Battaglie In Sintesi
24 Luglio 1848
Generale dell'esercito sardo, nato a Vercelli nel 1790. Dopo aver compiuto i primi studi militari in Francia nella scuola di Saint-Cyr, entrò nell'esercito imperiale, in cui rimase per dieci anni, fino alla caduta di Napoleone, quasi sempre destinato a reparti operanti nella penisola iberica, dove acquistò particolare pratica nella guerra di partigiani. Rimasto prigioniero degl'Inglesi in una fazione presso Oporto, riuscì a evadere e a raggiungere di nuovo il suo reggimento. Caduto l'Impero rientrò nel nativo Piemonte e fece parte dell'esercito della restaurata monarchia di Savoia.
Quando scoppiò la guerra del 1848, il Bava si trovava governatore militare di Alessandria col grado di luogotenente generale. Nella guerra ebbe parte attivissima e si potrebbe dire preponderante, non solo perché fu al comando di uno dei due corpi d'armata costituenti l'esercito piemontese di campagna, ma anche perché la particolare considerazione di Carlo Alberto gli valse di essere chiamato spesso a consulente del Comando supremo. Queste sue funzioni marginali, spesso contrastanti con le attribuzioni del capo di Stato maggiore, generale Salasco, non giovarono alla chiara definizione delle responsabilità, quando si volle risalire alle cause della disgraziata fine della campagna. Da ciò forse dipese il tono polemico, e non sempre riguardoso verso la stessa persoria del re, che si rileva nella Relazione delle operazioni militari nella campagna del 1848, indirizzata dal Bava al ministro della Guerra e da lui resa di pubblica ragione di propria iniziativa. Vi traspare ad ogni passo la preoccupazione di rigettare su altri la colpa di tutto ciò che era mal riuscito e di assicurare a sé il merito di ciò che aveva avuto felice esito. Messo in disparte, non partecipò alla successiva campagna di Novara (1849). Il Bava ebbe virtù d'ingegno e di coraggio personale, ma gli fece difetto la disciplinata virtù del silenzio. Dopo la sua morte (1854) l'esercito sardo gli decretò una statua marmo su una piazza di Torino.
Feldmaresciallo austriaco, nato nel castello di Trebnice, in Boemia, il 5 novembre 1766, morto a Milano il 5 gennaio 1858. Entrato diciottenne nella carriera militare, fece le prime armi contro i Turchi, e nel 1793 fu nominato ufficiale d'ordinanza di J. P. Beaulieu, poi di S. v. Wurmser, con i quali fece le campagne d'Italia del 1796 e del 1797. Promosso colonnello, partecipò alla battaglia di Marengo, come aiutante di campo di M. v. Melas, quindi salì presto agli alti gradi militari, poiché nel 1808 era maggior generale e nel 1809 tenente feldmaresciallo, con l'incarico della riorganizzazione interna dell'esercito. Fece le campagne dal 1813 al 1815, in qualità di capo di Stato maggiore del principe K. Ph. Schwarzenberg, comandante in capo degli eserciti alleati, e dal 1816 al 1828 servì in Ungheria agli ordini del governatore, l'arciduca Ferdinando. Aveva deciso di ritirarsi dal servizio attivo, ottenendo, come generale di cavalleria, il comando della fortezza d'Olmütz (Olomouc), quando, scoppiata la rivoluzione dell'Italia centrale (febbraio 