Battaglie In Sintesi
2 - 3 maggio 1815
Nacque a Vienna il 1º febbraio 1768 da padre comasco, ivi trasferitosi come intendente dei beni del principe di Liechtenstein, e da madre austriaca. Rimasto orfano, fu ammesso all'Accademia di ingegneria, da dove uscì ufficiale del genio nel 1788. Combatté nel 1789 contro i Turchi e nel 1792, allo scoppio della guerra contro la Francia rivoluzionaria, passò tra le truppe del principe di Hohenlohe, battendosi poi a Landau (1792), a Valenciennes (1793), Landrecy (1794), e restando ferito a Charleroi (1794). Conseguito il grado di capitano, si distinse nel 1795 all'assedio di Mannheim, e l'anno seguente prese parte alla conquista di Brescia; si impegnò quindi negli scontri di Arcole e Rivoli, finendo però prigioniero nella successiva ritirata (1797). Liberato poco dopo, combatté al Tagliamento con l'esercito dell'arciduca Carlo e rimase in Italia anche dopo la pace di Campoformio, come aiutante d'ala del principe d'Oranges. Col grado di generale, partecipò a tutte le battaglie in Germania contro i Francesi. Nel 1812 prese parte, col contingente del principe di Schwarzenberg, alla campagna di Russia, imposta da Napoleone all'Austria, ma allorché questa insorse contro l'egemonia francese, egli tornò ad affrontare gli eserciti napoleonici nelle battaglie di Dresda e di Lipsia, contrapponendosi con la sua divisione al corpo di J. Poniatowski. Passò quindi all'inseguimento oltre il Reno delle forze francesi e, dopo la caduta di Lione, alla quale contribuì, avanzò verso l'Italia per minacciare l'esercito di Eugenio di Beauharnais. Terminate le operazioni, il Bianchi fu chiamato a far parte del Consiglio aulico di guerra in Vienna, ma nel marzo 1815, in seguito all'improvvisa avanzata del re di Napoli Gioacchino Murat verso il nord, assunse in Italia il comando delle truppe collocate sulla destra del Po.
Sostenuto il 4 aprile, al ponte di Sant'Ambrogio sul Panaro, il primo urto delle truppe murattiane, il 10 passò alla controffensiva avanzando, con successivi combattimenti, fino a Bologna. Essendo frattanto partito il generale Frimont per combattere Napoleone tornato in Francia, il Bianchi assunse il comando delle forze austriache in Italia (l'"armata di Napoli"): con un piano ardito le scisse in due masse, affidando la minore al Neipperg per un diretto inseguimento dei Napoletani, accompagnato da azioni di disturbo, mentre lui stesso muoveva con l'altra in direzione di Firenze, per poi proseguire verso Perugia e Foligno, passare gli Appennini a Colfiorito e Serravalle e quindi, per la valle del Chienti, Tolentino e Macerata, piombare su Ancona, tagliando la ritirata al Murat. Tale strategia era così azzardata che il re, non credendo alla sua attuazione, desistette, per diffidenza, dall'attaccare le isolate forze del Neipperg e si scontrò, invece, con il grosso delle truppe austriache, che, agli ordini diretti del Bianchi, avevano compiuto la vasta manovra, nella decisiva battaglia di Monte Milone, presso Tolentino (2-3 maggio 1815). Conclusasi questa, dopo alterne vicende, con la vittoria austriaca, il Bianchi mosse all'inseguimento dell'esercito napoletano, rientrato, il 6 maggio, nei confini del Regno, e in un proclama emesso il 15 da Sulmona annunciò il ritorno di Ferdinando IV sul trono. Il 20, in una casa di proprietà della famiglia Lanza di Capua, a circa tre miglia dalla città, fu firmato il trattato, detto di Casa Lanza, tra il Bianchi che rappresentava l'Austria, lord Burghersh che rappresentava l'Inghilterra e i generali Carascosa e Colletta che rappresentavano Murat. All'intransigente richiesta dell'abdicazione di re Gioacchino il Bianchi unì un leale comportamento di vincitore, dando precise garanzie per la conservazione dell'esercito, il mantenimento dell'ordine, il rispetto delle cose e delle persone. Il restaurato sovrano borbonico, con decreto 15 ott. 1815, lo nominò duca di Casalanza e stabilì per lui un assegno annuo di 9.000 ducati; l'imperatore Francesco I lo decorò con la Gran Croce dell'Ordine della Corona di Ferro, di recente istituzione, e lo creò (5 agosto) barone. Terminata la campagna d'Italia, il 16 giugno il Bianchi partì per la Francia, dove si collegò con le truppe inglesi. Nel 1822 riprese il suo posto nel Consiglio aulico, uscendone nel 1824 in seguito a una malattia che lo costrinse anche ad allontanarsi dal servizio. Si stabilì allora nelle sue proprietà di Mogliano Veneto, presso Treviso, dove, durante l'insurrezione veneziana del 1848, ormai vecchio, fu tratto in arresto, come sospetto di sentimenti austriaci, tanto più che i suoi figli militavano tuttora nelle armi imperiali. Dopo due mesi di prigionia, durante i quali ricevette un rispettoso trattamento, fu liberato il 15 giugno dalle truppe del generale Welden, entrate in Treviso. Il Bianchi morì di colera il 21 agosto del 1855 a Sauerbrun (Rohitsch) in Slavonia, dove si era trasferito per tentar di sfuggire all'epidemia.
