Battaglie In Sintesi
386 a.C.
Fu censore nel 403 a.C., tribuno militare con potestà consolare negli anni 401 e 398, e interrex nel 397. Creato dittatore nel 396, pose fine al decennale assedio di Veio facendo penetrare nella città dei soldati romani per un cunicolo sotterraneo. La città fu distrutta, il dittatore trionfò. Il territorio romano, che prima non raggiungeva i 1000 kmq., si accrebbe di quasi 600 kmq., e Roma divenne lo stato di gran lunga più esteso del Lazio e dell'Italia Centrale. Col decimo della preda, secondo un voto fatto da Camillo all'Apollo Delfico, che aveva predetta la vittoria dei Romani, fu inviato a Delfi un cratere d'oro, che fu più tardi fuso durante la guerra focese, ma la base di bronzo rimase. Camillo, evocata solennemente la Iuno Regina di Veio, le dedicò un tempio sull'Avellino. Tribuno militare consolare per la terza volta nel 394, Camillo si rivolse contro Capena e Falerii. La tradizione dice che con Falerii la pace sarebbe stata conchiusa non per forza di armi, ma per l'impressione che sui Falisci fece la lealtà di Camillo, che rimandò in Città i figli dei loro principali cittadini condotti a lui da un pedagogo traditore, che egli fece spingere legato alla città dai giovinetti (Livio, V, 27; Plutarco, Camillo, 10 ecc.). Nel 392 Camillo fu ancora interrex. Nel successivo anno 391, secondo la tradizione vulgata, cade il processo e la condanna di Camillo. Da Diodoro, XIV, 117, si è voluto da alcuni moderni indurre che secondo la tradizione più antica, riprodotta da questo autore, il processo sarebbe avvenuto invece nel 389, dopo la catastrofe gallica, e che sarebbe stato poi spostato al 391 per fare che Camillo fosse già condannato ed esule all'arrivo dei Galli; ma il Beloch (Römische Geschichte, pp. 117 e 304) ha dimostrato che la fonte della notizia in Diodoro collocava in realtà il processo nel 393, e che la data del 389 è frutto di una svista. Sulla natura del processo abbiamo versioni discordi: la più antica sembra quella che parla d'iniqua distribuzione o di sottrazione della preda di Veio, un crimine quindi di peculato. Un'altra versione parla invece di offese agli dei, per aver Camillo indossato nel trionfo l'abbigliamento di Giove e fatto tirare il suo cocchio da quattro cavalli bianchi; e questa versione alcuni pensano sia sorta nell'età cesariana, come protesta contro gli onori trionfali decretati a Cesare. Camillo andò prima della condanna in esilio ad Ardea, e la multa (da 15.000 a 500.000 assi a seconda delle fonti) gli fu quindi inflitta in contumacia. Alcuni moderni ritengono il processo e l'esilio o il solo esilio, inventati per fare che Camillo si trovasse lontano da Roma durante la catastrofe gallica e farlo poi ritornare al momento opportuno; ma, pur respingendo come fittizi o incontrollabili i particolari, il fatto, concordemente testimoniato, deve accettarsi come storico. In ogni caso, Camillo non figura nella prima parte del racconto della presa di Roma per opera dei Galli, e poiché Polibio dice che i Galli, concluso un patto coi Romani, se n'andarono con la preda (I, 6, 2; II, 18, 2; 22, 4), la critica moderna ritiene d'origine tarda ed escogitato allo scopo di cancellare l'onta del riscatto il famoso racconto, che mentre si stavano pagando ai Galli le 1000 libbre d'oro Camillo, richiamato con una legge dall'esilio ed eletto dittatore dai Romani rifugiatisi in Veio, sarebbe comparso in Roma con un esercito, gridando che col ferro e non con l'oro si salvava la patria e, dichiarato nullo il trattato conchiuso senza il dittatore, avrebbe sgominato i Galli. Sull'età e sui fatti che possono aver dato origine a questo celebre racconto si sono fatte molte ipotesi: il cosiddetto oro gallico custodito nel tempio di Giove Capitolino, e sulla cui provenienza gli antichi davano versioni varie, potrebbe aver fatto pensare che l'oro non fu pagato ai Galli, mentre altri ritengono che una sconfitta reale inflitta da Camillo a qualche banda vagante di barbari, possa aver dato origine al racconto. Camillo, dopo la vittoria, si sarebbe opposto ancora una volta, come dopo la presa di Veio, alla proposta di trasportare in quest'ultime città la sede dello stato romano (Livio, V, 49 seg.) e la questione sarebbe stata decisa dal comando del centurione, che passando per caso con la sua centuria attraverso il comizio, gridò: signifer statue signum: hic manebimus optime.