1831), fu destinato a sostituire il vecchio generale J. Ph. v. Frimont nel comando dell'esercito che l'Austria aveva concentrato in Lombardia. Promosse i lavori di fortificazione di Verona e attese al miglioramento dell'esercito, prevedendo che la rivoluzione del '31 e i susseguenti moti insurrezionali che agitavano l'Italia costituivano i prodromi di una guerra a breve scadenza. Nel 1836 fu promosso feldmaresciallo. Teneva il governo militare della Lombardia, quando scoppiò la rivoluzione delle Cinque Giornate milanesi, per cui il Radetzky fu costretto ad abbandonare la capitale lombarda e a rifugiarsi entro Verona, dopo di aver messo a ferro e a fuoco i paesi in cui gl'insorti gli contrastavano la ritirata. Dichiarata, da parte del Piemonte, la guerra all'Austria, il Radetzky rimase nel quadrilatero; e mentre l'esercito di Carlo Alberto assediava Peschiera, egli provvide a riorganizzare il suo esercito, per riprendere l'offensiva non appena gli fossero giunti i rinforzi da lui chiesti. Essi giunsero dalla parte del Veneto, dopo aver vinto a Cornuda e alle Castrette le truppe pontificie, e il 22 maggio operarono il congiungimento con le truppe del Radetzky Validamente accresciuto, l'esercito austriaco si concentrò allora a Mantova col proposito di tagliare la strada di Milano all'esercito piemontese, e dopo sanguinosa lotta a Curtatone e a Montanara (29 maggio) contro le truppe dei volontari toscani, si scontrò a Goito con l'esercito piemontese, che riportò una brillante vittoria, impedendo agli Austriaci il passaggio del Mincio. Se non che, il Radetzky, traendo profitto dell'inesplicabile inazione del nemico, piegò su Vicenza, che fu costretta a capitolare, e rinforzato dalle truppe di L. v. Welden, sconfisse a Sommacampagna l'ala destra dell'esercito piemontese comandata da E. de Sonnaz (22-23 luglio), e due giorni dopo batté l'esercito di Carlo Alberto a Custoza, lo costrinse a togliere il blocco a Mantova, quindi lo sconfisse a Volta, obbligandolo alla ritirata su Milano e poi a rivalicare il Ticino. Il Radetzky entrò in Milano il 6 agosto e tre giorni dopo concluse l'armistizio detto di Salasco, per cui l'esercito piemontese doveva evacuare da tutto il territorio lombardo. Ripresa la guerra il 16 marzo 1849, dopo otto mesi di armistizio, il Radetzky varcò il Ticino presso Pavia e il 23 marzo riportò una nuova vittoria a Novara; e poiché negò una sospensione d'armi, Carlo Alberto decise di abdicare (24 marzo) in favore del figlio, che fu costretto ad accettare le dure condizioni dei preliminari di pace imposte dal Radetzky Nominato governatore generale del Lombardo-Veneto, il Radetzky amministrò il paese con eccessiva severità, sia nei riguardi degli esuli, sequestrando i beni ai più facoltosi, sia nel reprimere il moto insurrezionale del 6 febbraio 1853, ma specialmente per la crudeltà dimostrata nel perseguitare i patrioti milanesi e per la fredda ferocia durante i processi di Mantova. Fu collocato a riposo il 28 febbraio 1857. Scrisse di argomenti militari (Über den Zweck der Übungslager im Frieden, 1816; Gedanken über Festungen, 1827, ecc.).
