il giovane suo collega L. Furio Medullino, che, ridotto a mal partito, fu salvato da Camillo; ma questo racconto, che ritorna tante volte nella tradizione romana, è sospetto. Un fondo di vero pare invece abbia la notizia di una sua spedizione contro i Tusculani, che avevano prestato aiuto ai Volsci e che egli trovò pacifici; il senato perdonò loro, concesse la pace e poco dopo anche la cittadinanza. Camillo avrebbe rivestito per la quarta volta la dittatura per opporsi alle rogazioni Licinie-Sestie; ma non avendo ottenuto nulla, abdicò. Questa dittatura è tuttavia da molti ritenuta falsa. Nel 367, vecchio di ottant'anni e dittatore per la quinta volta egli avrebbe combattuto contro i Galli sull'Aniene o sui colli Albani e avrebbe trionfato (cfr. Livio, VI, 42, 4 segg.); ma poiché Polibio. II, 18, 6, dice che i Galli marciarono su Roma per la seconda volta trent'anni dopo l'Allia, la notizia è dalla maggior parte dei critici respinta. Nell'occasione di questa lotta con i Galli, Plutarco (Camillo 40, 4) ricorda alcune riforme introdotte da Camillo nell'armamento dei Romani; ma non sembra ad alcuni critici che ciò sia sufficiente per parlare, come molti moderni fanno, d'una vasta riforma degli ordinamenti militari romani proprio per opera di Camillo, per quanto l'esperienza disastrosa della prima lotta coi Galli non possa non aver suggerito ai Romani delle riforme militari. Nello stesso anno Camillo sarebbe intervenuto ancora nell'agitazione per le leggi Licinie-Sestie, che egli avrebbe finito per far accettare ai patrizî, per pacificare gli animi; in quest'occasione avrebbe votato il tempio alla Concordia nel Foro. Camillo sarebbe morto nel 365 durante una pestilenza. Sui rostri nel Foro v'era una statua in bronzo molto antica di Camillo, forse con iscrizione, onore straordinario nella Roma del principio del sec. IV, e che testimonia l'impressione che sui contemporanei fece questo grande uomo, che fu sei volte a capo dello stato come tribuno militare con potestà consolare (uno degli esempi più notevoli d'iterazione di magistratura) e parecchie volte dittatore, e che la tradizione proclamò "secondo fondatore di Roma" (Plutarco, Camillo, 1, 1). Disgraziatamente la tradizione sugli avvenimenti nei quali egli ebbe parte è giunta sino a noi in molti punti confusa e sospetta di alterazioni e gravi rimaneggiamenti; tanto che alcuni (Beloch) ritennero apocrifo tutto quello che di Camillo si racconta dopo la sua condanna; altri (Münzer) tutte le notizie dopo il 386; le cariche ordinarie da lui sostenute cessano col tribunato del 381, che alcuni ritengono perciò l'ultima testimonianza sicura della sua attività.
Dopo essersi assicurati la pace sugli altri fronti, Romani e Veienti erano pronti allo scontro con un accanimento e un odio reciproco tali che era chiaro sarebbe stata la fine per chi ne fosse uscito sconfitto. I due popoli tennero i comizi in maniera del tutto diversa. I Romani aumentarono il numero dei tribuni militari con potere consolare. Ne vennero eletti otto, cosa che non aveva precedenti in passato: Manio Emilio Mamerco, Lucio Valerio Potito (rispettivamente per la seconda e la terza volta), Appio Claudio Crasso, Marco Quintilio Varo, Lucio Giulio Iulo, Marco Postumio, Marco Furio Camillo e Marco Postumio Albino. I Veienti, invece, nauseati com'erano dal ripetersi anno per anno delle beghe elettorali che nel frattempo erano state causa di discordie interne, nominarono un re. Questo provvedimento indispettì le popolazioni etrusche, meno per risentimento verso la monarchia che non per antipatia nei confronti della persona scelta come sovrano eletto. Anche se i Romani venivano informati che in Etruria la situazione era tranquilla, ciò nonostante - visto che a quanto si riferiva la cosa era il tema centrale di tutte le assemblee - costruivano delle fortificazioni tali da garantire una protezione sui due lati: da una parte verso la città e contro eventuali sortite degli assediati, dall'altro in direzione dell'Etruria per tagliare