Battaglie In Sintesi
397 a.C.
Tiranno di Siracusa. Figlio di Ermocrate, nato a Siracusa intorno al 432 a.C. Compare per la prima volta nella storia quale partigiano di un altro Ermocrate, figlio di Ermone, che, già prima della grande spedizione ateniese in Sicilia, aveva sostenuto una politica di accentramento di tutte le forze greche esistenti in Sicilia. Morto Ermocrate nel 408-7 in un tentativo fallito di tornare con le armi in Siracusa, Dionisio, che in questo tentativo era stato gravemente ferito e che aveva potuto solo a stento evitare una condanna, fu il continuatore della sua opera: e tale fu riconosciuto, quando egli sposò la figlia di Ermocrate. La minaccia impellente non era più, come alcuni anni prima, l'intervento ateniese, ma la rinnovata aggressione dei Cartaginesi, che approfittavano della situazione rovinosa, per i dissensi interni, per lo sperpero di uomini e di denari, lasciata dagli Ateniesi nella Sicilia greca. Questa situazione particolare non faceva del resto che aggravare i mali cronici, a cui aveva tentato di reagire la tirannide di Gelone e di Gerone quasi un secolo prima. Il tenace attaccamento alla propria autonomia impediva a ogni città di legarsi durevolmente con le altre in un saldo blocco che permettesse di contrastare validamente all'omogenea potenza cartaginese e di sottomettere in modo definitivo quegl'indigeni (Sicani, Siculi ecc.), che di per sé innocui diventavano pericolosi, perché infidi, a ogni conflitto. Né poteva avvenire che in regime costituzionale una città si assicurasse una stabile egemonia sulle altre città, perché era essa stessa all'interno indebolita dai conflitti dei partiti, ognuno dei quali si valeva dell'aiuto dei partiti corrispondenti in altre città, quando non ricorreva ai Cartaginesi stessi. L'unico rimedio conosciuto era la tirannide, che sopprimeva con violenza le lotte interne, preponeva a ogni problema il problema militare e quindi era in grado di espandersi e d'imporre con la forza il concentramento delle città greche: era peraltro rimedio, come si capisce, inviso, perché, con lo scopo di salvare la civiltà greca, impediva lo svolgersi di quelle attività che costituivano per i Greci il nucleo stesso della loro civiltà. Ciò spiega l'odio tenace che accompagnò tutta l'opera di Dionisio, fin da quando, poco dopo la morte di Ermocrate, oltrepassò i limiti che questi probabilmente si sarebbe imposto, se la sua impresa fosse stata fortunata, e si avviò risolutamente verso la tirannide: ciò spiega soprattutto la trista fama che rimase nei secoli, per opera soprattutto della tradizione elaborata in Atene o per influenza ateniese, intorno a questo uomo di stato che pure fu il più geniale e instancabile difensore della civiltà greca in Occidente e non fu insensibile nemmeno alle forme più raffinate di questa civiltà, se fu poeta, specialmente tragico.
Gli elementi su cui la tirannide nel mondo greco si poteva fondare erano due: i soldati legati alla fortuna del loro capitano e perciò generalmente mercenari; le classi diseredate che dalla tirannide si aspettavano con ragione un rivolgimento economico, perché la tirannide aveva interesse a deprimere le forze aristocratiche. A entrambi gli elementi Dionisio si rivolse, fin dal 407-6, quando l'occupazione cartaginese di Agrigento sollevò, insieme con i timori, l'indignazione dei Siracusani, che accusarono i loro strateghi di tradimento. Dionisio propose la nomina di nuovi strateghi e fu scelto tra questi, ma riuscì facilmente a liberarsi dei colleghi, accusandoli a sua volta e facendosi nominare solo comandante: poi, per un vero o simulato attentato contro la sua persona, ottenne anche una guardia personale di 600 soldati, naturalmente poi accresciuta, che gli assicurò in modo definitivo la dittatura. Tante concessioni non gli sarebbero venute con facilità l'una dopo l'altra, se egli nello stesso tempo non avesse dimostrato le migliori intenzioni democratiche, soprattutto con un intervento a Mozia in favore della democrazia, che lo rese celebre in tutta la Sicilia greca. La nomina di Dionisio non impedì tuttavia che i Cartaginesi continuassero nei loro successi, occupando anche Mozia e Camarina, la cui popolazione si rifugiò in massa a Siracusa, perché tutta l'organizzazione militare dei Greci era da ricostituire; né era possibile farlo immediatamente durante una guerra e con l'ostilità del partito aristocratico. Di questa ostilità l'episodio più grave fu, appunto in seguito alla perdita di Mozia, la ribellione della cavalleria siracusana formata, come ogni cavalleria, dai giovani aristocratici. Essa nella ritirata si distaccò da Dionisio, si precipitò a Siracusa, facendo strazio dei famigliari e della moglie di Dionisio, e credette di potergli chiudere le porte davanti; ma la fanteria rimasta fedele aiutò Dionisio a rientrare in Siracusa e costrinse i cavalieri a rifugiarsi in Etna. Intanto, approfittando di queste lotte intestine, i Cartaginesi stavano ponendo l'assedio a Siracusa; ma un'epidemia violenta li persuase alla pace. La quale