Camillo fu ancora interrex nel 389, ciò che presuppone il suo richiamo dall'esilio per la salvezza della patria minacciata, dopo la Catastrofe gallica, dalla ribellione dei Latini e dall'aggressione di tutti i suoi nemici tradizionali. Camillo, eletto dittatore nello stesso 389, soccorse l'esercito romano ridotto a mal partito dai Volsci, che vinse a Maecium presso Lanuvio; vinse quindi gli Equi, e infine a nord gli Etruschi che avevano preso Sutri. Con la preda furono fatte tres paterae aureae... quas cum titulo nominis Camilli aute Capitolium incensum in Iovis cella constat ante pedes Iunonis positas fuisse (Livio, VI, 4, 2); e contro questa testimonianza monumentale sembrano eccessivi i dubbi di alcuni moderni, che ritengono questa vittoria inventata per bilanciare la sconfitta avuta dai Galli o duplicazione di gesta anteriori. Tribuno militare consolare per la quarta volta nel 386, sconfisse i Volsci presso Satrico; ma fu richiamato al nord dagli Etruschi, ch'egli sconfisse. La somiglianza con la campagna del 389, fa dubitare che questa del 386 (al pari di quella del 381) ne sia un duplicato. Tribuno consolare per la quinta volta nel 384, Camillo si sarebbe opposto al tentativo di M. Manlio Capitolino di farsi tiranno; si narra anzi da qualche fonte di una dittatura di Camillo, che avrebbe assalito il Campidoglio occupato da Manlio; ma la notizia è sospetta. Tribuno consolare per la sesta volta nel 381, egli avrebbe condotto l'esercito contro i Volsci e i Prenestini, differendo però per prudenza la battaglia. La volle invece il giovane suo collega L. Furio Medullino, che, ridotto a mal partito, fu salvato da Camillo; ma questo racconto, che ritorna tante volte nella tradizione romana, è sospetto. Un fondo di vero pare invece abbia la notizia di una sua spedizione contro i Tusculani, che avevano prestato aiuto ai Volsci e che egli trovò pacifici; il senato perdonò loro, concesse la pace e poco dopo anche la cittadinanza. Camillo avrebbe rivestito per la quarta volta la dittatura per opporsi alle rogazioni Licinie-Sestie; ma non avendo ottenuto nulla, abdicò. Questa dittatura è tuttavia da molti ritenuta falsa. Nel 367, vecchio di ottant'anni e dittatore per la quinta volta egli avrebbe combattuto contro i Galli sull'Aniene o sui colli Albani e avrebbe trionfato (cfr. Livio, VI, 42, 4 segg.); ma poiché Polibio. II, 18, 6, dice che i Galli marciarono su Roma per la seconda volta trent'anni dopo l'Allia, la notizia è dalla maggior parte dei critici respinta. Nell'occasione di questa lotta con i Galli, Plutarco (Camillo 40, 4) ricorda alcune riforme introdotte da Camillo nell'armamento dei Romani; ma non sembra ad alcuni critici che ciò sia sufficiente per parlare, come molti moderni fanno, d'una vasta riforma degli ordinamenti militari romani proprio per opera di Camillo, per quanto l'esperienza disastrosa della prima lotta coi Galli non possa non aver suggerito ai Romani delle riforme militari. Nello stesso anno Camillo sarebbe intervenuto ancora nell'agitazione per le leggi Licinie-Sestie, che egli avrebbe finito per far accettare ai patrizî, per pacificare gli animi; in quest'occasione avrebbe votato il tempio alla Concordia nel Foro. Camillo sarebbe morto nel 365 durante una pestilenza. Sui rostri nel Foro v'era una statua in bronzo molto antica di Camillo, forse con iscrizione, onore straordinario nella Roma del principio del sec. IV, e che testimonia l'impressione che sui contemporanei fece questo grande uomo, che fu sei volte a capo dello stato come tribuno militare con potestà consolare (uno degli esempi più notevoli d'iterazione di magistratura) e parecchie volte dittatore, e che la tradizione proclamò "secondo fondatore di Roma" (Plutarco, Camillo, 1, 1). Disgraziatamente la tradizione sugli avvenimenti nei quali egli ebbe parte è giunta sino a noi in molti punti confusa e sospetta di alterazioni e gravi rimaneggiamenti; tanto che alcuni (Beloch) ritennero apocrifo tutto quello che di Camillo si racconta dopo la sua condanna; altri (Münzer) tutte le notizie dopo il 386; le cariche ordinarie da lui sostenute cessano col tribunato del 381, che alcuni ritengono perciò l'ultima testimonianza sicura della sua attività.