la strada ai rinforzi, nel caso ne fossero arrivati da quella parte. Siccome i comandanti romani riponevano maggiori speranze di successo nell'assedio piuttosto che nell'assalto, venne iniziata la costruzione addirittura di baraccamenti invernali (cosa del tutto ignota ai soldati romani), e si decise di continuare la guerra rimanendo nei quartieri invernali. Ma mentre Appio Claudio convinceva il senato sulla scelta di mantenere per così tanto tempo soldati attorno alle mura di Veio, all'improvviso un disastro subito dall'esercito nei pressi di Veio (cioè da quella zona dove meno lo si sarebbe previsto) fece prevalere la causa di Appio, consolidando la concordia tra le classi e rinfocolando l'ardore degli animi nel proposito di proseguire l'assedio di Veio con maggiore tenacia. Il terrapieno costruito dai Romani era ormai vicinissimo alla città e ormai restava soltanto da accostare le 'vigne' alle mura. Ma siccome l'impegno profuso nei lavori era superiore a quello dedicato alla vigilanza notturna, all'improvviso si spalancò una porta della città e ne fuoriuscì una massa enorme di nemici armati soprattutto di torce accese, e nello spazio di un'ora un incendio divorò contemporaneamente il terrapieno e le vigne, costruite a prezzo di lunghi e spossanti sforzi. E là molti soldati che cercavano inutilmente di portare aiuto vennero uccisi dal fuoco o dalle spade nemiche. Cambiarono i tribuni militari con potestà consolare nell'anno successivo, e furono Gaio Servilio Aala (per la terza volta), Quinto Servilio, Lucio Verginio, Quinto Sulpicio, Aulo Manlio e Manio Sergio (entrambi per la seconda volta). Durante il loro mandato, a Veio, che costituiva in quel momento il centro delle preoccupazioni pubbliche, le cose non andarono meglio. Infatti i comandanti romani dimostravano di avere più risentimento reciproco che coraggio contro i nemici, e le proporzioni del conflitto vennero modificate dall'intervento improvviso dei Capenati e dei Falisci. Questi due popoli dell'Etruria, essendo i più vicini della zona, e credendo che una volta caduta Veio sarebbero stati i più esposti alla minaccia di un'aggressione armata da parte di Roma (e in particolar modo i Falisci, si sentivano in pericolo per aver partecipato alla guerra dei Fidenati), dopo essersi scambiati ambascerie e aver cementato col giuramento il vincolo che li legava, si presentarono all'improvviso a Veio con gli eserciti. Per caso assalirono l'accampamento nella zona comandata dal tribuno militare Manio Sergio e vi seminarono il terrore, facendo credere ai Romani che l'intera Etruria, trascinata dalle sue sedi, fosse scesa in campo con gran spiegamento di forze. La stessa idea infiammò i Veienti chiusi in città. Così l'accampamento romano era attaccato su due fronti: e pur trasferendo con corse disperate le varie unità da una parte e dall'altra, non riuscivano né a contenere in maniera sufficiente i Veienti nell'interno delle loro fortificazioni, né a respingere l'assalto portato alle proprie difese e a resistere al nemico esterno. La sola speranza era che arrivassero rinforzi dall'accampamento centrale, in modo tale che le legioni, schierate su fronti diversi, potessero le une combattere contro Capenati e Falisci e le altre arginare la sortita degli assediati. Ma a capo dell'accampamento c'era Verginio che per ragioni personali detestava e odiava Sergio. Verginio, nonostante fosse arrivata la notizia che buona parte dei fortini era stata assalita, che i dispositivi di difesa erano stati scavalcati e che i nemici si stavano riversando nell'accampamento da una parte e dall'altra, trattenne gli uomini con le armi in pugno, sostenendo che se il collega avesse avuto bisogno di aiuto gliene avrebbe fatto richiesta. L'arroganza di Verginio era pari all'ostinazione di Sergio, il quale, per non dare l'impressione di chiedere aiuto al suo avversario, preferì lasciarsi vincere dal nemico piuttosto che vincere grazie all'intervento di un concittadino. Il massacro dei soldati romani presi nel