fu conclusa alle condizioni che la parte occidentale della Sicilia con gli Elimi e i Sicani rimanesse ai Cartaginesi: le città greche evacuate e occupate dai Cartaginesi (Mozia, Camarina, Selinunte, Agrigento, ecc.) fossero di nuovo consegnate ai Greci, ma con l'obbligo del tributo ai Cartaginesi; Messina e Leontini, insieme con i Siculi, fossero autonome, e Siracusa rimanesse nelle mani di Dionisio esplicitamente riconosciuto dai Cartaginesi (404 a. C.). Era per il momento quanto occorreva a Dionisio, che aveva bisogno di una tregua per riorganizzare l'ordinamento della città e per ricostituire l'esercito e la flotta. In linea teorica Dionisio era solo il generale in capo, non sappiamo se eletto a vita o (il che è meno probabile) continuatamente rieletto; ma poi di fatto, come si capisce, egli poteva dominare a piacere l'assemblea popolare, che ancora rimaneva accanto a lui, sebbene con poteri limitati, perché Dionisio non solo la presiedeva, ma aveva egli solo il diritto di farvi proposte, e tutte le altre magistrature erano designate da lui. In tali condizioni gli fu assai facile di apportare radicali modificazioni alla cittadinanza, spossessando i cavalieri fuorusciti, distribuendo i loro beni fra i suoi partigiani e ammettendo nella cittadinanza con minori diritti schiavi emancipati o forse meglio i servi della gleba ancora rimanenti (i cosiddetti Cilliri). Intanto si fabbricava la roccaforte nell'isola di Ortigia, ostruendo con un muro l'istmo che la congiungeva alla città. Il consolidamento all'interno si poteva dire avvenuto. Poteva allora iniziarsi la riconquista della Sicilia libera dai Cartaginesi; condizione essenziale per poter poi rivolgere queste forze contro i Cartaginesi stessi. Ma l'inizio fu disgraziatissimo. Se l'opposizione politica era fiaccata all'interno, restava forte al di fuori fra i cavalieri asserragliati in Etna, fra gli altri fuorusciti dispersi per la Sicilia e per la Grecia, che erano riusciti a trarre dalla loro parte anche la madrepatria di Siracusa, Corinto. Perciò, quando Dionisio tentò un primo attacco a una cittadina sicula, Erbesso, si vide respinto da un esercito di Siracusani esuli e di Corinzi, i quali lo costrinsero a ritirarsi in Siracusa e lo assediarono. Solo l'aiuto di 1200 mercenari campani, già al soldo dei Cartaginesi, e le discordie degli avversari permisero a Dionisio di liberarsi dall'assedio. L'esperienza lo persuase quindi a riconciliarsi, per mediazione dei Corinzi, con gli esuli e soprattutto a rinnovare il suo piano di sottomissione della Sicilia. Non più attacchi a città minori, attacchi che lasciavano libere di accorrere in loro aiuto le città maggiori, bensì rapide sorprese su queste città stesse, e non solo per sottometterle, ma per trasformarle in modo che fosse evitato ogni pericolo di ribellione e fosse assicurata la capacità di resistenza contro i futuri attacchi cartaginesi: in altre parole, le città dovevano essere trasformate in colonie militari, mentre la vecchia cittadinanza era dispersa, in parte trasferita a Siracusa, in parte lasciata al suo destino. Così vennero trattate Nasso, Catania, Leontini ecc., instaurando un sistema che fu poi normale per tutto il governo di Dionisio e ricoprì la Sicilia e in seguito la Magna Grecia di una serie di colonie militari, delle quali alcune appositamente fondate, come Adranon presso l'Etna a sorveglianza dei Siculi. In Siracusa fervevano contemporaneamente i preparativi per la lotta contro i Cartaginesi, si fortificava la città e si costruiva una flotta di 200 navi, fra cui molte tretere e pentere, che erano la massima novità tecnica del tempo. Tali preparativi erano concomitanti con una di quelle epidemie, che in quegli anni a periodi intermittenti facevano strage di Cartaginesi, e costituiranno sempre le occasioni più favorevoli per gli attacchi di Dionisio Appunto per questa epidemia Dionisio poté aver mano libera in tutta la Sicilia per un anno intero (398 a. C.), in cui solo alcune delle maggiori colonie fenicie poterono resistere, mentre altre, quale Motia, cadevano, e si faceva in ogni parte una caccia spietata all'elemento semita. Ma l'anno dopo, Imilcone sbarcava con una flotta potente e riconquistava rapidamente tutto il terreno perduto, fino a giungere a sottomettere Messina. Infine si scontrava nelle acque di Catania con la flotta siracusana e la distruggeva in gran parte. Dionisio era costretto a ritirarsi in Siracusa una seconda volta ed era qui assediato. Insieme con l'aiuto spartano e corinzio di 30 triere comandate da Farace, veniva in soccorso dei Siracusani una nuova recrudescenza della peste nel campo cartaginese. Dionisio poteva uscire dalla città e assalire, con pieno successo, l'esercito d'Imilcone. Anche nel resto della Sicilia la resistenza punica era minima, e la rioccupazione di tutta la Sicilia greca insieme con alcune colonie fenicie, quale Solunte, poteva procedere rapidamente: sorgevano nuove colonie militari, tra cui sulla costa settentrionale Tindaride, popolata di Messeni venuti dal Peloponneso.