A posteriori dello scontro di Rivoli, si riscontrò, nella parte piemontese, al contrario di quella austriaca, incertezza ed esitazione, conseguenza della sorpresa subita. Notizie frammentarie giungono nella mattinata a Marmirolo, a otto chilometri da Mantova; ma solo verso mezzogiorno, quando gli austriaci hanno interamente travolto la linea Adige-Sommacampagna, vengono emanati i primi ordini per l'invio delle prime truppe a Villafranca (la divisione di riserva, la brigata Piemonte e la divisione di cavalleria), per agire, parrebbe, contro il fianco e le spalle del nemico; alla brigata Regina, che si trova a Governolo, come si è visto, vien dato ordine di recarsi a Goito per garantire quel vitale passaggio del Mincio. Anche il Comando supremo si trasferisce a Villafranca. Ma prima di fare qualsiasi cosa, il re vuole consultarsi col Bava, che proprio dietro suo ordine si è portato in questa stessa mattina a sud di Mantova. Del resto, Carlo Alberto solo alle diciassette si è deciso a levare la brigata Aosta dal blocco di Mantova, mentre non sono state chiamate le truppe della riva destra del Mincio; e la brigata Regina non è stata chiamata sul punto decisivo della lotta. Parrebbe ch'egli avesse mosso le 3 brigate senza uno scopo preciso, nella speranza di poter ancora portare un aiuto diretto, ma senza aver formulato un vero piano. A sera si ricevono le prime sicure notizie del ripiegamento su Caval-caselle, ordinato a tutto il II Corpo dal De Sonnaz, e la richiesta di ordini. Ma il re attende la venuta del Bava; tanto gli manca l'intuizione rapida e sicura della nuova situazione, e la forza d'animo d'attuare un'energica decisione, qualità essenziali d'un generalissimo! Il Bava, udito il lontano rombo del cannone, il 23 era tornato celermente a Goito; qui, alle dieci di sera, gli giungeva l'ordine regale di recarsi a Villafranca. Cercava ora, pur senza ordini del Comando supremo e senza nessuna diretta superiorità gerarchica sul De Sonnaz, di mettersi in contatto con quest'ultimo, insistendo perché si portasse al più presto con le sue truppe dietro il Mincio, da Salionze in giù, per contrastare il passaggio al nemico. Poi, avendo saputo che il presidio di Valeggio era ripiegato al di là del Mincio a Borghetto, si recava di persona a Borghetto perché il ponte sul Mincio fosse subito ristabilito e Valeggio venisse rioccupata, così da mantenere il sicuro collegamento, attraverso Valeggio, del corpo De Sonnaz con Villafranca. Poi, temendo che la via diretta da Valeggio potesse già essere intercettata, si recava a Villafranca per la via di Goito, giungendovi il 24 alle sette e mezzo di mattina. Nel frattempo, il Comando supremo piemontese era rimasto in una inerzia completa. Si discute ora a lungo fra il re e il Bava se convenga portar subito tutte le forze sulla destra del Mincio, oppure, dato che ormai sono ammassate presso Villafranca 4 brigate, se non convenga tentare un'offensiva contro il fianco e il tergo dell'avversario. Prevale questo secondo partito; però, siccome i viveri non sono ancora giunti e il caldo già si fa sentire, l'azione è rimandata alle tre pomeridiane. Gravi avvenimenti intanto, si verificavano lungo il Mincio, da Peschiera a Borghetto-Valeggio. A presidio del Mincio, come sappiamo, già si trovava la 2a divisione di riserva, formata con battaglioni piemontesi e con reclute lombarde. Dei suoi 12 battaglioni (di 800 uomini l'uno, di fronte a quelli austriaci di 1000), 10 sono in prima linea. Forza non grande, tanto più se si pensa che si tratta di truppe mai state utilizzate per il fuoco di prima linea, di riservisti anziani o di reclute lombarde. Ma il De Sonnaz non crede che gli austriaci, con la minaccia d'un'offensiva sul fianco dalla pianura, e colle truppe stanche per l'azione del giorno precedente, vogliano subito varcare un fiume quale il Mincio. E invece già alle 4 pomeridiane del 23 luglio, gli austriaci si sono affacciati al Mincio ai due lati di Salionze. Nemmeno sul Mincio esiste alcun lavoro di rafforzamento, nessuna testa di ponte, nessun compartimento stagno, neppure a Monzambano e a Borghetto-Valeggio, né a Goito! Il fuoco di fucileria s'è fatto più intenso verso sera, poi rallenta ma non cessa del tutto. E allora il De Sonnaz decide, dopo l'una di notte, di ritrarre sulla destra del Mincio le sue truppe, e di tenerle pronte a discendere a difesa dei punti minacciati di Salionze e di Monzambano. Il provvedimento era in sé opportunissimo, ma andava attuato la sera stessa del 23. In questo modo il De Sonnaz faceva svegliare, dopo tre ore sole di riposo, le truppe spossate rimettendole in cammino a furia senza che il rancio quasi ovunque fosse pronto. Prima delle quattro le truppe hanno comunque varcato il Mincio. Fuori Peschiera le truppe fanno un po' sosta. Giunge così l'alba e con la luce il fuoco di fucileria riprende intenso dal lato di Salionze. Le truppe si mettono tosto in moto: sono 17 battaglioni con 23 cannoni e 2 squadroni.
