Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Battaglia di Tippecanoe

7 novembre 1811

Il comandante-presidente

William Henry Harrison

Militare e uomo politico americano, nato a Berkeley (Virginia) il 9 febbraio 1773. Il padre, Beniamino, aveva avuto parte importante nella vita politica del tempo: dal '74 al '77 era stato membro del Congresso continentale, dal 1781 all'84 governatore della Virginia. Il giovane Harrison, interrotti gli studi nel 1791, entrava dapprima nell'esercito, combattendo contro gli Indiani e conseguendo, nel 1797, il grado di capitano. Nel giugno 1798 venne nominato segretario del territorio di Nord-Ovest. Finalmente, nel '99, iniziava la sua vita politica, come delegato al Congresso di quel territorio; e nel gennaio 1801 assumeva l'ufficio, affidatogli dal presidente John Adams, di governatore del territorio di Indiana, allora creato. In tale ufficio, tenuto per dodici anni, Harrison compié opera assai notevole, sia per quanto concerne la sistemazione di frontiera del territorio e l'avanzamento della colonizzazione anche fuori dei suoi primitivi limiti, sia per quanto concerne l'amministrazione interna. Con gl'Indiani negoziò dapprima e concluse vari trattati; ma nel 1811 dovette venire a lotta aperta con la "Lega indiana del Nord-Ovest", organizzata dall'indiano Tecumseh, non senza aiuto degli Inglesi del Canada, e vinse completamente nella battaglia di Tippecanoe, il 7 novembre 1811. Tale successo gli diede una fama straordinaria: e così, scoppiata la guerra contro l'Inghilterra, ottenne il comando delle truppe del Nord-Ovest, e nella campagna del 1813 si distinse con una serie di operazioni che mutarono la situazione dell'esercito americano. Approfittando infatti abilmente della vittoria del commodoro O. H. Perry, nel lago Erie, riprese Detroit, persa l'anno prima, ristabilì la frontiera al nord-ovest, avanzò fino al Tamigi canadese, sconfiggendo il 5 ottobre gli Inglesi e nuovamente l'indiano Tecumseh. L'anno seguente lasciò il campo per negoziare invece il secondo trattato di Greenville (22 luglio 1814), che staccava gl'Indiani dagli Inglesi; poi, terminato il conflitto, continuò la sua carriera politica: membro del Congresso dal 1816 al 1819, senatore dal 1819 al 1821 e dal 1825 al 1828; ministro in Colombia dal 1828 al 1829. Al ritorno si chiuse nella vita privata, fino al 1835, quando attorno al suo nome cominciò a raccogliersi l'attenzione dei whigs, che lo nominarono presidente delle loro convenzioni nell'Indiana, Ohio e Maryland; e l'anno seguente fu presentato come candidato whig alla presidenza della repubblica, contro il democratico M. Van Buren. Fu allora battuto; ma quattro anni dopo, quando i cattivi risultati della politica finanziaria dei democratici, rimasti al potere prima con Andrea Jackson e poi con Van Buren, riportarono il favore popolare verso i whigs, Harrison fu eletto. Entrò in carica il 4 marzo 1841; ma prima che egli avesse potuto iniziare praticamente la sua opera, morì (4 aprile 1841).