Nacque il 25 marzo 1767 da Pietro Murat-Jordy, albergatore e intendente dei beni posseduti dai Talleyrand nei dintorni di Labastide-Fortunière, oggi Labastide-Murat. Destinato dal padre alla carriera ecclesiastica, frequentò il collegio di Cahors e il seminario di Tolosa: ma l'amore per una fanciulla lo trasse fuori della strada che gli era stata prescelta, e, dopo essersi battuto per lei e aver consumato il poco denaro che possedeva, si arruolò volontario nel reggimento dei cacciatori delle Ardenne. Dagli studi non aveva ricavato che un po' di erudizione e una certa facilità di parola e di penna; era destinato a essere soltanto uomo d'azione, intemperante, incapace di trovare un sano equilibrio nella vita e di dominare lo spirito d'avventura e l'ardente brama di farsi strada a ogni costo nel mondo, che sempre lo signoreggiarono, rendendolo ottimo soldato sul campo di battaglia, dove era possibile conquistare rapidamente onori e gradi, ma politico inadatto a conservare in tempo di pace i fortunati profitti della guerra. Espulso dal corpo per insubordinazione contro il comandante (1789), nel 1791 entrò a far parte della guardia costituzionale di Luigi XVI; ma nel nuovo reparto non restò neppure un mese; conquistato dalle idee repubblicane si diede ai rivoluzionari. Denunziando come reazionari i suoi componenti, contribuì alla dissoluzione di quella guardia; servì da ufficiale nei cacciatori e nel corpo franco di usseri formato da Landrieux; e venuto in lotta con quest'ultimo, poté vantare benemerenze patriottiche, fra le quali il cambiamento in Marat del proprio nome. Di poi, nuove e, questa volta, effettive benemerenze acquistò il 13 vendemmiaio dell'anno IV, allorché si schierò in difesa della costituzione e d'ordine del Bonaparte s'impossessò di quaranta cannoni. Quel giorno si decise tutto il suo avvenire. Nominato generale di brigata il 2 febbraio del 1796 e poi aiutante di campo di Napoleone, si legò strettamente a quest'ultimo sino a divenire suo fedelissimo strumento. Nella seguente campagna di Egitto si batté eroicamente nella battaglia delle Piramidi, e fu il primo a muover l'assalto contro S. Giovanni d'Acri. Poi accompagnò il suo generale in Francia; e in Parigi il 18 brumaio alla testa di poche decine di granatieri s'impose al Consiglio dei cinquecento. Poco dopo ebbe la conferma del grado di generale di divisione, ottenuto in Egitto, il comando della guardia consolare e la mano di Carolina, sorella del primo console. Seguirono sempre maggiori onori. Partecipò alla battaglia di Marengo, comandò la cavalleria di riserva, l'esercito del mezzogiorno, le truppe stanziate nella Repubblica Italiana, costrinse alla pace di Firenze re Ferdinando di Napoli, prese possesso dell'isola d'Elba, fu incaricato di missioni diplomatiche presso il papa e il re di Napoli. Ritornato in Francia, fu governatore di Parigi e non negò il suo aiuto a Napoleone nella tragica esecuzione del duca d'Enghien, ottenendo in ricompensa centomila franchi. Nelle seguenti guerre tornò a essere eroico sino alla follia sul campo di battaglia, ricoprendosi di gloria ad Austerlitz; tra i primi a essere nominato maresciallo dell'impero, il 10 febbraio del 1805 fu creato principe imperiale e grande ammiraglio, il 15 marzo del 1806 granduca di Clèves e Berg, nel 1808 luogotenente generale in Spagna, e quando su questo trono salì Giuseppe Napoleone che lasciava la corona di Napoli, ottenne questo regno (con decreto firmato da Napoleone in Baiona il 15 luglio 1808 e con decorrenza dal 1° agosto).