L'anno seguente i nuovi tribuni militari con potestà consolare Spurio e Lucio Papirio guidarono le legioni contro Velletri, mentre i loro quattro colleghi Servio Cornelio Maluginense (eletto per la terza volta), Quinto Servilio, Gaio Sulpicio e Lucio Emilio (per la terza volta) rimasero a difendere la città, pronti all'eventualità che nuovi movimenti venissero segnalati dall'Etruria, zona dove ormai tutto era sospetto. Nei pressi di Velletri i Romani affrontarono, con successo, truppe ausiliarie mandate dai Prenestini, il numero delle quali quasi era superiore a quello degli stessi coloni. La vicinanza della città fu la causa di una più rapida fuga dei nemici e fu per loro l'unico riparo. I tribuni decisero di evitare l'assedio della piazzaforte sia per l'incertezza dell'esito sia nella convinzione che non fosse giusto mirare alla distruzione di una colonia. Nella lettera che fecero pervenire al senato per annunciare la vittoria, essi usarono espressioni di maggiore durezza nei confronti dei Prenestini che dei Veliterni. Così, per decreto del senato e per ordine del popolo, venne dichiarata guerra ai Prenestini. Questi ultimi, alleatisi l'anno successivo con i Volsci, attaccarono Satrico, colonia del popolo romano, e, dopo averla espugnata con la forza non ostante la strenua resistenza degli abitanti, abusarono della vittoria comportandosi indegnamente nei confronti dei prigionieri. La cosa indignò i Romani che decisero di nominare per la sesta volta tribuno militare Marco Furio Camillo, cui vennero assegnati come colleghi Aulo e Lucio Postumio Regillense, Lucio Furio, Lucio Lucrezio e Marco Fabio Ambusto. Senza rispettare la regola, la guerra contro i Volsci venne affidata con procedura straordinaria a Marco Furio, cui fu assegnato come aiutante - estratto a sorte tra gli altri tribuni - Lucio Furio, non tanto per il bene del paese quanto piuttosto perché potesse essere origine di ogni tipo di elogio per il collega sia dal punto di vista pubblico, visto che riuscì a rimettere in piedi la situazione compromessa dalla temerarietà dell'altro, che da quello privato, perché utilizzò l'errore di Lucio per ottenerne la riconoscenza piuttosto che procurarsi della gloria per se stesso. Camillo, ormai avanti negli anni, era pronto, al momento dell'elezione, a giurare secondo le formule di rito che ragioni di salute lo obbligavano a rifiutare la carica: ma il popolo, unanimemente, si oppose. In quel petto fervido albergava un carattere energico e le sue facoltà vitali erano perfettamente intatte. Oltretutto, pur non occupandosi più molto di politica, le cose della guerra lo infiammavano ancora. Così, dopo aver arruolato quattro legioni di quattromila uomini ciascuna, le convocò per il giorno successivo presso la porta Esquilina e quindi partì alla volta di Satrico. Là quelli che avevano espugnato la colonia lo stavano aspettando senza il minimo timore reverenziale, fiduciosi com'erano nella netta superiorità numerica che vantavano. Non appena videro i Romani avanzare verso di loro, si schierarono subito in assetto di battaglia, decisi a non rimandare più oltre uno scontro decisivo. Così facendo essi ritenevano che il numero ridotto dei nemici non avrebbe trovato alcun supporto nell'abilità militare del loro generale, che al momento ne rappresentava il solo punto di forza.