La pressione nemica si manifesta a Salionze sempre più intensa; pure i 2 battaglioni di riservisti e di reclute si sostengono per due ore e poi abbandonano la sponda, schierandosi sul terrazzo retrostante. Alle otto arriva un primo soccorso del De Sonnaz, 2 cannoni che aprono il fuoco, e 1 battaglione di Savoia, ma gli austriaci smascherano 12 pezzi e numerose fanterie; occorrono maggiori rinforzi. Il generale Bussetti, comandante la 2a brigata provvisoria, si reca verso Ponti e incontra per vìa il De Sonnaz. Questi ritiene che si tratti a Salionze di una finta, e che il vero pericolo sia più sotto, a Monzambano; ha mandato a quella volta la brigata composta e persiste a ritenere che il pericolo sia più giù. Verso le 9 il De Sonnaz è a Monzambano, e a quest'ora si trovano a Salionze 2 cannoni, un battaglione di Savoia, un battaglione e mezzo di reclute e riservisti; a Monzambano 7 battaglioni, la compagnia bersaglieri studenti e 9 cannoni; altre truppe sono in marcia su Borghetto. II grosso delle forze è riunito nel triangolo Salionze-Monzambano-Ponti, proprio nel punto più minacciato: pur trattandosi di truppe in gran parte stanchissime, è pur sempre un insieme pari a 15 battaglioni regolari e a 4 dì riserva con 16 cannoni. Invece, proprio ora la situazione precipita. Mentre il De Sonnaz è sempre fisso nell'idea che il nemico voglia passare il fiume a Monzambano, lo sforzo austriaco si manifesta a Salionze; e quando le truppe, dal De Sonnaz avviate verso Monzambano, vi sono giunte stanchissime, ricevono l'ordine di retrocedere; ma ormai gli austriaci stanno : passando il fiume e formano una piccola testa di ponte. E a questa prima operazione segue un vero e proprio sfondamento; le truppe, che stanno accorrendo quasi sfinite, vengono battute separatamente: sono truppe letteralmente spossate, esaurite in precedenza in una lotta impari, in marce e contromarce faticosissime, senza cibo, senza riposo, in giornate particolarmente afose e torride; e fra le quali cominciava ad insinuarsi il dubbio di mancare di buona guida ed essere perciò destinati a un sacrificio vano. Non v'è dubbio che gran parte della responsabilità di questo rovescio ricadesse sul De Sonnaz, costantemente tardivo e inadeguato nelle sue disposizioni. Si è soliti, purtroppo, rappresentare il forzamento austriaco del Mincio come un'operazione di poco rilievo contro alcuni battaglioni di riserva, sorvolando sulla mancata azione dell'intero II Corpo. Il De Sonnaz nella relazione troppo breve e sbrigativa, aggiungeva che l'insuccesso si doveva al fatto che 4 battaglioni di Pinerolo non avevano preso «la posizione ordinata..., a ciò indotti da ufficiali de' partiti estremi, non dalla fame»; nell'abbozzo della relazione era detto invece: quest'atto era forse il primo effetto ed inaspettato delle mene dei partiti estremi». Lo stesso Ufficio storico riconosce che l'affermazione del generale «non è avvalorata da alcun rapporto». Non solo, ma tutte le relazioni sono concordi nel rilevare la mancanza di superiore direzione e lo sfinimento delle truppe per la fatica e la fame - cosicché molti ne morirono. Al De Sonnaz parve che non fosse più il caso di tentar nulla e perciò decideva senz'altro di ripiegare su Borghetto; colle truppe stanche, affamate demoralizzate, proprio nella più calda ora di mezzogiorno, si poneva di nuovo in cammino: vari soldati restarono