Nello stato affidato alle sue mani l'opera di riorganizzazione politica ed economica era stata già iniziata da Giuseppe, ma ora si trattava non solo di completare siffatta opera, sibbene ancora di applicare tutte le norme legislative per trasformare completamente la vita del Mezzogiorno d'Italia, in tutti i suoi aspetti. E si può dire che re Gioacchino pienamente assolse al compito che si era assunto, sì che l'epoca del suo governo deve essere considerata come l'età nella quale il regno di Napoli abbandonò i suoi ordinamenti medievali e li sostituì con altri che si adattavano alle mutate condizioni dell'Europa. Magnifica, e, perché condotta contro l'Inghilterra, di risonanza europea, fu la prima impresa militare del nuovo monarca, che tolse agli Anglo-Siculi l'isola di Capri, centro di riunione dei nemici del nuovo regime instaurato nel Mezzogiorno; l'anno dopo, 1809, fu respinta una nuova spedizione anglo-sicula contro il regno; e poi, spesso con implacabile severità specialmente nelle Calabrie, ove il compito fu affidato al Manhès, fu represso il brigantaggio politico-sociale, che era reazione agli ordinamenti francesi. L'applicazione della legge francese sulla coscrizione militare - legge odiata sul principio, poi tollerata - permise la creazione di un forte esercito nazionale, che, dapprima inquadrato da ufficiali francesi, ebbe poi uno scelto corpo di ufficiali napoletani, istruitisi nelle armate napoleoniche o nelle scuole militari dello stato, saggiamente riordinate. Nel campo amministrativo fu perfezionato il sistema creato da Giuseppe; e, innovazione di grande importanza e ricca di benefici risultati, fu promulgato il Codice Napoleone, e, tranne in qualche periodo e in alcune regioni, furono soppressi i tribunali straordinari, sì che la giustizia fu impartita con saggi criteri di equanime moderazione. I lavori pubblici ebbero grande impulso con la costruzione di tutto un complesso di strade e di opere di notevole utilità. La rigida applicazione della legge sulla feudalità permise lo sfruttamento di vaste estensioni di terre sino allora incolte; e l'agricoltura ebbe maggiore sviluppo con la creazione di società agricole in tutte le provincie. Anche il sistema tributario fu riordinato, migliorata l'amministrazione del tesoro, creato con il Banco di Napoli un solido istituto di credito, data una nuova organizzazione alle opere di pubblica beneficenza. E finalmente molte cure furono rivolte all'istruzione, specialmente media ed elementare. In pochi anni la vita economica e morale del Mezzogiorno fu profondamente rinnovata. Gli ordinamenti militari diedero una disciplina del tutto nuova alla gioventù; e reggimenti napoletani si batterono con bravura non inferiore a quella degli alleati nelle guerre di Spagna e di Germania, accanto ai reparti italiani e francesi. L'eversione della feudalità e la quotizzazione delle terre portarono alla formazione del ceto medio, ché risale appunto a questo tempo e all'opera di Gioacchino l'origine della borghesia terriera nel Mezzogiorno, la quale ben presto divenne la vera dominatrice della vita del paese. E dalla borghesia uscì fuori una folta schiera di politici e di militari, direttamente interessati alla conservazione dei nuovi ordinamenti: profondi conoscitori, i primi, di questi ultimi, che essi stessi avevano creato, e desiderosi di perfezionarli; bramosi, i secondi, di accrescere sempre più le glorie belliche e le possibilità militari della giovane monarchia. Poi, con l'andar del tempo il loro programma politico si perfezionò, anche per effetto della propaganda antifrancese degli Anglo-Siculi, che diffondevano ideali d'indipendenza e di unità italiani e, attraverso le sette carbonare, ora sorte e creatrici di moti rivoluzionari nelle Calabrie e negli Abruzzi, ideali democratici. Tali ideali finirono con l'essere accarezzati anche dai sostenitori del regime murattiano, desiderosi di liberare il regno dall'influsso francese, di sostituire i funzionari e i militari non nazionali, di attuare riforme sempre più liberali, di ottenere anche istituzioni parlamentari, che lo statuto di Baiona, mai applicato, invano aveva concesso. Ma allora il Murat non seppe regolare lo sviluppo di questi sentimenti.
Napoleone aveva sempre avuto scarsa fiducia nei talenti politici del cognato e già prima che questi salisse sul trono di Napoli era spesso venuto in dissidio con lui. Poi tali dissensi divennero sempre più gravi dopo il 1808. Re Gioacchino rivelò subito il suo desiderio di rendersi indipendente dalla tutela francese, mentre per Napoleone lo stato napoletano doveva essere strumento della sua politica e doveva subordinare la propria vita alle esigenze della vita dell'impero. Così si oppose alle murattiane mire di espansione nel vicino regno di Sicilia (e la spedizione tentata nel 1810 contro i Borboni dell'opposta sponda dello Stretto di Messina ebbe infelice risultato); non volle diminuire i tributi imposti allo stato come partecipazione di un governo dipendente alle spese generali del governo dominatore; non volle permettere che il regno murattiano avesse una sua propria politica estera; negò il permesso di sostituire funzionari e ufficiali indigeni ai Francesi che occupavano le cariche più importanti. Sul principio il re dovette cedere. Ma le incertezze del suo governo, dibattuto fra opposti desideri e necessità, poiché rinfocolavano le passioni della nazione senza appagarle, non erano le più opportune a fissare su chiare basi la natura dei suoi rapporti con l'impero e a formare la coscienza politica del paese, sì da adattare quest'ultimo alle esigenze della vita dell'Europa, nella quale lo stato napoletano non poteva non essere considerato vassallo della Francia. E quando cominciarono i tristi giorni dell'impero, e, spinto dagli entusiasmi dei suoi sudditi e dalle tendenze stesse dell'animo, il re pensò di secondare i loro desideri e, anche nella speranza di salvarsi dal crollo dello stato napoleonico, volle atteggiarsi a sovrano indipendente e concesse le