Ma questo nuovo e difficile trionfo non poteva placare i malcontenti, aggravati dalla situazione economica disastrosa. Mentre alcune delle più fiorenti città greche erano state distrutte e spopolate, creando migliaia di fuggiaschi, le spese militari che la politica di Dionisio comportava erano enormi e imponevano un fiscalismo che avrebbe da solo rovinato un'economia anche florida: oltre ai tributi (evidentemente limitati in caso di guerra) che, come dice Aristotele (Polit. V, 1313, b, 26), assorbivano le intere sostanze in cinque anni, un complicato sistema di dazi, di decime, ecc. sopperiva ai bisogni del bilancio, senza contare le entrate straordinarie (bottino di guerra, spoliazione di templi, confische) e l'alterazione del valore della moneta, a cui Dionisio ricorse più di una volta. Tutti questi malcontenti facevano capo a Reggio, fiera della sua tradizione di libertà, aperta agli esuli politici siracusani e soprattutto nemica ereditaria di Locri, che era strettamente legata con Dionisio: tanto che perfino ci narrano, con discutibile simbolismo, che Dionisio aveva sposato nello stesso giorno una donna di Locri e una di Siracusa. Un'improvvisa aggressione al castello di Mile (Milazzo), preparata da esuli di Nasso e di Catania, ma aiutata da Reggio, provocava l'apertura delle ostilità. Del che naturalmente approfittavano i Cartaginesi, tornando a sbarcare con Magone in Sicilia (393 a. C.). Dopo un vano tentativo contro Reggio, Dionisio stipulava una tregua di un anno con questa città e si rivolgeva contro i Cartaginesi, ma gli ammutinamenti del suo esercito lo costringevano a trattare con i nemici a condizioni per noi abbastanza oscure. È probabile tuttavia che la regione nord-occidentale della Sicilia con gli Elimi e parte dei Sicani fosse riconosciuta ai Cartaginesi. Dopo di ciò Dionisio tornava contro Reggio, a cui s'era unita tutta la lega delle città italiote (Crotone, Caulonia, Sibari, ecc.), infine consapevole che l'intervento di Dionisio nella Magna Grecia significava la sua volontà di sottometterla tutta. Dopo varie vicende, una vittoria presso il fiume Eleporo dava in mano a Dionisio Caulonia e Reggio: i cittadini della prima erano trapiantati a Siracusa; quelli della seconda, già risparmiati, erano poi per insubordinazione fatti schiavi in massa, e la città fu distrutta (386 a. C., l'anno del saccheggio di Roma per parte dei Galli, secondo un celebre sincronismo, capitale nella cronologia antica). Era ormai chiara la posizione politica di Dionisio La sua tirannide si poteva sostenere solo in quanto egli riuscisse a dominare tutta la grecità occidentale: ogni città libera era per necessità sua avversaria e valeva a concentrare intorno a sé tutti i nemici della tirannide, provocando interventi cartaginesi. Ma questo grande stato non poteva giustificarsi se non liberando la grecità da tutti i suoi nemici tradizionali: insieme con i Cartaginesi, gli Etruschi e i pirati (spesso gli Etruschi medesimi), che ne impedivano il dominio del mare e la sicurezza dei commerci. Mentre si veniva preparando la nuova guerra contro i Cartaginesi, che avrebbe dovuto essere definitiva, era iniziata una vasta colonizzazione militare nell'Adriatico, ed erano occupate Lissa, Lesina, Curzola ecc., fondata Ancona, colonizzata Adria, dove sarà inviato pressoché in esilio quale governatore uno dei principali collaboratori di Dionisio, Filisto, quando in un conflitto tra Dionisio e il fratello Leptine, risoltosi poi felicemente, Filisto prese le parti di quest'ultimo. E anche di questo periodo una dimostrazione militare contro gli Etruschi, senza conseguenze rilevanti, se non il grosso bottino con il saccheggio di un tempio presso Pirgi. La potenza di Dionisio, amata da alcuni, odiata dai più, s'imponeva alla stessa Grecia, dove Dionisio non mancava d'intervenire ovunque potesse in favore della sua alleata Sparta; e un suo aiuto di 20 navi durante la guerra corinzia fu uno dei principali motivi che decisero Atene alla pace di Antalcida (387-6). La nuova guerra con Cartagine scoppiò infine nel 383-2 con un duplice attacco cartaginese in Sicilia e nella Magna Grecia. Dopo una grande vittoria siracusana a Cabala (luogo ignoto) con la morte del generale cartaginese Magone, Dionisio credette di poter imporre ai cartaginesi l'abbandono della Sicilia, ma questa condizione fu rifiutata e un ritorno offensivo dei Cartaginesi portò alla loro vittoria a Cronio, dove morì il fratello di Dionisio, Leptine. Si venne quindi alla pace, sfavorevole ai Siracusani. Essi dovettero pagare 1000 talenti, e il confine fu portato al fiume Alico, che lasciava in mano dei Cartaginesi Selinunte e parte del territorio di Agrigento: tale confine rimase poi sino alla conquista romana. Né valse a mutarlo l'ultima guerra che Dionisio ormai vecchio, ma tenacemente fedele al suo ideale, mosse contro i Cartaginesi, approfittando di una nuova pestilenza, nel 368-7, dopo aver adoperato il decennio di relativa pace per proseguire l'occupazione della Magna Grecia, conquistando Crotone, e per aiutare Sparta contro i Tebani, soprattutto dopo la battaglia di Leuttra (370-69), con ciò riconciliandosi per un momento gli Ateniesi, alleati di Sparta, che gli concessero la cittadinanza onoraria, gli premiarono una sua tragedia rappresentata nelle Lenee del 367 e infine conclusero una formale alleanza con lui in quell'anno. È dubbio se quest'alleanza avrebbe dovuto portare in futuro a un'effettiva collaborazione politica tra Dionisio e il blocco anti-tebano non solo nelle cose della Grecia, ma anche nella lotta contro i Cartaginesi. Dionisio, dopo aver liberato Selinunte ed Entella ed aver subito forti perdite navali per una sorpresa nelle acque di Erice, che lo costrinse a una breve tregua, morì nello stesso anno 367 senza aver potuto nulla concludere. Risultato del suo sforzo di quarant'anni era la salvezza della civiltà greca in Sicilia; ma la sua costruzione politica, ripugnante a quella stessa civiltà che voleva difendere, era destinata a crollare rapidamente.