Lo stesso ardore animava l'esercito romano e il secondo comandante, e le sole cose che ritardassero il rischio di uno scontro immediato erano l'assennatezza e l'autorità di un unico uomo, che, sforzandosi di prolungare la campagna, cercava l'occasione per supplire all'inferiorità delle forze con qualche mossa tattica. Per questo il nemico aumentava ancora di più la pressione e non si limitava soltanto a spiegare le truppe di fronte all'accampamento, ma avanzava anche in mezzo alla pianura e si spingeva quasi fino sotto il terrapieno dei romani, ostentando un'orgogliosa fiducia nelle proprie forze. I soldati romani mal tolleravano queste esibizioni, ma la cosa costava ancora più fatica al secondo comandante, Lucio Furio, uomo impetuoso per ragioni di età e di carattere, ed esaltato dalla speranza della massa, cui la grande incertezza della situazione infondeva coraggio. Anche se i soldati erano già di per sé infiammati, egli li sobillava screditando il prestigio del collega nell'unico modo possibile, e cioè sul piano dell'età. Continuava infatti a ripetere che le guerre sono fatte per i giovani e che gli animi prendono vigore e sfioriscono con il corpo. Il più accanito dei combattenti si stava trasformando in un temporeggiatore, uno solito in passato a impadronirsi al primo assalto degli accampamenti e delle città presso le quali arrivava, adesso se ne stava a perder tempo, inerte, dentro al vallo. Cosa sperava? Di accrescere le proprie forze o che diminuissero quelle nemiche? Quale occasione propizia, quale momento favorevole stava attendendo, e quale imboscata stava preparando? Le idee del vecchio erano fredde e lente. Camillo aveva avuto lunga vita e gloria: ma allora perché permettere che le forze di un paese destinato all'immortalità deperissero insieme col corpo mortale di un unico uomo? Dopo essersi conquistato con discorsi di questo tipo la simpatia di tutto l'accampamento, e poiché da ogni parte si invocava la battaglia, Lucio Furio aggiunse: "Non possiamo, o Marco Furio, frenare più a lungo l'entusiasmo dei soldati, mentre il nemico, di cui abbiamo incrementato il coraggio a forza di indugiare, ormai ci offende con un'intollerabile arroganza. Fatti da parte, visto che sei solo contro tutti, e lasciati vincere dal buon senso, in modo da vincere più rapidamente in guerra." A queste parole Camillo replicò che nelle guerre combattute fino a quel giorno sotto i suoi soli auspici, né il popolo romano né lui stesso si erano mai pentiti delle sue risoluzioni o della sua buona sorte; sapeva di avere ora un collega con pari diritti e autorità, ma superiore per il vigore dovuto alla giovane età. Perciò, pur essendo abituato - almeno in ciò che riguardava l'esercito - a comandare e non a essere comandato, non aveva il potere di ostacolare l'autorità del collega. Agisse, dunque, con l'aiuto degli dei, come riteneva più vantaggioso per la repubblica: egli, per parte sua, domandava di non andare in prima linea in considerazione dell'età, garantendo però che non sarebbe venuto meno agli obblighi di un anziano in guerra. Agli dei immortali chiedeva solo questo: che un disgraziato caso non facesse rimpiangere i suoi piani. Ma né gli uomini dettero ascolto a queste parole di salvezza, né gli dei esaudirono una preghiera così pia. Il fautore dello scontro schierò la prima linea, mentre Camillo assicurò la copertura delle retrovie, disponendo un solido contingente di fronte all'accampamento. Poi si andò a piazzare su un'altura, osservando con attenzione i risultati dell'altrui strategia.