La genesi

Il primo insediamento inglese che sopravvisse sul suolo nordamericano fu tinello di Jamestown, fondato nel 1607 sulla costa dell'odierno stato della Virginia. In precedenza, numerosi tentativi di stabilire colonie erano falliti, soprattutto a causa dell'imprevidenza dei coloni, che non portavano con sé provviste sufficienti per resistere ai rigidi inverni americani. Infarciti di storie sulle favolose ricchezze che gli spagnoli avevano razziato nell'America centrale dalla fine del XV secolo, gli inglesi si aspettavano di trovare altrettanto mo in Nord America. Evidentemente, il desiderio di fare rapidamente fortuna e tornare in Inghilterra li accecava al punto da far loro dimenticare la necessità di adeguati rifornimenti. Jamestown sopravvisse soprattutto perché le tribù indiane locali ebbero compassione dei coloni e li aiutarono ad adattarsi al nuovo ambiente. Questa benevolenza venne raramente ricambiata, però: nel Parco di quindici anni dalla fondazione della città, gli inglesi e gli indiani si trovarono ai ferri corti; esempi simili si ripeterono lungo tutta la costa atlantica. I coloni inglesi vennero in Nord America con intenzioni diverse da quelle che avevano spinto gli spagnoli in America centrale e meridionale. Anche gli inglesi cercavano ricchezze, ma la maggioranza dei pionieri era ansiosa di raggiungere il nuovo mondo quanto di lasciare l'Inghilterra: non intendevano sottomettere o convenire i nativi, come fecero gli spagnoli, ma cominciare una nuova vita, lontano dalle difficoltà economiche in Inghilterra. In Nord America, l'agricoltura costituiva per un colono quasi Punico modo per sopravvivere; naturalmente, presupposto indispensabile era il possesso della terra, che da sempre, però, apparteneva alle tribù indiane. Finché i coloni furono pochi, gli indiani sembrarono disposti ad assisterli ma, con l'arrivo di un numero sempre maggiore di emigranti dall'Inghilterra e il crescente bisogno di terra, il conflitto fu inevitabile. Inizialmente riluttanti a considerare gli indiani come potenziali nuovi cristiani, i pionieri li trattarono invece in maniera molto brutale. La guerra tra i due popoli ben presto degenerò in un genocidio. Gli scontri si concludevano con il massacro degli sconfitti e pochi prigionieri; ad esempio, alla fine della guerra di re Filippo nel Massachusetts occidentale (1675-1676), Metacomet (chiamato re Filippo dagli inglesi) venne decapitato, e la sua testa lasciata in mostra su un palo a Plymouth per venticinque anni. Si discute su chi sia stato a introdurre la pratica dello scotennamelo, ma entrambe le parti finirono per praticarlo. Dal momento che esistevano rivalità tra le varie tribù indiane, raramente esse si coalizzavano contro il nemico comune che, sfruttando la sua migliore organizzazione, ebbe la meglio su di loro, uccidendoli o costringendoli a spostarsi verso ovest, man mano che i coloni occupavano le terre.

Questa fu la storia dei primi due secoli della colonizzazione inglese: i bianchi, superiori per numero e coordinamento di forze, spinsero gli indiani a ovest, e non fecero nulla per stabilire con loro rapporti amichevoli. Occasionalmente, le tribù indiane opposero un'accanita resistenza, come nel caso della lotta a fianco dei pionieri franco-canadesi nella guerra franco-indiana (1755-1760) e della rivolta di Pontìac, subito dopo. Si trattava, tuttavia, di azioni di breve durata, mentre i coloni inglesi continuavano inesorabilmente ad avanzare verso ovest. L'occupazione di terre, ostacolata per un certo tempo dai decreti imposti dal governo britannico negli anni Sessanta e Settanta del XVIII secolo e dalla rivoluzione, riprese decisamente dopo la dichiarazione americana d'indipendenza nel 1783. Fu in quell'epoca che cominciò ad affermarsi Tecumseh, uno Shawnee dell'Ohio che avrebbe creato la più grave minaccia all'espansione dei bianchi. Nato nel 1768 nell'Ohio centrale da genitori Muskogee dell'Alabama, Tecumseh aveva sette anni quando suo padre venne ucciso dai coloni. Egli venne allevato da un sottocapo di nome Blackfish e crebbe insieme a due prigionieri bianchi divenuti suoi fratelli d'adozione, Stephen Ruddel e Richard Sparks. Dopo aver appreso l'arte della parola dal capo Mohawk Joseph Brant, educato dagli inglesi, Tecumseh giunse a essere considerato uno dei migliori oratori del tempo. Inoltre, da sua sorella Tecumapease imparò a comportarsi in maniera tollerante e a praticare la moderazione. Pur assistendo all'uccisione di molti indiani a opera dei bianchi e combattendo egli stesso contro questi ultimi in diverse occasioni, divenne noto per l'umanità con cui trattava i prigionieri. Dai fratelli d'adozione e da una mezzosangue sposata negli anni Novanta, Tecumseh imparò a parlare un po' d'inglese, migliorando poi tale conoscenza quando si innamorò di una bianca, che gli insegnò a leggere Shakespeare e la Bibbia. Davanti alla proposta di matrimonio, la ragazza pose la condizione che egli rinunciasse al suo retaggio indiano, ma Tecumseh rifiutò di tradire la propria razza. All'inizio del secolo successivo, la sua istruzione e l'abilità oratoria lo avevano ormai reso un personaggio conosciuto e rispettato sia dagli indiani che dai bianchi; aveva fama di essere un uomo saggio e veniva spesso chiamato a dirimere dispute tra nativi e coloni. Nel 1804, il fratello di Tecumseh, Laulewasika, cadde in stato di trance (potrebbe essersi trattato di stordimento da alcol) ed ebbe una visione dell'inferno che lo convinse a rinunciare all'alcolismo e darsi alla predicazione tra gli indiani dei Tenitori del Nord-Ovest (compresi tra il fiume Ohio e i Grandi Laghi. Cominciò a parlare di un ritorno alla vita com'era prima della venuta dei bianchi, quando gli indiani erano più disposti a collaborare, e del rifiuto dei loro prodotti (soprattutto i liquori). Quando Penagashega, il più famoso veggente Shawnee del tempo, morì, Laulewasika ne prese il posto, diventando noto come il Profeta. Alla confluenza tra i fiumi Tippecanoe e Wabash, nell'Indiana, egli creò un centro religioso che prese il nome di Prophetstown, dove i nativi arrivavano da centinaia di chilometri di distanza per ascoltare il suo messaggio. Nel frattempo, Tecumseh percorreva il Paese cercando di organizzare le tribù dai Grandi Laghi al Golfo del Messico in una confederazione in grado di resistere all'espansione coloniale. Egli faceva buon uso delle sue capacità oratorie e dell'eccezionale memoria, parlando a lungo dei trattati violati dai bianchi. Tra il 1802 e il 1811, viaggiò in compagnia di un gruppo di trentaquattro guerrieri, il cui portamento e abilità nelle danze rituali impressionavano enormemente le tribù che visitava. Poiché portavano tutti mazze da guerra dipinte di rosso, l'organizzazione finì per essere chiamata Confederazione del bastone rosso. Anche se nel Tennessee non riuscì a reclutare tribù, che qui erano legate ai bianchi da rapporti commerciali, ebbe miglior successo nel convincere la lega dei Creek del Mississippi e dell'Alabama a unirsi a lui. Parlando ai suoi compatrioti, Tecumseh diceva che dovevano prepararsi alla guerra contro i bianchi e che, quando i tempi fossero stati maturi, egli avrebbe battuto il piede: allora la terra avrebbe tremato, e questo sarebbe stato per le tribù il segnale per radunarsi e combattere.