È stato un generale e suffeta cartaginese. Dopo aver sostituito Annibale Magone al comando delle truppe cartaginesi nella terza campagna siciliana, nel 406 a.C. conquistò Agrigento e nel 405 a.C. Gela e Camarina, costringendo Dionisio I, tiranno di Siracusa, alla pace dopo aver assediato Siracusa. Nel 396 a.C. ritornò in Sicilia (quarta campagna siciliana di Cartagine) dopo che Dionisio I aveva riaperto le ostilità nel 397 a.C. Dopo aver riconquistato le città di Erice e Mozia, distrutta dai Greci l'anno precedente, marciò lungo la costa settentrionale siciliana, espugnò Messina e avanzò verso Siracusa, che pose in assedio. Una pestilenza e un contrattacco di Dionisio I lo costrinsero ad abbandonare l'assedio e tornare a Cartagine con i superstiti. Tornato in patria, si uccise per la vergogna della sconfitta. Egli fu, nei fatti, uno dei più grandi grande condottieri punici, il massimo dell'età classica, quello che riuscì ad espugnare Agrigento, la più grossa "preda" della storia di Cartagine. Fu il primo a durare in carica dieci anni, dal 406 a.C. circa al 396 a.C. circa. Il suo successore fu Magone II.
Or come i Siculi credettero, che la marcia da essi presa verso Siracusa potesse ritornare per loro in una specie di aspro assedio, e difficile da superare, istantemente domandarono a Dionigi, che tosto andasse ad attaccare Imilcone, poiché per sì repentino arrivo sarebbonsi spaventati i Barbari; ed egli li avrebbe tratti a pagare il fio della strage che aveano fatta de' suoi. E già Dionigi inclinato ai consigli loro era disposto a condurli contro l'inimico, quando alcuni de' suoi amici gli fecero presente il pericolo, che Magone andasse con tutta l'armata a Siracusa, ed egli perdesse quella città. Abbandonò dunque quel pensiero, considerando che per simil modo era stata presa anche Messana. Onde non giudicando cosa prudente il lasciare sì grande città spoglia di presidio, si mise in cammino verso la medesima. Allora la più parte de' Siculi sdegnati, ch'egli ricusasse di andare incontro al nemico, abbandonarono il campo di Dionigi; ed alcuni andarono alle loro case, altri si dispersero per le vicine castella. Imilcone intanto giunto in due giorni alla spiaggia di Catania, quante navi trovò ivi, tutte le mise a terra per salvarle dalla procella imperversante; e dato per alcuni giorni riposo ai soldati, mandò un deputato ai Campani, abitanti in Etna, sollecitandoli ad abbandonare Dionigi, con promessa di rimunerarli con più esteso territorio, e di farli partecipi della preda, che in quella guerra si acquisterebbe. Avvisò pure i Campani, che gli abitanti di Entella s'erano messi nel partito de' Cartaginesi, e che davano ajuto a lui contro i Siculi. E fini' mostrando, che i Greci odiavano mortalmente le estere nazioni. Ma i Campani, quantunque desiderassero di passare agli accampamenti de' Cartaginesi, avendo dati a Dionigi come ostaggi in Siracusa i migliori de' loro soldati, vedevansi, sebbene contro loro voglia, costretti a mantenersi in società col medesimo. Dionigi, incominciando a sentire la potenza dei Cartaginesi, mandò Polisseno, suo parente, ai Greci d'Italia, ai Lacedemoni ed ai Corintii, domandando che volessero ajutarlo, non permettendo che le greche città di Sicilia venissero interamente distrutte. E mandò ancora arruolatori con grandi somme di denaro nel Peloponneso, ordinando loro che radunassero quanto maggior numero potessero di soldati, e non guardassero a spesa. Imilcone intanto, colle navi ornate delle spoglie de' nemici, entrato nel porto grande di Siracusa, mise gli oppidani in sommo trepidamento. La mostra ch'ei fece entrando, fu prima di dugento otto navi lunghe, remiganti con eccellente ordine, ed apparate tutte magnificamente della preda riportata. Poi venivano mille altre da carico, parecchie delle quali portavano più di cinquecento soldati; così che le navi in tutto erano duemila. E ciò fece, che il porto di Siracusa, quantunque assai vasto, fosse come ostrutto per tanti legni, e coperto tutto quanto per tante vele. E già quest'armata stava ferma nel porto, quando immantinente dall'altra parte s'accostò alla città l'esercito di trecentomila fanti, come alcuni hanno detto, e di tremila uomini a cavallo. Imilcone, comandante supremo, mise il suo padiglione nel tempio di Giove, e la moltitudine si accampò negli adjacenti luoghi, a dodici stadj incirca dalla città. Poscia schierato tutto l'esercito, e disponendolo in battaglia sotto le mura, provoca i Siracusani al combattimento. Di più con cento navi lunghe delle migliori occupa anche gli altri porti, ad oggetto