Appena risuonarono al primo scontro le armi, i nemici indietreggiarono, non tanto per paura quanto per una calcolata astuzia. Alle loro spalle c'era un lieve rialzo del terreno tra il campo di battaglia e l'accampamento. Siccome avevano uomini in eccesso, avevano schierato nell'accampamento alcune coorti armate, il cui compito sarebbe stato quello di uscire allo scoperto nel caso in cui, a battaglia già in pieno svolgimento, i nemici si fossero avvicinati alla trincea. I Romani, essendosi buttati in maniera disordinata all'inseguimento dei nemici in ritirata, vennero attirati in una posizione svantaggiosa, esponendosi così a quel tipo di sortita. Il terrore investì chi si credeva vincitore: sia per la comparsa del nuovo nemico, sia per il declivio del fondovalle, la schiera romana cominciò a cedere, incalzata dalle forze fresche dei Volsci che avevano operato la sortita, alle quali si andarono ad aggiungere di rincalzo anche gli altri che si erano ritirati simulando la fuga. I soldati romani non riuscivano più a riprendersi. Dimentichi della baldanza di poco prima e delle antiche glorie, volgevano le spalle da ogni parte e correvano all'impazzata in direzione dell'accampamento. In quel preciso istante Camillo, fattosi mettere in sella da quelli che gli stavano intorno, dopo aver buttato frettolosamente nella mischia i riservisti ai suoi ordini: " è questo," gridò, "soldati, il tipo di battaglia che volevate? C'è qualcuno tra gli uomini, tra gli dei che ora possiate accusare? Vostra è stata la temerarietà di prima, così come vostra è adesso la viltà. Avete seguito un altro comandante: ora seguite Camillo e, com'è vostra abitudine quando sono io al comando, vincete. Perché fissate la trincea e l'accampamento? Nessuno di voi ci entrerà, se non da vincitore." Prima la vergogna arrestò le truppe in fuga. Poi, quando videro che gli stendardi si rivolgevano in avanti e che le schiere puntavano contro il nemico, e che il loro comandante, famoso per i molti trionfi ottenuti e venerando per età, si esponeva al pericolo in mezzo ai vessilliferi, cioè là dove il rischio e l'intensità della battaglia erano elevatissimi, cominciarono a incitarsi reciprocamente, e il grido di mutuo incoraggiamento si diffuse per tutto l'esercito con animoso clamore. Non venne a mancare l'apporto neppure dell'altro tribuno. Anzi, inviato a incitare la cavalleria dal collega impegnato nel frattempo a riordinare la fanteria, Lucio Furio, senza ricorrere ai rimproveri - visto che la sua corresponsabilità nella loro colpa avrebbe privato di efficacia un atteggiamento di quel tipo -, ma passando dagli ordini alle preghiere, li scongiurò uno per uno e tutti insieme di evitargli l'incriminazione come responsabile dell'infausta sorte di quel giorno. "Nonostante", disse, "l'opposizione e la resistenza del mio collega, ho preferito associarmi all'imprudenza di tutti piuttosto che all'assennatezza di un solo uomo. Camillo, qualunque sia l'esito della vostra battaglia, ne avrà gloria. Io invece, se la situazione non si ristabilisce, avrò modo di sperimentare quanto di più infelice vi può essere, e cioè dividere con voi tutti la sconfitta, ma subire da solo il peso dell'infamia." Siccome la linea del fronte ondeggiava, sembrò che la cosa più opportuna fosse abbandonare i cavalli e attaccare il nemico a piedi. Rifulgendo per le armi e il coraggio, i cavalieri appiedati si diressero dove le schiere di fanti erano sottoposte alla massima pressione. Nè i comandanti nè i soldati si concessero un attimo di tregua in quello scontro durissimo, e l'apporto offerto dai loro sforzi valorosi si fece sentire nell'esito finale. I Volsci vennero sbaragliati e costretti a una vera fuga in quel punto dove prima avevano finto di ritirarsi per paura.
Gran parte di essi fu uccisa sia nel corso della battaglia, sia durante la successiva fuga. Gli altri vennero ammazzati nell'accampamento, conquistato a seguito di quella stessa carica. Tuttavia il numero dei prigionieri superò quello dei caduti. A Furio Camillo, tornato a Roma per ottenere il permesso di attaccare Anzio, il Senato affidò il comando delle operazioni belliche contro gli Etruschi che, approfittando dell'impegno romano contro i Volsci, avevano attaccato le città alleate di Sutri e Nepi.