mezzo durò a lungo. Alla fine, quando ormai i dispositivi di difesa erano stati abbandonati, in pochissimi ripararono nell'accampamento centrale, mentre la maggior parte dei superstiti e lo stesso Sergio si diressero verso Roma. Ma ormai a Veio si moltiplicarono gli allarmi dovuti a tre guerre contemporanee confluite in un unico conflitto generale. Com'era infatti già successo in precedenza, Capenati e Falisci arrivarono all'improvviso a dare manforte ai Veienti e così i Romani combatterono con esito incerto, intorno alle fortificazioni, contro tre eserciti contemporaneamente. Più di ogni altra cosa giovò il ricordo della condanna inflitta a Sergio e a Verginio. Così, dall'accampamento principale (proprio dove nella precedente occasione si era verificato il fatale ritardo) vennero inviati dei rinforzi che, con una rapida manovra di accerchiamento, aggredirono alle spalle i Capenati schierati di fronte alla trincea dei Romani. L'inizio della battaglia da quel punto seminò il panico anche tra i Falisci e bastò una sortita tempestiva dall'accampamento per metterli in fuga nel pieno dello spavento. E mentre si ritiravano, vennero raggiunti dai vincitori che li massacrarono senza pietà. Poco tempo dopo, i Romani che stavano devastando il territorio di Capena si imbatterono quasi per caso nei superstiti sbandati e li sterminarono. Quanto ai Veienti, molti tentarono di rifugiarsi in città, ma vennero uccisi davanti alle porte quando, per paura che i Romani potessero riversarsi all'interno insieme a loro, da dentro sbarrarono gli ingressi tagliando così fuori i compagni rimasti più indietro. Ormai i giochi e le feste latine erano stati riorganizzati, l'acqua in eccesso era stata fatta defluire dal lago Albano e il giorno fatale della fine di Veio era sempre più vicino. E fu così che il generale chiamato dal destino a distruggere quella città e a salvare il proprio paese, e cioè Marco Furio Camillo, venne eletto dittatore e a sua volta nominò maestro della cavalleria Publio Cornelio Scipione.
Il cambio alla testa dell'esercito modificò in maniera repentina ogni cosa: erano riapparsi la speranza e lo spirito di un tempo e persino la fortuna di Roma sembrava diversa e rinnovata. Innanzitutto, il dittatore si occupò di quei soldati che erano fuggiti da Veio nel pieno del panico: punendoli con la severità prevista dal codice militare, fece capire ai propri uomini come il nemico non fosse il peggiore spauracchio in guerra. Poi, dopo aver indetto la leva militare per un giorno determinato, nell'intervallo di tempo che lo separava da quella data corse a Veio per incoraggiare le truppe. Quindi tornò a Roma dove arruolò un nuovo esercito senza dover affrontare alcun caso di renitenza alla leva. Addirittura, da fuori, dai Latini e dagli Ernici, si presentarono contingenti di giovani e offersero il proprio contributo per quel conflitto: il dittatore li ringraziò di fronte al Senato. E siccome tutto era pronto in vista della guerra, in conformità a un decreto del Senato, Camillo promise in maniera solenne che, qualora Veio fosse caduta in mano dei Romani, avrebbe celebrato i Ludi Magni, restaurato e riconsacrato il tempio della Madre Matuta, un tempo già consacrato dal re Servio Tullio. Quando lasciò Roma alla testa dell'esercito, le aspettative della gente superavano addirittura le speranze. Giunto nel territorio di Nepi, il suo primo scontro armato fu con Falisci e Capenati. In quell'occasione, come spesso succede, la sua condotta, strategicamente perfetta sotto ogni aspetto, venne accompagnata anche dalla fortuna. Camillo non si limitò però a sbaragliare i nemici in battaglia, ma li privò anche dell'accampamento impadronendosi di un enorme bottino, la maggior parte del quale venne consegnato al questore, lasciando così ben poca roba ai soldati. Di lì guidò quindi l'esercito alla volta di Veio dove incrementò le opere di fortificazione impiegandovi i soldati, ai quali vietò di combattere senza ordini precisi, ponendo così termine alle frequentissime