che, incussa paura agli oppidani, venissero obbligati a confessare d'essere inferiori ai Cartaginesi anche in mare. Poiché però nissuno ardì venir fuori, egli ricondusse negli alloggiamenti i suoi soldati; e per trenta giorni scorrendo pel paese, fece atroce devastazione con taglio d'alberi e con ruina d'ogni cosa, tanto per saziare la cupidigia de' suoi soldati, quanto per mettere gli assediati in disperazione. Prese eziandio il sobborgo dell'Acradina, e spogliò i templi di Cerere e di Proserpina, della quale sacrilega empietà verso il nume poco dopo pagò il meritato fio; perciocchè immantinente la sua fortuna cominciò a cangiare, ed a farsi ogni giorno peggiore; e quando Dionigi ripigliato animo prese ad andar pizzicando l'armata africana, i Siracusani ne furono vittoriosi. E accadde pure, che di notte e all'improvviso nascevano nel campo spaventi e confusioni, e correvasi alle armi come se i nemici fossero nel vallo. In seguito, l'esercito fu attaccato da malattia, divenuta in progresso cagione di tutte le disgrazie sopraggiunte: delle quali cose parleremo appresso, non dovendo ora invertere l'ordine dei fatti.
Adunque Imilcone volendo in fretta alzare un muro che cingesse il suo campo, venne a demolire quasi tutti i sepolcri ch'erano vicini; e fra gli altri il monumento eretto a Gelone e a Demareta sua moglie, opera di lavoro meraviglioso, che costato avea grande spesa. Costrui' pure tre castelli vicino al mare, uno al Plemmirio, uno circa la metà del porto, e l'ultimo presso il tempio di Giove: ne' quali egli pose vino e frumento, e le altre necessarie provvigioni, credendo che questo assedio dovesse andare assai in lungo. Mandò inoltre navi da trasporto in Sardegna, e in Africa per prendere frumento ed altra vettovaglia. In questo frattempo Polisseno, parente di Dionigi, ritornato dal Peloponneso e dall'Italia, condusse seco trenta navi lunghe avute dai confederati, e Faracida lacedemone, comandante dell'armata. Dopo queste cose scorrendo Dionigi e Leptine con navi lunghe per introdurre in città vettovaglie, accadde che i Siracusani rinvenuti dal primo timore, vedendo una nave nemica carica di frumento dirigersi a' suoi, con cinque delle loro l'assaltarono, e presa la condussero in città; e mentre i Cartaginesi vollero moversi contro loro con quaranta navi, i Siracusani mossero tutta la loro armata; e venutosi al fatto d'armi presero l'ammiraglia, e delle altre ne ruppero ventiquattro, inseguendo i fuggiaschi fino alla stazione dei nemici, e provocandoli a venir fuori. Ma questi dal subitaneo accidente turbati, non si movevano più: laonde i Siracusani attaccate alle loro proprie le navi prese, le condussero nella città; ed animati dal felice successo, pensando che sovente prima d'ora Dionigi avea avuta la peggio, e che senza di lui aveano già riportata vittoria de' Cartaginesi, s'insuperbiscono; e facendo gruppi qua e là, vanno discorrendo di queste cose, e d'una ad altra passando, non mancano di dirsi a vicenda, soffrire intanto di lasciarsi dominare da Dionigi, quando hanno in mano sì comoda occasione di rovesciarlo: che fin'ora essi furono disarmati; ed ora a cagione della presente guerra hanno di nuovo in lor potere le armi. Mentre facevansi dal volgo questi discorsi, Dionigi entra in porto; e subito radunata la concione, loda i Siracusani, e li esorta a mettersi a livello delle circostanze, e ad aver coraggio, promettendo di far tosto finire la guerra; ed essendo per isciogliere la concione, Teodoro siracusano, uomo di molto credito presso i cavalieri, e tenuto per valente in fatti, non dubitò di parlare intorno alla libertà di questa maniera. Intanto, dopo che i Cartaginesi ebbero distrutto il sobborgo del cimiterio, e saccheggiato il tempio di Cerere e di Proserpina, videro il loro esercito attaccato orribilmente da pestilenza. E a rendere più sensibile il gastigo inflitto dal divin nume s'aggiunse ancora, che molte migliaja d'uomini trovaronsi ristrette in un sol luogo; mentre la stagione medesima contribuì a rendere i progressi della malattia più veementi, avendo l'estate recati insoliti ardori. E alla stagione si univa la condizione particolare del terreno paludoso e basso, dove anche gli Ateniesi, che ivi pure in addietro aveano posti gli accampamenti, per la stessa malattia ebbero a soffrire enorme strage. Imperciocchè, al levar del sole esalando dalle acque un vapor freddo, costipavansi i corpi, e si mettevano in orribil tremito; e al mezzodì sopraggiungeva un caldo soffocante, che ne alterava gli umori; e l'ammassamento di tanta moltitudine estendeva le influenze del male.