desiderate riforme liberali e rese nazionale il governo, apparve chiaro l'equivoco sul quale poggiava tutta la vita politica del Mezzogiorno, nell'impossibilità materiale di assicurarsi con le proprie armi quell'autonomia che bramava e che re Gioacchino gli aveva fatto sperare con troppa leggerezza, mentre era effettivamente legato con la fortuna e con la disgrazia di Napoleone. Molto probabilmente lo stato murattiano non si sarebbe potuto salvare nel mutato clima storico dell'Europa; ma la sua caduta poté essere attribuita agli errori politici del suo sovrano, il quale si alienò le simpatie degli amici e dei nemici e rivelò la sua incapacità a creare e a seguire una linea di condotta che conciliasse i suoi doveri di monarca devoto a chi tale lo aveva creato e di principe intelligente e accorto, sostenitore degl'interessi dei suoi sudditi. E del Murat non rimase intatta che la gloria conquistata sui campi di battaglia, e l'ultima impresa della sua vita - la spedizione nelle Calabrie - fu degna conclusione dell'esistenza di un uomo che tutti avevano unicamente considerato come guerriero nato e nella sua fine rivelò tutta la profonda debolezza del governo murattiano. Re Gioacchino si distaccò da Napoleone durante la triste ritirata che tenne dietro alla campagna di Russia, alla quale egli aveva partecipato dando nuova prova del suo meraviglioso ardimento: incaricato di assumere il comando delle truppe disperse, mentre l'imperatore si recava a Parigi, abbandonò al viceré Eugenio la direzione dell'impresa e si ritirò a Napoli. Seguirono le trattative con l'Austria e con l'Inghilterra, nelle quali il re si mostrò preoccupato unicamente di assicurarsi il possesso del proprio stato, mentre l'imperatore compiva gli ultimi tentativi per salvarsi dal disastro: ma la sua incerta condotta non era la più opportuna a persuadere gli alleati della lealtà della sua politica, ché ad essi non dava effettivi aiuti, non avendo il coraggio di prendere le armi contro Napoleone, mentre alla sua causa arrecava gravi danni. Poi a Vienna invano cercò di ottenere la conferma del suo titolo regio; e allora tentò la sorte delle armi, ancora una volta in tempo poco opportuno, ché non si preoccupò di mettersi d'accordo con Napoleone, il quale all'Elba già meditava la sua ultima impresa. Le sue forze, rivelatasi vana la speranza di ottenere l'aiuto di tutta l'Italia chiamata alle armi in nome della sua unità politica, si rivelarono impari ad affrontare gli Austriaci; dovette abbandonare lo stato. Seguirono giorni amarissimi, ché non poté trovare asilo in Francia: poi in Corsica preparò la spedizione armata nelle Calabrie, che avrebbe dovuto ridargli il possesso del regno, ma che si chiuse tristamente al Pizzo (13 ottobre 1815), con la sua fucilazione.
La controffensiva austriaca, partita gia' dal 10 aprile a Carpi, dava, insieme alla fine della neutralità austriaca, una accelerata al conflitto austro-napoletano nel quale ogni occasione che si fosse presentata a Murat doveva essere colta immediatamente. Ed in effetti, al re, la possibilità di battere colle forze riunite e annientare una delle masse nemiche si presento' eccome, nello specifico quella del Neipperg; l''obiettivo successivo sarebbe stato poi muovere contro il Bianchi; ed agire per linee interne, insomma, profittando del frazionamento delle forze avversarie. Ma il Murat presta poca fede alle notizie ricevute in proposito, ritiene troppo avventato il piano del Bianchi, e pensa che si tratti d'una finta dalla parte dell'Umbria per far disperdere e disseminare le forze napoletane: il grosso degli austriaci non può non essere di fronte a lui per vincolarlo e obbligarlo a battaglia! Cosi, quando nella notte sul 22 aprile, il Neipperg, occupata Forli', fa passare il Ronco a 7 battaglioni, l'intera divisione Lechi, di retroguardia, non osa assalirli, temendo che si tratti d'un tranello per impegnarla frontalmente e avvolgerla poi per la collina, e il Murat non disapprova tale operato e riunisce le sue 3 divisioni sui poggi fra il Ronco e il Savio, in posizione difensiva o al più difensiva-controffensiva di fronte a una possibile azione dell'esercito austriaco. Ma questo non attacca e la bella occasione va perduta. L'esercito si riunisce poi a Rimini e procede lungo l'Adriatico con la 2a divisione (D'Ambrosio) in testa, la 3a (Lechi) al centro, la la (Carascosa) di retroguardia. A Pesaro la Guardia si ricongiunge al grosso: Gioacchino dispone ora, grazie anche a qualche piccolo rinforzo pervenutogli dal regno, d'una massa di 30.000 uomini. Il 30 aprile il re è in Ancona, mentre l'esercito si trova fra Senigallia, ov'è la divisione Carascosa, e Macerata, ove s'è spinta la cavalleria della Guardia. In quello stesso giorno gli austriaci del Neipperg sono sul Cesano, pochi chilometri prima di Senigallia, mentre il Bianchi, passato l'Appennino, si trova a Tolentino, e spinge avanguardie su Macerata. Al Murat resta ancora un ampio spazio per la manovra per linee interne. Quello stesso giorno le avanguardie del Neipperg passano il Cesano e tentano una mossa avvolgente per la collina; respinti, tentano d'avanzare su Senigallia lungo la strada maestra; ma vigorosamente trattenuti di fronte e battuti di fianco dal fuoco d'una fregata e di varie barche cannoniere napoletane, ripassano il fiume in disordine. Il giorno dopo il Neipperg, che vorrebbe al più presto riunirsi al Bianchi, rinnova i suoi attacchi contro la divisione Carascosa; ma questa ha già ricevuto ordine di retrocedere su Ancona e Osimo, per minacciare di fianco il nemico che per Jesi e Filottrano voglia avanzare verso Macerata e verso Tolentino. Il re il 30, prima di mezzogiorno, ha saputo che il Bianchi è a Tolentino con un corpo d'armata; per quanto dolorosamente smentito nelle sue previsioni, ha subito adeguatamente disposto per muovere con 2 divisioni e la Guardia, ossia con circa 20.000 uomini contro i 14.000 del suo avversario, concentrando le proprie forze in Macerata. Dopo di che potrà volgersi contro il Neipperg.