La battaglia

Il fatto che Tecumseh avesse viaggiato tanto, dal corso inferiore del Mississippi fino al Vermont, denotava che i bianchi di ogni regione potevano essere in pericolo. Anche il suo ben noto rifiuto di entrare in trattative con i bianchi lo rendeva pericoloso. Il consenso da lui ottenuto, unito alle attività religiose del fratello, preoccupava Ì coloni che vivevano lungo la frontiera. Se quei due fossero riusciti a unire le tribù politicamente, militarmente e socialmente, allora gli indiani avrebbero per la prima volta messo in campo un esercito che i bianchi difficilmente avrebbero potuto uguagliare numericamente. Alla fine i coloni dell'Indiana si appellarono al governatore territoriale William Henry Harrison affinché facesse qualcosa riguardo a Prophetstown. Harrison si era incontrato tre volte con Tecumseh, nel 1808, 1810 e 1811, e ogni volta quest'ultimo aveva preteso che i bianchi non concludessero più trattati per sottrarre terre agli indiani. Il governatore rispose alle sollecitazioni dei coloni mettendo insieme un contingente di miliziani verso la fine del mese di settembre 1811, mentre Tecumseh si trovava in Alabama per parlare ad alcune tribù locali. Harrison ricevette il permesso di lanciare un attacco dal ministro della Guerra, William Eustis, che però non avvisò il presidente James Madison, in quel periodo lontano da Washington. La milizia raggiunse il Wabash, costruì il forte Harrison sul luogo dell'odierna Terre Haute e proseguì per Prophetstown, dove arrivò la sera del 6 novembre. Laulewasika, che aveva ricevuto istruzioni da Tecumseh di non impegnarsi in combattimenti durante la sua assenza, inviò una delegazione da Harrison proponendo un colloquio. I due avrebbero dovuto incontrarsi il mattino seguente, ma alle 4,15 il Profeta ordinò di assalire l'accampamento della milizia: egli disse ai suoi guerrieri di aver compiuto riti per renderli invulnerabili al fuoco dei moschetti dei bianchi, ed essi si lanciarono risolutamente all'attacco. Gli indiani giunsero all'accampamento di sorpresa, ma Harrison fu pronto a organizzare un'energica difesa. La rapida reazione, insieme al fatto che i moschetti erano in realtà assai efficaci, fece esitare gli attaccanti. Quando venne a sapere della situazione, il Profeta li sollecitò a continuare l'attacco, ma poi fuggì, e questo demoralizzò gli indiani, che batterono in ritirata. All'alba, Harrison ordinò ai suoi di assalire Prophetstown, che venne data alle fiamme; dopo di che informò Washington di aver riportato un'importante vittoria, ma si ritirò poche ore dopo la battaglia.