La contagione incominciò negli Africani, che cadevano morti a stormi. Per alcun tempo i cadaveri si sotterrarono; ma crescendo il numero de' morti, e tolti di mezzo dal morbo pestilenziale quelli, che aveano la cura degli ammalati, niuno più si fidò d'accostarsi a que' miseri: ed oltre a non esservi più né ispettori, né inservienti, non potevasi avere alcun rimedio. Dal fetore dei cadaveri insepolti, e dalle putrescenti materie palustri, prima nacque il catarro, e poi davano fuori de' tumori al collo. Indi a poco a poco dichiaravasi la febbre, e dolori ne' nervi, e nella spina dorsale, e gravezza nelle gambe. A ciò succedeva dissenteria, ed insieme pustole per tutta la superficie del corpo. Ma alcuni anche cadevano in furore, e in dimenticanza d'ogni cosa; e si mettevano a correre disordinatamente pel campo, e mentecatti non aveano riguardo a battere ognuno in cui s'incontrassero. Ed era inutile anche il soccorso dei medici, tanto per la violenza del male, quanto pel repentino sopraggiungere della morte; mentre le persone spiravano fra tormenti atrocissimi entro il quinto o sesto giorno: così che beati reputavansi quelli, che fossero morti in battaglia. Ed aggiungasi, che tutti quelli, che aveano qualche comunicazione cogli ammalati, ammalavansi anch'essi dello stesso morbo: onde tanto più grave era la disgrazia di chi infermavasi, perché nissuno voleva prestar loro assistenza: né abbandonavansi soltanto vicendevolmente quelli, che tra loro non aveano alcun vincolo di parentela; ma perfino il fratello per paura di sé era costretto ad abbandonare il fratello , e l'amico l'amico.
Dionigi adunque informato dell'infortunio de' Cartaginesi, mise in buon ordine ottanta navi, ingiunse a Faracida e a Leptine, comandanti di queste forze, che allo spuntar del giorno avessero ad attaccare l'armata nemica; ed egli intanto nel silenzio della notte condotte fuori le sue squadre al tempio di Ciane, nascostamente s' appressò sul far del giorno agli accampamenti de' nemici. Ed avea egli prima mandata una schiera di cavalieri, e mille stipendiati a piedi a quella parte degli alloggiamenti cartaginesi, che stendevasi nell'interno del paese; e siccome codesti stipendiati erano più degli altri a lui avversi, e sovente facevansi capi de' tumulti e delle sedizioni, egli aveva ordinato ai cavalieri, che subito che si fosse colà attaccata la zuffa col nemico, li abbandonassero, e fuggissero via. I cavalieri di fatto eseguirono un tal ordine; e quegli stipendiati furono tutti tagliati a pezzi. Nel tempo medesimo poi Dionigi avea risoluto di assaltare insieme e gli accampamenti ed i castelli: onde colpiti i Barbari dal subitaneo attacco, e correndo in gran disordine alla difesa, egli poté espugnare il castello detto di Polieno. Dall'altra parte nell'istesso tempo i cavalieri con alcune triremi si mossero contro il castello vicino a Dascone, e l'ebbero. Tutta l'armata intanto si mette a navigare, e l'esercito con liete grida prosiegue a combattere i castelli. Per lo che una gran paura entrò ne' Barbari, i quali da principio s'erano volti tutti al loro esercito, onde far resistenza a quelli, che volevano prendere gli accampamenti: ma quando videro venir l'armata corsero per difendere la stazione delle navi. La quale diligenza però non giovò punto alle loro cose; perchè mentre essi montarono sulle loro navi, e le triremi fornirono all'uopo di gente, le navi nemiche facendo forza di remi vi furono addosso, e con tanto impeto si posero a batterle co'rostri, che al solo primo colpo ben diretto molte affondaronsi; ed altre per le frequenti botte scompaginate ed aperte, mettevano agli Africani un terror mortale. Accadde dunque così, che per questa universale ruina e l'aria intorno udiasi rimbombare di orrende percosse e strida, e il lido si copri tutto di cadaveri rigurgitati dal mare insieme coi frantumi di legni fracassati.