I diversi reparti si vanno concentrando in Macerata il 1° maggio e nel corso della giornata successiva; ma già la mattina del 2, Murat con le prime forze a disposizione, vale a dire il grosso della divisione D'Ambrosio e la cavalleria della Guardia, esce da Macerata e avanza in direzione di Tolentino, fra il Cruenti e i poggi di destra, solcati spesso da valloncelli e burroni, ed estendendo l'azione anche sul versante opposto, verso il Potenza. Egli intende allontanare il nemico da Macerata, garantendo la riunione delle proprie forze, e riconoscere quelle del nemico, nonché il terreno dove l'indomani intende dare la battaglia decisiva contro la branca di destra delle forze austriache. Il Bianchi, analogamente, si è fatto avanti da Tolentino con circa 6000 uomini e un migliaio di cavalieri. Già alle sei di mattina ha inizio il fuoco: i napoletani avanzano per due terzi all'incirca della strada da Macerata a Tolentino, poi dopo alterne vicende, in cui le posizioni passano da una mano all'altra, vengono fermati. Il calar delle tenebre sospende la lotta. I napoletani tuttavia hanno guadagnato terreno e fatto 300 prigionieri; il loro morale è sollevato. È rimasto però ferito il comandante della 2a divisione, l'energico D'Ambrosio. Dal canto suo il Bianchi, pur comprendendo che il Neipperg non farà a tempo a unirsi a lui, e che di conseguenza dovrà sostenere l'urto del grosso dell'esercito napoletano, decide d'accettare la battaglia, fidando nel vantaggio che il terreno può offrire a una battaglia difensiva.
Il primo urto, il 2 maggio, pur avvenendo sopra un ampio fronte, fra il Chienti e il Potenza, ha avuto come direttrice principale il fondovalle del Chienti e la strada Macerata-Tolentino; e qui si è trovato anche il Bianchi in persona. Il mattino del 3, alle sei, la lotta si riaccende di nuovo al basso, presso la riva sinistra del fiume, ove una taverna, il ponte d'un torrentello e un poggio alquanto prominente, rafforzati dall'artiglieria, costituiscono la prima linea austriaca. Quivi gli austriaci hanno circa 6000 fanti, un migliaio di usseri e dragoni e 12 cannoni. Più in alto, sulla collina in prosecuzione del poggio, sono altri 3000 uomini. Il Bianchi avvia poi, dal lato del Potenza, un battaglione (1000 uomini) e dall'altro lato, a destra del Chienti, un altro battaglione e il contingente estense, in tutto 3000 uomini, per guardarsi sempre meglio i fianchi da un'eventuale duplice azione avvolgente a più ampio raggio, ed esercitare a sua volta una minaccia su entrambi Ì fianchi contro gli assalitori; e tiene 2 battaglioni in riserva. Alle sei del mattino, dunque, Murat attacca in fondovalle con la Guardia e il 10° fanteria, giuntogli da pochi giorni: 6600 fanti e 800 cavalli contro 6000 fanti e 900 cavalli degli austriaci. La 2a divisione (ora nelle mani del generale D'Aquino, comandante della la brigata, dopo la ferita del D'Ambrosio) e la 3a (Lechi), quest'ultima con 4 battaglioni ancora in marcia, si trovano in Macerata o nelle vicinanze; e la la divisione (Carascosa) rimane inutilizzata in osservazione a Osimo e con 3 battaglioni in Ancona.