morti di sfinimento per la strada. Il generale di Bruno già il giorno prima, di sua iniziativa, aveva abbandonato l'antistante posizione di Valeggio; il Bava ve lo aveva rimandato bruscamente, facendogliene rilevare l'importanza particolare, ora che le truppe di riva sinistra del blocco di Mantova s'erano concentrate a Villafranca. Ed egli era tornato a Valeggio, ma di mal animo, senza curarsi di stabilire i collegamenti con Villafranca, né il Comando supremo, pur disponendo d'una divisione intera di cavalleria, aveva pensato di collegarsi con lui. E verso le dieci, all'apparire d'una avanguardia austriaca, aveva subito nuovamente abbandonato la posizione. Il De Sonnaz non pensa a rioccupare Valeggio, ma alle tre del pomeriggio giunge a spron battuto un aiutante di campo e annunzia imminente un assalto di cavalleria nemica. Non si tratta che di due squadroni procedenti in cauta ricognizione; ma subito si sparge la voce, sempre più esagerata, dell'imminente attacco: le truppe che si disponevano a prendere finalmente il rancio, si pongono senz'altro in ritirata, in mezzo al più grande disordine, verso Volta. Un maggiore grida: «Ecco il frutto dello Statuto; siamo tutti perduti: i nostri generali ci hanno lasciato circuire! » L'ordine vien tosto ristabilito, ma il De Sonnaz non ritiene di poter rimanere neppure a Borghetto e ripiega decisamente su Volta, ove giunge verso sera Osservava il colonnello Cauda, Relazioni, II, 271: «E qui cade acconcio osservare per la seconda volta quanto sia dannoso il lasciare spargere sinistre voci» e come fosse necessario avere capi di corpi «non presi per la sola anzianità». A ragion veduta il De Sonnaz si augurava, nel discorso al Senato del 17 ottobre 1848, che nella prossima campagna ì soldati fossero «più docili e più pazienti nelle sofferenze e nei disagi»!
Nel pomeriggio del 24 gli austriaci sono interamente padroni dei passi sul Mincio, di Salionze, di Monzambano e di Valeggio; e proprio mentre le truppe del II Corpo e della 2a divisione di riserva, sfiduciate e spossate, volgono penosamente su Volta, dall'altra parte del Mincio, alle quattro e mezzo pomeridiane, si ode tuonare il cannone: il Comando supremo piemontese attacca di fianco e alle spalle sulle colline da Sommacampagna a Custoza, colle forze di riva sinistra, l'esercito austriaco; azione slegata e condotta con forze insufficienti, ma che pur vale a procurargli il brillante, ma illusorio, successo di Staffalo. Si è molto discusso se Carlo Alberto e il Bava non avessero meglio agito assalendo gli austriaci dal lato di Valeggio; e indubbiamente con ciò il collegamento col II Corpo sarebbe stato assai più facile. Ma il Radetzky presupponeva l'attacco da quel lato e aveva disposto un triplice scaglionamento in profondità; non avrebbe quindi l'attacco piemontese avuto nessuna probabilità di successo. L'attacco più ad est tendeva invece a cogliere alle spalle l'esercito nemico, precludendogli ogni via di scampo; rendeva però sempre meno facile il collegamento col II Corpo ed esponeva l'esercito ad essere separato dalla propria base d'operazione in caso d'insuccesso. Né del resto sì può dire che il Radetzky non avesse preveduto anche tale mossa. In tutti i casi, la controffensiva andava condotta con assai maggiori forze, concentrando risolutamente la brigata Regina, la brigata Casale, il 17° fanteria Acqui, i due battaglioni