Laonde i Siracusani, fatti dal buon successo più coraggiosi, a gara saltavano sui legni nemici, prevenendosi l'un l'altro; e dappertutto sparsi tagliavano a pezzi que' Barbari sopraffatti dalla grandezza del pericolo, in cui vedevansi. Nè meno adoperavansi le squadre a piedi, che assaltata aveano la stazione delle navi: tra le quali squadre era allora per avventura lo stesso Dionigi. Imperciocché avendo ivi trovate quaranta navi a cinquanta remi l'una messe già a terra, e molti legni da trasporto ivi pur fermi, ed alcune triremi, a tutte fu appiccato il fuoco; e sì grande e pronto fu l'incendio, che nissuno né marinaio, né mercatante per la violenza delle fiamme poté prestarvi soccorso; e un gagliardo vento, che allora spirava, stese l'abbruciamento dai paliscalmi, ch'erano a riva, sino ai legni da carico, che trovavansi nelle darsene. E tra che gli uomini per fuggire alle fiamme gittandosi a nuoto aveano abbandonate le navi; e tra che il fuoco avea consunto le corde, alle quali erano raccomandate le ancore, vedevansi molte navi in balìa de' flutti ondeggiando urtarsi l'une l'altre, e spezzarsi; altre dalla procella investite disperdersi; e la maggior parte finire per l'incendio incarbonite, e distrutte. E fu uno spettacolo meraviglioso per gli abitanti della città il vedere come la fiamma, che comprese già avea tutte quelle navi da carico, saliva per gli alberi alle antenne, e ai cordaggi; e perivano i Barbari non diversamente che accada a coloro, che rei di empietà sacrilega dai fulmini del cielo sono inceneriti. Eccitati dall'avvenimento e i ragazzi alquanto grandicelli, e i vecchi non ancora indeboliti affatto dalla decrepitezza, presero a metter de' ponti per gittarsi sulle navi che erano in porto, e a torme confusamente entrandovi le mezzo abbruciate depredavano, le atte ancora a servire ristaurate ponevano da parte, e le intatte attaccandole a' paliscalmi conducevano in città: così pel subito entusiasmo, che metteva gli animi in singolar movimento, prendevano in certo modo parte alla guerra que'medesimi, che a cagione della età n'erano dispensati. E propagatasi già la nuova di tanta vittoria per ogni angolo della città, ecco fanciulli e donne co' servi di casa abbandonare le abitazioni, e correre sulle mura, ed empirsi tutto il circuito delle medesime di spettatori; chi colle mani alzate al cielo benedire gli Dei ringraziandoli; chi gridare degna mercede avere i Barbari de'sacrilegii commessi nello spogliare i templi de'Numi: poiché parea da lontano, che gli stessi Dei combattessero, al mirar tante navi prese d'ogni intorno da si veemente fuoco, che saliva colle fiamme sino alla vetta degli alberi più alti: ed ebbri di gioja con infinito schiamazzo secondavano i Greci nella calda loro immaginazione una tale idea; e all'incontro i Barbari colpiti da sì atroce infortunio con acute strida di dolore e di spavento assordavano intorno l'aria, omai più non sapendo come provvedere a sé stessi. La notte sopravvenendo sospese il combattimento; e Dionigi andò ad accamparsi in faccia a' nemici presso il tempio di Giove.
Pertanto i Cartaginesi così battuti per terra e per mare, di nascosto de' Siracusani mandarono legati a Dionigi domandando di potere colla gente, che loro rimaneva, ritornarsi in Africa, in compenso di che gli offrivano trecento talenti, che ancor restavano nel campo. Ma Dionigi rispose loro non essere possibile che tutti di tal maniera si salvassero; che però ai Cartaginesi soli permetteva d'andarsene nascostamente: non potendo per riguardo a' Siracusani ed agli ausiliari concedere di più. Ed accordava egli poi tanto perché non voleva distruggere totalmente le forze dei Cartaginesi, onde continuando i Siracusani ad averne timore, non trovassero opportunità di rendersi liberi. Avendo egli adunque pattuito, che i Cartaginesi fuggissero la notte del quarto giorno, egli condusse il suo esercito in città. Imilcone mandò di notte i trecento talenti nella rocca, consegnandoli alle persone, che Dionigi avea destinate nell'Isola a riceverli; ed empiute quaranta navi di cittadini, abbandonando tutto l'esercito, nel silenzio di oscurissima notte si mise in moto per fuggir via. Accadde però, che mentre egli era alla imboccatura del porto, alcuni Corintii si accorsero della fuga, e mandarono tosto ad avvisare Dionigi. E mentre questi faceva chiamare alle armi soldati e capitani, e si perdeva tempo, i Corintii impazienti del ritardo mossero contro i Cartaginesi, e a gran forza di remi arrestando le ultime navi degli Africani, coll'urto de' rostri le sommersero. Dionigi poi condusse fuori l'esercito: ma i Siculi, ausiliari de' Cartaginesi, prima, che i Siracusani venissero loro addosso, presero la fuga per l'interno del paese, e recaronsi quasi tutti ai loro luoghi. Dionigi intanto, avendo prima mandato sentinelle ad intercettare le strade mentre era ancor notte, s'accostò al campo de' Barbari, i quali vedendosi traditi tanto dal Comandante supremo, e dai Cartaginesi, quanto dai Siculi, perduto il coraggio, e pieni di paura, si misero a fuggire: ma in parte furono presi da quelle sentinelle che li attendevano sulle strade; in parte, ( e questi furono i più ) gittate le armi, corsero essi medesimi incontro ai nemici domandando salva la vita, ai soli Ispani, ritenute le armi, e formatisi in uno squadrone, mandarono un araldo per venire a trattato; e Dionigi fece accordo con essi, e li prese al suo soldo. La rimanente ciurma fu fatta prigioniera, e tutte le bagaglie rimaste furono lasciate in preda a' soldati.