Alle sei del mattino, dunque, la Guardia e il 10° fanteria avanzano con bello slancio e prendono la Taverna, in basso, mentre un battaglione di veliti, formato dai resti della divisione di Danzica, conquista l'altura. Ma gli austriaci ben presto contrattaccano: la lotta si fa sanguinosa, le posizioni conquistate vengono mantenute, ma l'avanzata non procede, e per di più gli austro-estensi dall'altra riva del Chienti avanzano, disturbando col loro fuoco. Alle dieci arrivano i primi 4 battaglioni della divisione Lechi, la quale, poiché uno è rimasto alla stretta di Filottrano, ne conta ora 10, e 3 squadroni. Il re ordina che 6 battaglioni e 2 squadroni di tale divisione si portino sulla destra del Chienti, per respingere gli austro-estensi e minacciare alle spalle Tolentino. Calcola che per l'una dopo mezzogiorno essi possano far sentire energicamente la loro azione. Al tempo stesso ordina al generale D'Aquino che con 8 dei suoi 11 battaglioni - 3 sono di presidio verso il Potenza - avanzi lungo la dorsale spartiacque fra Potenza e Cruenti, in modo da respingere la sinistra austriaca e far cadere per manovra la difesa nemica del fondovalle e del poggio immediatamente sovrastante. Una duplice azione avvolgente, dunque. In Macerata o nelle vicinanze restano però troppe forze: 4 battaglioni e uno squadrone della divisione Lechi, 3 battaglioni e 4 squadroni di cavalleria dell'altra divisione. E poi molto meglio sarebbe stato portare tutti o quasi tutti i 6 battaglioni e i 2 squadroni, mandati sulla destra del Chienti, a rinforzare l'attacco al basso, sulla destra del fiume; e anche si doveva avere il coraggio, in una lotta decisiva, di richiamare una brigata della divisione Carascosa. In questo modo il re si priva di oltre metà delle sue forze: contro i 15 000 austriaci del Bianchi, di cui un migliaio a cavallo, sono impegnati 11 o 12.000 uomini, di cui un migliaio scarso a cavallo! E quelle forze fossero state almeno impiegate bene! Da un lato il Lechi tarda a mettere in moto le sue truppe, adducendo - ed era anche argomento valido - la necessità dì far mangiare i soldati e di trovare i viveri; dall'altro il D'Aquino dapprima reclama 2 cannoni in posizione favorevole per proteggere il movimento, poi, ottenutili, vuole cavalleria, pur in un terreno poco conveniente, temendo per il suo fianco destro. Al re non pare necessaria, ed egli allora dispone i suoi 8 battaglioni in 4 quadrati, formazione poco adatta in quel terreno, ma utile contro la cavalleria, sui fianchi. Finalmente, alle due pomeridiane, si mette in moto: sono 5000 uomini che muovono contro 3 battaglioni austriaci, 3000 uomini, schierati uno dietro l'altro. Precedono 4 compagnie di volteggiatori, che devono mettersi in linea coi tiragliatori della Guardia disseminati sul poggio degradante a sinistra; e seguono i 4 quadrati. I volteggiatori, affrontati da cacciatori austriaci e presi di fianco dalla cavalleria nemica, subiscono perdite gravi, finché uno squadrone di lancieri, mandato dal re, non giunge a disimpegnarli. I quadrati dovrebbero ora discendere in un avvallamento, risalirlo, superando anche un fosso scavato a bella posta dagli austriaci, e poi scendere al basso, verso il Chienti, per il nuovo poggio, prendendo alle spalle la sottostante difesa nemica di fondovalle. Il terreno è viscido per la pioggia della notte. Il primo quadrato avanza fino al fosso; qui è fermato dalla fucileria nemica, mentre l'artiglieria lo batte di fianco; alla fine si scioglie e i soldati ripiegano confusamente. Avanza il secondo quadrato e si ripete la stessa scena. Non solo; ma ora il Bianchi, il quale ha ben compreso che la battaglia non si deciderà più al basso, ma in alto e si è recato da questo lato,dispone il contrattacco: un battaglione in testa, preceduto da tiragliatori, e 2 in colonna alle ali, fiancheggiati a loro volta da cavalleria (dragoni); e 3 cannoni a sostegno contro 2 dei napoletani. Di fronte alla superiorità tattica dell'avversario il terzo quadrato non regge, e meno che mai la massa degli elementi dei due quadrati già battuti, che si stanno a fatica ricostituendo; solo il quarto si mantiene compatto e trattiene il nemico, consentendo alle altre truppe di riordinarsi e di retrocedere verso le alture da cui erano partite. E il nemico tosto si ferma. L'attacco al basso è stato presto contenuto, nonostante l'innegabile valore delle truppe e il prodigarsi degli ufficiali; quello dall'alto è fallito: di fronte al mirabile coordinamento degli sforzi da parte austriaca e all'intelligente sfruttamento del terreno, i napoletani hanno agito con formazione tattica difettosa, scarso e tardivo appoggio di cavalleria (mentre a Macerata sono ben 5 squadroni inattivi!), artiglieria insufficiente, impiego a spizzico delle forze. Il re ha seguito da presso l'azione, in posizione esposta al fuoco, ma all'infuori dell'invio tardivo d'un suo squadrone di lancieri, null'altro ha fatto, soprattutto nulla per rimediare, in parte almeno, alla difettosa disposizione dei quadrati. Certo, era stato un guaio la ferita del generale D'Ambrosio il giorno prima, restando priva la divisione del suo energico e animoso comandante; pure il D'Aquino passava per uno dei migliori generali dell'esercito! Gli austriaci rinnovano ora l'attacco contro il poggio sottostante, ma sono respinti per la terza volta dalla Guardia. Sono le quattro e mezzo pomeridiane; e finalmente i 6 battaglioni della divisione Lechi stanno giungendo oltre il Chienti, all'altezza della linea di combattimento, respingendo gli elementi avanzati nemici. La battaglia non è dunque ancora decisa. Comunque i napoletani conservano le posizioni conquistate al mattino; Gioacchino ha maggiori riserve degli austriaci e c'è ancor da sperare qualche cosa dalla manovra sulla destra del Chienti. Il Bianchi aveva frustrato il tentativo del re di spezzare la branca austriaca di destra; ma ciò non significava che questi dovesse ora trovarsi serrato fra le due branche; il Neipperg mirava a congiungersi col generalissimo dietro Tolentino, e al re sarebbe rimasta la via libera per tornare nel regno con tutte le sue forze.
