Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Assedio di Platea

428 a.C.

Il comandante spartano

Archidamo II

Figlio di Zeussidamo, che premorì al padre Leotichida, salì al trono di Sparta nel 469 a. C., quando l'avo, in seguito a un processo per corruzione, andò esule a Tegea, dove egli, secondo una notizia non del tutto indegna di fede, l'avrebbe accompagnato. Nel terremoto che avvenne durante il quarto anno del suo regno, avrebbe prevenuto il pericolo di un'invasione degl'Iloti e di una parte dei perieci con l'aver fatto prontamente sonare a raccolta e con l'aver messo tutti i cittadini in assetto di guerra, di guisa che gl'Iloti e i perieci, avendoli trovati disposti a combattere, si sarebbero ritirati. Questa narrazione è di autenticità più che dubbia, ed è sbocciata da quella fioritura aneddotica che accompagna sempre i più grandi avvenimenti e i personaggi che vi furono implicati. Quando minacciava la rottura tra Sparta e Atene, nel 431, Archidamo si adoperò perché la pace non venisse rotta, ma, deliberata la guerra, guidò nel 431 la prima invasione nell'Attica; anche allora sperò che si potesse venire a un componimento, essendo legato con Pericle da vincoli d'ospitalità. Condusse la seconda invasione nel 430, nel 429 andò contro Platea, nel 428 guidò nuovamente l'invasione nell'Attica. Siccome l'invasione nel 427 venne effettuata da Clemene, tutore di Pausania, figlio di Plistoanatte, è da presumersi che Archidamo fosse morto, o gravemente infermo, e siccome nel 426 condusse la spedizione il figlio Agide, Archidamo morì certamente non più tardi della primavera del 426. Per quanto appare dalla condotta tenuta nell'occasione della guerra con Atene, Archidamo sembra essere stato un principe di spirito molto equilibrato. Egli avversò la guerra con Atene non tanto per ragioni sentimentali, quanto perché comprendeva le gravi incognite a cui si andava incontro; poiché la superiorità militare di Sparta non bastava a compensare le deficienze provenienti dalla finanza e dalla struttura sociale spartana. E gli avvenimenti gli dettero ragione, poiché nel 421 si venne ad una pace sulla base dello statu quo, e Atene dopo il disastro di Sicilia si rialzò potente quanto prima. Se Archidamo abbia posseduto un vero talento militare, non si può né affermare né negare, giacché ebbe o a combattere contro le schiere disordinate degl'Iloti, o a condurre invasioni in cui non trovò resistenza.

La genesi

Nello stesso inverno in cui Atene riassediava Mitilene, i Plateesi, assediati tuttora da' Peloponnesi e da' Beozii, trovandosi afflitti per difetto di vettovaglia, senza speranza di soccorso da Atene, e senz'altra via di salvezza, d'accordo con quegli Ateniesi che vi erano insieme assediati deliberarono in principio di uscir tutti, saltando, se possibil fosse, a viva forza il muro nemico: tentativo proposto loro da Teanete di Tolmida indovino di professione, e da Eupolpide di Daimaco, uno de' comandanti. La metà poi di essi, reputando grande quel pericolo, si si sconfortarono; ma circa dugentoventi perseverarono volenterosi nel disegno di uscire in questo modo. Si fecero scale uguali in altezza al muro de' nemici: apprendendone la misura per le file de' mattoni dove il muro di faccia a loro si trovava senza intonaco. Molti a un tempo contavano le file, e benché alcuni certamente sbagliassero, la maggior parte colpiva nel vero computo, tanto più che ne ripetevano anche molte fiate il contamento, e non erano molto distanti: anzi era il muro facile ad osservare per l'oggetto che si proponevano delle scale, di cui presero la misura corrispondente congietturandola dalla grossezza del mattone.

La fortificazione d'assedio peloponnesiaca

Ed ecco la struttura della fortificazione fatta dai Peloponnesi. Essa aveva due cerchi di muro: l'uno guardava i Plateesi, l'altro era per opporsi al di fuori se mai alcuno da Atene venisse ad attaccarli: questi due cerchi poi erano distanti fra loro cima sedici piedi. Nell'intervallo dei sedici piedi erano ripartitamente costruite per le sentinelle delle casematte, contigue l'una all'altra in modo da parere un muro tutto sodo avente merli sulle due facce. Ad ogni dieci merli eranvi grandi torri, eguali di larghezza alla muraglia, ed arrivavano ognuna alla faccia sia interna che esterna di lei; tale che, lungo le torri non rimaneva davanzale, ma si traversava passando pel mezzo di esse. Le notti, se faceva temporale umido, abbandonavano i merli, e facevano guardia dalle torri fra loro a piccola distanza, e coperte di sopra. Tale era la fortificazione onde erano cinti attorno i Plateesi.