In questo modo la fortuna ad un tratto mutò lo stato delle cose de' Cartaginesi, e fece vedere a tutti gli uomini, che coloro i quali s'alzano più di quanto convenga, presto scorgonsi cadere al basso. I Cartaginesi impadronitisi di quasi tutte le città di Sicilia, eccettuata Siracusa sola, che però riguardavano come sicura loro conquista, venivano repentemente a dover temere per la loro stessa patria; ed essi, che distrutti aveano i monumenti de' Siracusani, vedeano senza l'onore della sepoltura restare gittati qua e là centocinquantamila cadaveri de' loro. Essi, che aveano messo a ferro e a fuoco il territorio de' Siracusani, vedeano per improvvisa mutazione di condizione involta nelle fiamme la loro armata. Essi, che entrati superbamente con tutto il loro esercito nel porto di Siracusa aveano fatta pomposa mostra ai Siracusani della propria felicità, non aveano preveduto che verrebbero costretti a prender la fuga in mezzo alle tenebre della notte, abbandonando vilmente, e tradendo i loro confederati e compagni. E lo stesso Comandante supremo, il quale avea posto il suo alloggiamento nel tempio di Giove, e s'era appropriato delle ricchezze dei luoghi sacri; ecco che con pochi vergognosamente correva a rifuggirsi a Cartagine; ove se, evitando una morte dovuta alla natura, sfuggiva la pena meritata per la sacrilega violazione del nume, eragli però riservata una vita infame, e il peso di ogni vituperio. Ed anzi in tal miseria egli cadde, che videsi correre forsennato, e coperto di sordidissimi cenci, pe' templi della città, detestando altamente l'empietà sua, pagando agli Dei manifestamente il fio de' suoi sacrilegi! Ed infine da sé stesso dannandosi a pena capitale, finir la vita d'inedia; lasciando negli animi de' suoi concittadini gran terrore del Nume offeso. Nè andò guari che altre disgrazie di guerra la fortuna venne ancora a rovesciare sopra essi. Imperciocché divulgatasi per la Libia sì gran ruina, quelli che coi Cartaginesi fino allora aveano avuta società d'armi , quantunque già dianzi odiassero il peso del loro imperio , pel tradimento che udirono fatto presso Siracusa di quanti militavan con loro, di più acerbo odio s'infiammarono; e per ciò tra lo sdegno che gl'incitava, e il disprezzo che andavano concependo per sì mal esito della impresa, incominciarono a pensare di rivendicare la propria libertà. Quindi spediti delegati qua e là, misero insieme un esercito, e si posero a campo aperto: ove immantinente affluenza tanta concorse d'uomini e liberi e servi, che in pochissimo tempo si ebbero uniti dugentomila armati. La prima impresa che fecero, fu quella di occupare Tunisi, città non molto distante da Cartagine; di dove procedendo in ordine di battaglia, ed essendo rimasti superiori in varj combattimenti, chiusero i Peni entro le loro mura. Allora finalmente i Cartaginesi conobbero dagli stessi Dei venire loro fatta la guerra; e prima trepidando, poi a poco a poco facendo spirito, incominciarono supplichevoli a pregare il Nume, che volesse metter fine allo sdegno. E tutta la città fu presa da terror religioso; ed ognuno sentì l'estremo pericolo di cadere in profonda servitù. Per la qual cosa fu deliberato con comune accordo di tutti, che s'avesse in qualunque possibil modo a placare i Numi violati degli Dei; e quantunque nei loro sacri riti non avessero uso di prestar cullo né a Proserpina, né a Cerere, nondimeno crearono in sacerdoti di queste Dee alcuni de' più illustri fra loro cittadini; e con tutta la magnificenza inaugurate le statue delle medesime, presero le opportune misure, onde in avvenire far loro i sacrifizj secondo i riti de'Greci; e i più istrutti tra i Greci, che aveano presso loro, scelti diligentemente, destinarono al ministero di que' Numi. Quindi si posero a fabbricar navi, ed a provvedere con somma cura tutte le cose attinenti alla guerra. Intanto que' popoli, che s'erano ribellati, quantunque avessero immensa ciurma d'uomini, mancavano di capitani capaci a condurre la guerra; e quello che è più, mancavano ancora di vettovaglia pel gran consumo a tanta moltitudine occorrente; quando i Cartaginesi ne aveano abbondantemente per le provvigioni, che ne somministrava la Sardegna. S'aggiunge ancora, che nel campo de' sollevati era nata discordia intorno al supremo comando, e che molti di loro corrotti dal denaro dei Cartaginesi, mal corrispondevano alle comuni speranze. Quindi avvenne che, e per la carestia de' viveri, e pel tradimento di alcuni, quella grande massa di gente si sciolse, ognuno ritornando al proprio paese; e per tal modo liberò i Cartaginesi dal terrore, in cui erano caduti. In questo stato erano allora le cose dell'Africa.