Insomma, a Gioacchino era fallita la manovra per linee interne; ma era pure fallita la grande operazione austriaca tendente ad annientare le forze del re, prendendole in una morsa, prima del loro rientro nel regno. E la conquista del Napoletano, con forze relativamente scarse, sarebbe stata impresa ardua, se l'esercito avesse continuato a battersi col valore e la tenacia mostrati finora. Ma proprio verso le quattro e mezzo pomeridiane, quando restano ancora tre ore di luce per continuare a combattere o prendere le migliori disposizioni per un ordinato ripiegamento, giunge al re un corriere del generale Montìgny, posto a difesa degli Abruzzi, latore d'un lungo rapporto, in cui si dice che gli austriaci, forzata la stretta d'Antrodoco, sono giunti all'Aquila, dove il comandante del castello s'è arreso vilmente alla prima intimazione, che le compagnie provinciali si sono disperse, che lui con poche forze è ridotto alla stretta di Popoli, verso la quale marciano 12 000 uomini; che gli Abruzzi e le Calabrie sono in rivolta. Le notizie in realtà sono vere solo in parte; ma nello stato di tensione in cui si trova valgono a turbare profondamente il sovrano: «Gioacchino smarrì il senno, - dice il Colletta, - e credendo il regno vicino a perdersi, stabilì di accorrere al maggior pericolo e (con improvvido ma suo consiglio) ritirar l'esercito nelle proprie terre »!. Per prima cosa il re fa sospendere l'azione sulla destra del Chienti, ordinando al generale Di Majo di tornare a Macerata: questi esegue l'ordine alla lettera, senza nemmeno mantenere l'occupazione del ponte sul fiume. Poi, alle cinque e mezzo, decide la ritirata, e alle sei ordina al generale Pignatelli di ripiegare dal poggio al fondovalle. La 2a divisione, in alto, dovrebbe invece ritirarsi dal lato del Potenza, di dove era avanzata; ma un battaglione austriaco ha svolto un'azione dimostrativa da questo lato, e sebbene sia stato subito respinto, il re, turbato, pensa che tale via possa essere minacciata da forze notevoli, e ordina al D'Aquino di retrocedere anch'egli per il fondovalle del Chienti. E dovrebbe ritirarsi per primo. Ma Pignatelli non ne ha notizia e alle sette inizia il ripiegamento. Ben presto, nelle incipienti tenebre, aggravate da una pioggia dirotta, avvengono frammischiamenti; la cavalleria austriaca, spintasi avanti arditamente, fa numerosi prigionieri, in gran parte della 2a divisione che si sbanda, e i soldati, stanchi, affranti, affamati, si dirigono confusamente verso Macerata. Alcuni reparti di fanteria e cavalleria valgono però a fermare il nemico, che ormai sembra incalzare anche con fanteria. Gioacchino si ritrae nella città - la Guardia ne sbarra gli accessi - insieme coi 2 battaglioni della 2a divisione, formanti dapprima il quarto quadrato, e mantenutisi saldi fino all'ultimo, Le perdite, nei due giorni di combattimenti continui, sono state di circa 1800 morti e feriti, fra cui ben 71 ufficiali, da parte dei napoletani, più 2000 prigionieri, in gran parte della 2a divisione, e tatti soprattutto la sera durante il ripiegamento, e più ancora nella notte e al mattino seguente, fra soldati dispersi e sfiniti. Gli austriaci lamentano circa 1100 morti e feriti, e 323 prigionieri, in gran parte perduti il giorno prima; perdite minori che ben si spiegano col fatto che i napoletani assalivano posizioni per natura forti o rafforzate con lavori, mentre gli austriaci rimasero spesso sulla difensiva. Comunque, una maggiore perdita di 2400 uomini non era tale di per sé da creare una condizione d'inferiorità rispetto all'esercito avversario.