Le conseguenze

Quando Tecumseh fece ritorno alle rovine fumanti di Prophetstown, quattro giorni più tardi, capì che il suo sogno di una nazione indiana unita era svanito. Il fatto che gli indiani non avessero ottenuto una grande vittoria fece venir meno la fiducia in lui, e la Confederazione del bastone rosso si sciolse. Egli si mise in contatto con Harrison per organizzare un incontro con il presidente Madison, ma divergenze di opinione su come avrebbe dovuto svolgersi ne impedì l'attuazione. Tecumseh rinnegò il fratello e, con i guerrieri che ancora erano disposti a seguirlo, andò in Canada, dove combatté a fianco delle forze inglesi e canadesi contro l'invasione americana che diede inizio alla guerra del 1812. Dopo qualche successo, rimase ucciso nella battaglia del Thames, combattuta nel 1813 contro un contingente americano comandato da William Henry Harrison. Una delle conseguenze più importanti di questo scontro fu il coinvolgimento inglese. Il governo di Londra non voleva sostenere apertamente gli indiani contro i bianchi, temendo la possibilità di un conflitto tra gli Stati Uniti e l'Inghilterra. Poiché allora erano in pieno svolgimento le guerre napoleoniche, Londra non aveva interesse a combattere contemporaneamente su due fronti; d'altro canto, gli inglesi in America fornivano alla Confederazione del bastone rosso armi che, scoperte a Prophetstown dagli uomini di Harrison, contribuirono alla definitiva rottura dei già problematici rapporti tra inglesi e americani. Le restrizioni della Gran Bretagna sulla libertà dei mari esacerbavano da anni gli americani; quando scoprirono che gli inglesi fornivano armi agli indiani, presero tutto ciò come un affronto verso i principi per cui i bianchi americani avevano lottato dai primi colpi di fucile sparati contro i nativi due secoli prima e, nel giugno 1812, dichiararono guerra. Tuttavia, le peggiori conseguenze riguardarono i nativi americani: duecento anni di sconfitte e perdite territoriali li avevano finalmente portati al punto di raggiungere l'unificazione, ma il sogno era sfumato in un batter d'occhio; la superiorità numerica e organizzativa che aveva permesso ai bianchi di batterli per due secoli, questa volta si rivelò una forza distruttrice. Un'alleanza indiana su vasta scala non venne più formata, e l'unico serio tentativo di unirsi per resistere ai bianchi fu quello che nel 1876 permise a Sioux e Cheyenne di sconfiggere le esigue forze del generale George Custer sul fiume Little Big Horn, e già allora era di gran lunga troppo tardi. Se Tecumseh fosse riuscito a tenere insieme la Confederazione del bastone rosso, tra gli Appalachi e il Mississippi si sarebbe certamente combattuta una guerra di grandi proporzioni. Probabilmente era già troppo tardi anche per lui, o forse no: a metà dicembre 1811, un terremoto scosse il Canada meridionale nella regione dei Grandi Laghi e fu avvertito fino a New Madrid, nel Missouri, dove il Mississippi fluì interaneamente in senso contrario. Un altro terremoto si verificò il 23 gennaio 1813, un terzo il 27 gennaio e un quarto il 13 febbraio. Considerando che Tecumseh aveva affermato che avrebbe fatto tremare la terra battendo il piede per dare a tutte le tribù il segnale della rivolta, forse sarebbe riuscito a creare un efficace movimento di resistenza.



Bibliografia:
"Handbook of the American Indians", Washington 1907
"Sapir, Wiyot and Yurok", in American Anthropologist, 1913
"A geographic Study of the early History of the Algonquian Indians", in Arch. f. Ethnografia, K. Birket Smith, Leida 1918
"Le cento battaglie che hanno cambiato la storia", P.K. Davis, Newton, Roma, 2003