di Pinerolo e i toscani di presidio a Villafranca: insieme colle altre 4 brigate già sul posto, si sarebbe avuta una massa di 42 o 45 battaglioni al posto di 24. Cesare Balbo nel suo famoso Sommano della storia d'Italia dice a riguardo della manovra di Carlo Alberto: « Ardita, magnìfica mossa, che poté far credere a chi udian da lungi esser destinato il nome di lui ad accrescer la breve serie de' grandissimi Capitani», ma aggiunse poscia: «Sventuratamente la mossa fu incompiuta, titubante; era senza disegno». Sulle colline di Custoza, a protezione del fianco sinistro austriaco, si trovava ora la brigata Simbschen, giunta da poco più di un'ora sulle posizioni dopo una lunga marcia, come sappiamo, da Legnago e da Buttapietra, coi suoi 6 battaglioni, 8 cannoni e 2 squadroni di cavalleria, forze invero scarse. Per di più, essa ha guarnito soprattutto i caposaldi di Sommacampagna e di Custoza, lasciando debolissima la difesa della cortina fra di essi, rotta dall'ampio avvallamento di Staffalo. E qui il Bava concentra lo sforzo, colle brigate Cuneo e Guardie, costituenti la divisione di riserva del duca di Savoia. Alle quattro e mezzo pomeridiane, si ha il primo contatto col nemico; gli austriaci si difendono con valore e non senza abilità, cercando anzi di contrattaccare dai due lati, ma dopo una lotta che si protrae per quasi quattro ore, gli austriaci devono ritirarsi con la perdita di 50 morti, 104 feriti (fra cui ben 17 ufficiali) e lasciando in mano al nemico 1160 prigionieri, 5 cannoni e 2 bandiere. I piemontesi hanno dovuto lamentare solo 16 morti e 54 feriti. Purtroppo era l'ultima volta che il sole della vittoria irradiava le bandiere piemontesi!
La vittoria solleva di colpo lo spirito del Comando supremo piemontese, il quale s'illude d'aver seriamente battuto l'intero I Corpo austriaco e, ignaro di quanto è accaduto al De Sonnaz, pensa che anche il II Corpo e il I di riserva non possano non trovarsi gravemente impegnati sul Mincio. Non c'è dunque che da continuare nella mossa così felicemente intrapresa: spingere l'indomani all'alba il duca di Genova in direzione di Oliosi, il duca di Savoia verso Salionze, e la brigata Aosta verso Valeggio; in questo modo sì stabilirà il collegamento col II Corpo piemontese, e quanto agli austriaci si tratterà solo di vedere se saranno tutti quanti tagliati fuori e prigionieri o se potranno in parte salvarsi. Non solo la guerra sarà finita, ma l'indipendenza italiana dallo straniero potrà essere fra poche ore una luminosa realtà! In verità, Carlo Alberto alle nove riceve dal De Sonnaz notizia delle non liete vicende del II Corpo, ma ormai egli ritiene che il forzamento del Mincio da parte del Radetzky potrà risolversi in un più grave danno, col grosso delle forze al di là del fiume. Perciò non ne parla e riservatamente che col Salasco. Ci si sente del resto così sicuri che non si pensa a richiamare né la brigata Regina, né il 17° fanteria, né i 2 battaglioni e i toscani di presidio a Villafranca. Verso le undici di sera, il Comando supremo dirama gli ordini per l'operazione del giorno dopo: De Sonnaz dovrà cooperare all'azione dalla destra del Mincio, attaccando Valeggio alle spalle. Gli ordini però arrivano tardi: al duca di Savoia alle sei del mattino, e al De Sonnaz addirittura alle undici.
Tratto da: "Storia militare del Risorgimento", Piero Pieri, Torino, Einaudi, 1962