Eppure lo sfacelo di quest'esercito, che per un mese s'era battuto valorosamente, quasi sempre in difficili condizioni e con inferiorità numerica, e che neppure nei due giorni di battaglia era stato vinto, è ormai imminente. In un consiglio di guerra, la sera stessa, si stabilisce che l'esercito l'indomani debba ritirarsi su Fermo, mentre alla divisione Carascosa è prescritto, lasciati 3 battaglioni in Ancona, di ripiegare su Civitanova, lungo la costa dell'Adriatico. Ma subito l'artiglieria è fatta partire per Fermo; e 4 battaglioni e 3 squadroni col generale G. B. Carafa, córso, sono mandati a Montolmo, un poggio sulla destra del Chienti, per garantire il passo del fiume. Già nella notte gli austriaci attaccano gli avamposti napoletani davanti a Macerata, e al mattino il ponte sul Chienti sì trova sbarrato da 3000 fanti e 400 cavalieri nemici, con 3 cannoni, mentre altre forze premono alle spalle. Sono sempre truppe del Bianchi, perché il Neipperg, dopo una parvenza d'attacco alla stretta di Filottrano, si è volto verso Cingoli, per giungere soltanto il 5, dopo aver percorso un ampio arco, a Tolentino. Murat, privo d'artiglieria, tenta invano d'aprirsi il passo; gli austriaci, anzi, riescono a stabilirsi sulla riva sinistra, sebbene validamente contenuti dal re in persona; ma l'esercito deve proseguire lungo la riva sinistra, in parte per i poggi, su terreno fangoso e a volte lavorato; il che vale a scomporre ancor più gli ordini. Si aggiunge il tempo piovoso, le voci disfattiste e catastrofiche che cominciano a diffondersi: il re è morto, è prigioniero, sì è tagliati fuori e circondati, e via di seguito. I fattori negativi e dissolventi, già numerosi allo stato latente nell'esercito, ora trovano libero sfogo, minandone la disciplina e la compagine. Per fortuna gli austriaci non inseguono: il generale Carafa coi suoi 4 battaglioni e i suoi 3 squadroni è rimasto inerte, mentre si combatteva li presso attorno al ponte, ma la vista delle sue truppe è valsa a trattenere il nemico e a dissuaderlo dal proseguire nell'inseguimento. A Civitanova giunge, in perfetto ordine, da Osimo, il grosso della divisione Carascosa; e a sera l'avanguardia dell'esercito napoletano è a Porto di Fermo (Porto San Giorgio), mentre la divisione Lechi è ancora dietro il Chienti. La pioggia dirottissima impedisce di riordinare le truppe; continuano le voci catastrofiche e il triste quadro del progrediente dissolvimento dell'esercito, mentre tuttavia non mancano i nuclei o i reparti che ancora si mantengono saldi. La notte sul 5 maggio trascorre triste e gravida di paurose incognite. Venuto il giorno, si prosegue sempre sotto l'acqua; si devono superare torrenti gonfi, senza ponti; al passaggio dell'Aso si lamentano un'ottantina d'affogati: lo stesso generale Livron si salva per miracolo. Molti soldati cercano un passaggio meno arduo più a monte, e finiscono col disperdersi; una folla di sbandati e di disertori si da al saccheggio, tira fucilate a chi si oppone, compresi gli ufficiali! Gli 8 battaglioni del Carascosa, di retroguardia, si mantengono tuttavia compatti. Gli austriaci non premono. Il Bianchi, non molto soddisfatto dell'azione del Neipperg, ha incaricato il generale Mohr di seguire con 8000 uomini, lungo la costa, l'esercito napoletano in ritirata; e ordina al generale Eckhardt, con altri 5000, pure del suo corpo, di procedere come colonna centrale per Sarnano, Arquata del Tronto, Amatrice, Pizzoli sull'Aquila e Popoli; mentre col resto del suo corpo e con quello del Neipperg, 14.000 uomini circa, egli intende tornare sui suoi passi fino a Folìgno, quindi per Spoleto, Terni, Antrodoco, giungere all'Aquila. Di nuovo, dunque, la mossa a tenaglia, a largo raggio, per serrare Gioacchino nei pressi di Popoli, dato che continui a ritirarsi lungo la costa adriatica fino a Pescara, per poi risalire il fiume dello stesso nome, forzare la stretta di Popoli e tentare di scendere per Sulmona, Castel di Sangro, alla difesa delle linee del Garigliano e del Volturno, appoggiando la destra ai monti del Sannio. Oppure per precederlo a Napoli, e serrarlo presso Benevento o Ariano, nel caso che il re si veda costretto a proseguire lungo la costa verso sud, e compiere un più ampio e difficile giro per giungere a Napoli o al Volturno. Una riserva di 6000 uomini è poi in marcia; mentre il Nugent il 3 maggio ha raggiunto Roma. Questi già il 29 aprile ha distaccato da Terni 800 fanti e 120 cavalli per fare una puntata verso l'Aquila e sollevare le popolazioni contro il Murat. La piccola colonna, agli ordini del maggiore Flette, il 1° maggio ha occupato Cittaducale e respinto, una decina di chilometri oltre, a Canetra, 5 compagnie provinciali e 120 gendarmi a cavallo, condotte dal generale Montigny, che dopo brevissima resistenza si sono disperse, abbandonando la stretta d'Antrodoco. Il Montigny, lasciati nel castello d'Aquila oltre 400 uomini, temendo l'insorgenza popolare, si è ritirato alla stretta di Popoli, punto strategico molto importante; e subito il maggiore Patrizi ha ceduto il castello, robusto e ben munito, al distaccamento austriaco, privo d'artiglieria. Quanto al Nugent, egli da Roma ha spedito un altro piccolo distaccamento verso Tagliacozzo, per dar la mano a quello del maggiore Flette; poi il 5 ha lasciato la Città Eterna per avanzare nel regno di Napoli con 2 piccole colonne, una verso Terracina e Gaeta, e l'altra verso San Germano, sempre con lo scopo d'attizzare l'insurrezione.
Tratto da:
"Storia militare del Risorgimento", Piero Pieri, Torino, Einaudi, 1962