scaramucce che si verificavano nello spazio compreso tra il muro della città e il fossato dell'accampamento. Dette, poi, inizio a un lavoro molto più importante e faticoso di tutti gli altri: un cunicolo sotterraneo diretto verso la cittadella. Per evitare interruzioni nella costruzione ed eccessi di fatiche sobbarcate sotto terra sempre dagli stessi uomini, il dittatore li divise in sei squadre, ciascuna con un turno di sei ore. Si potè così procedere in maniera incessante giorno e notte, fino a quando il camminamento non ebbe raggiunto la cittadella nemica. Il dittatore si rese conto che ormai la vittoria era a portata di mano: una città ricchissima stava per essere conquistata e la preda sarebbe stata enorme, quale non avevano dato tutte le guerre precedenti messe insieme. Di conseguenza, per evitare di incappare nel risentimento dei soldati per una spartizione taccagna del bottino o di suscitare il malcontento dei senatori con una divisione eccessivamente prodiga, scrisse una lettera al Senato nella quale diceva che grazie al favore degli dei immortali, alla sua condotta strategica, alla costanza dello sforzo da parte delle truppe la città di Veio sarebbe presto finita in mano al popolo romano. Che cosa ritenevano si dovesse fare con il bottino? Il senato era diviso tra due diverse risoluzioni. La prima, avanzata dall'anziano Publio Licinio (che, stando alla tradizione, sarebbe stato il primo a parlare su richiesta del figlio), suggeriva di proclamare pubblicamente al popolo che chi avesse voluto partecipare alla spartizione del bottino si sarebbe dovuto recare all'accampamento sotto Veio. L'altra fu sostenuta da Appio Claudio: considerando quell'inedita elargizione eccessiva, avventata, e ineguale, egli riteneva che, se il versare nelle casse dello Stato stremate dalle guerre il denaro sottratto ai nemici veniva considerato un delitto, sarebbe stato consigliabile utilizzare quella enorme somma per il pagamento degli stipendi ai soldati, in maniera tale da alleviare in parte la plebe dalla contribuzione di quella tassa. Con questo sistema tutte le famiglie avrebbero risentito in maniera uguale del beneficio di quell'elargizione, evitando così che gli sfaccendati della città, abituati com'erano al saccheggio, mettessero le grinfie sui premi destinati ai combattenti valorosi (poiché succede sempre che chi di solito cerca la parte più rilevante di pericoli e fatiche poi risulta più lento quando si tratta di mettere le mani sulla preda). Licinio sosteneva invece che quel denaro sarebbe sempre stato motivo di sospetti e gelosie, offrendo così il destro per accuse di fronte alla plebe, disordini e leggi rivoluzionarie. Sarebbe stato di gran lunga preferibile riconciliarsi con quell'elargizione la simpatia dei plebei, venendo loro in aiuto nello stato di prostrazione e miseria nella quale erano stati trascinati da anni di tassazioni belliche, e offrendo così nel contempo l'opportunità di godere del frutto del bottino fatto in una guerra che li aveva visti quasi diventar vecchi. Per tutti sarebbe stata una gioia ben più forte riportarsi a casa ciò che ciascuno di essi aveva strappato con le proprie mani al nemico, piuttosto che ottenere un premio molto più grande ad arbitrio di altri. Oltretutto anche il dittatore avrebbe evitato il malcontento e le accuse che ne sarebbero derivate. E per questo aveva rimesso al Senato la decisione. Quindi anche il Senato doveva delegare alla plebe la risoluzione che gli era stata addossata, lasciando così che a ciascun combattente restasse ciò che le sorti della guerra potevano aver dato. Questo suggerimento sembrò il più sicuro in quanto avrebbe reso popolare il Senato. Perciò venne annunciato che chi avesse voluto prendere parte alla spartizione del bottino di Veio avrebbe dovuto recarsi all'accampamento del dittatore. Un'enorme massa di persone si mise in movimento e andò a riversarsi nell'accampamento. Il dittatore allora, dopo aver tratto gli auspici, uscì dalla tenda e diede ordine alle truppe di armarsi.