I plateesi spezzano l'assedio

I quali ordinato che ebbero il tutto, colta l'opportunità d'una notte burrascosa per pioggia e vento, ed anche senza luna, uscirono condotti da quei medesimi che avevano proposto l'impresa. E primieramente valicarono la fossa interna che li circondava; poi vennero sotto il muro de' nemici di soppiatto alle sentinelle, le quali attesa l'oscurità non gli avevano scorti, né sentiti al rumore che mettevano nell'avanzarsi, tra perché solliava di rintoppo il vento, e perché camminavano molto discosta l'uno dall'altro, affinché le armi urtandosi insieme non ne dessero sentore. Erano inoltre spediti e leggeri di armatura, e per assicurarsi contro il fango calzati solo del piè sinistro. A riscontro adunque degli spazi ond'erano tra loro distanti le torri, si accostarono sotto a' merli (che ei sapevano essere senza guardie) primieramente i portatori delle scale e ve le appoggiarono: indi salivano dodici soldati leggeri, armati solo di lorica e pugnale, preceduti da Ammea figliolo di Corebo, che primo salì: quei che venivano dopo lui montavano sei ad una, sei all'altra delle due torri. Appresso questi seguivano altri di leggera armatura con lanciuole; ai quali, acciocchè potessero più agevolmente salire, altri dietro portavano gli scudi che dovevano dar loro quando ei fossero a fronte co' nemici. Saliti che furono la maggior parte, le sentinelle delle torri se ne accorsero, perché uno de' Plateesi nell'attenersi ad una tegola la buttò giù dai merli, la quale caduta fece del rumore. Furono tosto alzate le grida dalle sentinelle, ed i nemici corsero alla volta del muro, non sapendo che mai ciò fosse, stante la notte buia ed il temporale. Nel tempo stesso i Plateesi ch'eran rimasti in città fecero una sortita, ed investirono il muro de' Peloponnesi dal lato contrario a quello ove le loro genti davano la scalata, affinché i nemici avessero mente ad esse il men possibile. Grande era il trambusto de' nemici, ma stavano tutti al proprio posto, nissuno avendo coraggio di lasciare la sua guardia; né sapevano congietturare ché ciò si fosse. La loro truppa di trecento, destinata ad accorrere ove facesse bisogno, marciava dalla parte esterna del muro al luogo ove udivansi le grida. Intanto si alzavano inverso Tebe le fiaccole nunziatrici del nemico, e dal canto loro i Plateesi di città ne alzavano di sulle mura molte preparate innanzi appunto con questo intendimento, ché i segnali de' fuochi fossero incerti per i nemici; sicché stimaudo essere la cosa tutt'altro da quello che ella era, non venissero in soccorso prima che la loro gente uscita di città scampasse, e si conducesse a qualche luogo di salvezza.

In questo mezzo i Plateesi che erano nell'atto di scalare il muro, quando i primi di loro vi furono già saliti, e trucidate le guardie si furono fatti padroni delle due torri, di piè fermo guardavano i passi delle torri stesse, acciò niuna potesse, traversandole, recar soccorso. E di sul muro avendo appoggiate scale alle torri, e fattavi salire molta gente, alcuni dall'alto e dal basso delle torri occupate tenevano coi colpi di frecce indietro chi venisse in aiuto: altri (e questi erano i più) appoggiate ad un tempo molte scale atterravano i merli, e passando di mezzo alle torri traversavano il muro: e di mano in mano chi trapassava fermavasi sull'orlo della fossa, e di li lanciavano saette e strali contro chiunque lungo il muro accorresse per impedire il tragitto. Quando poi furono tutti passati, quelli che eran montati sulle due torri rimasti essendo gli ultimi a gran pena scendevano, e si avviavano alla fossa. In questo, la truppa de' trecento si scaglia con torce accese sovr'essi: ciò non pertanto i Plateesi che stavano fermi sull'orlo della fossa, trovandosi nell'oscurità meglio vedevano, e scagliavano strali e frecce contro le parti inermi dei nemici, dai quali, a cagione delle fiaccole, con più difficoltà potevano essere osservati, appunto perché stavano dalla parte del buio: cosicché anche gli ultimi de' Plateesi furono in tempo a varcare la fossa ma con gran pena e fatica; avvegnaché in essa si fosse rappreso un ghiaccio non sodo da passarvi sopra, ma più presto acquidoso come suol essere a vento sussolano e non tramontana. Inoltre la notte al soffiar di quel vento essendo caduto un nevischio, vi aveva resa l'acqua copiosa, talché appena colla testa fuori poterono passare. Nondimeno, la grandezza di quel temporale facilitò loro lo scampo.

Le conseguenze

I Plateesi ristretti insieme mossero dalla fossa, marciando per la via che mena a Tebe, avendo a destra il tempietto di Androcrate; si perché reputavano che a nessuno sarebbe caduto nell'animo che ei si voltassero per questa strada che menava a' nemici, si ancora perché vedevano che i Peloponnesi li inseguivano con fiaccole verso il Citerone ed i Capi-di-Quercia, per la via che mena ad Atene. Proseguirono i Plateesi per sei o sette stadii il cammino verso Tebe: ma poi voltatisi andarono ad Eritrea e Isia per la strada che porta al monte: e guadagnati i monti si condussero a salvamento in Atene dugentododici soli del gran numero; imperocchè alcuni di loro tornarono in città prima di scalare il muro, ed un arciere fu preso nella fossa esterna. I Peloponnesi poi si tennero dall'inseguirli: si rimisero al loro posto; e di Plateesi restati in città, che nulla sapevano dell'accaduto, ebbero dai tornati indietro la nuova che non era sopravvissuto nissuno: però appena fu giorno, spedirono un araldo a far tregua per riavere i cadaveri; ma informati poi del vero non si mossero. Così trovaron salvezza quei prodi Plateesi che superarono le fortificazioni.



Tratto da:
"Della storia di Tucidide volgarizzata libri otto", F.P. Boni - Francesco Predari, Firenze, Tipografia Galileiana, 1835.