"Sotto il tuo comando" - disse poi -", o Apollo Pizio, e ispirato al tuo volere, mi accingo a distruggere la città di Veio e a te dedico la decima parte del bottino che ne verrà tratto. Ma nello stesso tempo imploro te, o Giunone Regina, che adesso dimori a Veio, di seguire noi vincitori nella nostra città presto destinata a diventare anche la tua, dove ti accoglierà un tempio degno della tua grandezza". Dopo aver innalzato queste preghiere, il dittatore, forte di un numero soverchiante di uomini, si buttò all'assalto della città aggredendola da ogni parte, in maniera tale che gli abitanti si rendessero conto il meno possibile del pericolo che incombeva sulle loro teste dalla galleria sotterranea. I Veienti, non sapendo che tanto i vati di casa quanto gli oracoli stranieri li davano già per spacciati e che alcune divinità erano già state chiamate a dividere le loro spoglie, mentre altre, invitate con suppliche ad abbandonare Veio, stavano già cominciando a vedere nei santuari dei nemici le loro nuove dimore, e ignorando che quello era destinato ad essere il loro estremo giorno di vita, siccome l'ultima cosa di cui potevano aver paura erano l'idea di un cunicolo scavato sotto le fortificazioni e l'immagine della cittadella ormai piena di nemici, si armarono ciascuno per proprio conto e si andarono a riversare sulle mura. E si chiedevano con meraviglia come mai, mentre per tanti giorni non c'era stato un solo Romano che si fosse mosso dai posti di guardia, adesso, come spinti da un furore improvviso, si riversassero in massa alla cieca contro le mura. A questo punto si inserisce una leggenda: mentre il re dei Veienti era intento a celebrare un sacrificio, nella galleria si sarebbe udita la voce dell'aruspice dire che la vittoria avrebbe premiato chi fosse riuscito a tagliare le viscere di quella vittima. Questa voce avrebbe spinto i soldati romani a sfondare l'ingresso della galleria e a impossessarsi delle viscere riportandole al dittatore. Trattandosi di vicende così antiche sarei già contento se il verosimile fosse accettato come vero: ma racconti come questo sembrano adatti al palcoscenico di un teatro (dove c'è l'abitudine a compiacersi del meraviglioso) più che alla credibilità di un'opera storica, e non vale la pena né di rifiutarli in blocco né di accettarli passivamente. La galleria, piena com'era in quel momento di truppe scelte, all'improvviso riversò il suo carico di armati all'interno del tempio di Giunone sulla cittadella di Veio: parte di quegli uomini prese alle spalle i nemici piazzati sulle mura, parte andò a svellere dai cardini le sbarre che chiudevano le porte e altri ancora appiccarono il fuoco alle case dai cui tetti i servi e le donne scagliavano una gragnuola di sassi e tegole. Dappertutto echeggiavano clamori: alle urla minacciose degli aggressori miste ai suoni spaventati degli assaliti si univano le lacrime delle donne e dei bambini. In un attimo tutti gli uomini armati vennero scaraventati già dai vari punti delle mura e le porte si spalancarono, permettendo così a parte dei Romani di riversarsi all'interno in formazione compatta e ad altri di scalare le mura ormai prive di difesa. La città straripava di nemici. Si combatteva dovunque. Poi, quando il massacro era già arrivato all'estremo, la battaglia comincia a perdere d'intensità e il dittatore attraverso gli araldi ordinò agli uomini di risparmiare chi non era armato. Questa mossa pose fine alla carneficina. Quanti non portavano armi iniziarono allora a consegnarsi spontaneamente, mentre i soldati romani ottennero dal dittatore via libera al saccheggio. Poiché gli oggetti accatastati di fronte ai suoi occhi si rivelarono più numerosi e preziosi di quanto non fosse dato sperare o supporre, si racconta che il dittatore innalzò questa preghiera con le mani levate al cielo: se la fortuna sua e del popolo romano sembrava eccessiva a qualcuno tra gli dei e tra gli uomini, che almeno quella gelosia potesse venir placata con il minor danno per sé e per il popolo romano. Pare che mentre si girava nel corso della preghiera agli dei Camillo scivolasse e perdesse l'equilibrio finendo a terra. Quando a fatti compiuti si cominciò a congetturare sull'episodio, sembrò che quel sinistro presagio dovesse esser messo in relazione tanto alla condanna inflitta in seguito a Camillo, quanto alla catastrofica caduta di Roma avvenuta pochi anni dopo. Nell'arco di quell'intera giornata, i Romani non fecero altro che massacrare i nemici e saccheggiare le ricchezze infinite di quella città. Il giorno dopo il dittatore vendette come schiavi tutti gli abitanti di condizione libera. La somma che se ne ricavò fu il solo denaro finito nel tesoro dello Stato, non senza ira della plebe. Quanto poi al bottino che i soldati riuscirono a portarsi a casa, dissero di non doverlo né al comandante, reo di aver rimesso al senato una decisione di sua competenza, per trovare dei responsabili per la sua avara distribuzione, né tantomeno al senato, bensì soltanto alla famiglia Licinia, tra i cui membri c'era stato un figlio relatore al senato di una legge così favorevole al popolo e proposta dal padre. Quando i beni privati erano già stati asportati da Veio, i vincitori cominciarono a portarsi via anche i tesori degli dei e gli dei stessi, pur facendolo però con spirito di autentica devozione e non con foga da razziatori. Infatti all'interno di tutto l'esercito vennero scelti dei giovani che, dopo essersi lavati accuratamente e aver indossato una veste bianca, ebbero l'incarico di trasferire a Roma Giunone Regina. Una volta entrati nel tempio pieni di reverenza, essi in un primo tempo accostarono piamente le mani al simulacro della dea perché secondo la tradizione etrusca quell'immagine non doveva esser toccata se non da un sacerdote proveniente da una certa famiglia. Poi, quando uno di essi, vuoi per ispirazione divina, vuoi per celia giovanile, disse, rivolto al simulacro: "Vuoi venire a Roma, Giunone?", tutti gli altri gridarono festanti che la dea aveva fatto un cenno di assenso con la testa. In seguito alla storia venne anche aggiunto il particolare che era stata udita la voce della dea rispondere di sé. Di certo però sappiamo che (come se la statua avesse voluto seguire volontariamente quel gruppo di giovani) non ci vollero grossi sforzi di macchine per rimuoverla dalla sua sede: facile e leggera a trasportarsi, la dea approdò integra sull'Aventino, in quella zona cioè che le preghiere del dittatore avevano invocato come la sede naturale a lei destinata per l'eternità e dove in seguito Camillo le dedicò il tempio da lui stesso promesso nel pieno della guerra.
Questa fu la fine di Veio, la città più ricca di tutto il mondo etrusco e capace di dare prova della propria grandezza anche nel momento estremo della disfatta: dopo un assedio durato dieci estati e altrettanti inverni durante i quali aveva inflitto perdite ben più gravose di quante non ne avesse subite, alla fine, anche se incalzata ormai anche dal destino avverso, ciò non ostante fu espugnata grazie all'ingegneria militare e non alla forza vera e propria. Quando a Roma arrivò la notizia della caduta di Veio, anche se i prodigi erano stati espiati e tutti ormai erano a conoscenza dei responsi degli aruspici e dell'oracolo della Pizia, e per quanto i Romani, scegliendosi come comandante il più grande generale che ci fosse in circolazione (e cioè Furio Camillo), avessero fatto tutto quello che era in loro potere per sostenere la causa comune, ciò nonostante - visto che la guerra si era trascinata con alterne fortune per così tanti anni e le disfatte subite non erano state certo poche - in città l'esplosione di gioia fu incontenibile come se quell'esito fosse insperato. Nel frattempo Volsci ed Equi inviarono dei delegati a intavolare trattative di pace: e se essa venne concessa, non fu tanto perché ne fossero degni coloro che la richiedevano, quanto piuttosto perché il paese avesse modo di riprendere fiato stremato com'era dopo una guerra così lunga.