Battaglie In Sintesi
358 a.C.
Di origine patrizia, fu censore nel 366 a.C., anno in cui fu eletto il primo console plebeo, Lucio Sestio Laterano. Fu eletto console per la prima volta nel 364 a.C. ed ebbe come collega Gaio Licinio Calvo Stolone, uno dei due tribuni della plebe, promotori delle Leges Liciniae Sextiae, o leggi licinie sestie. Durante l'anno a Roma continuò ad imperversare la peste, che l'anno prima aveva colito anche Marco Furio Camillo, e per scongiurarla furono istituiti i ludi scenici per la prima volta. Nel 362 a.C. fu legatus del console plebeo Lucio Genucio Aventinense e, in seguito alla morte del console, comandò l'esercito che respinse un attacco degli Ernici al campo romano. L'anno successivo (361 a.C.) fu console per la seconda volta con il suo precedente collega Licinio. Entrambi i consoli marciarono con l'esercito contro gli Ernici e conquistarono la città di Ferentinum; al suo ritorno a Roma il solo Petico ricevette l'onore del trionfo. Nel 358 a.C. fu nominato dittatore per fronteggiare l'invasione dei Galli, che avevano invaso il territorio fino a Pedum. Petico fortificò il campo dell'esercito, ma in conseguenza del malumore dei propri soldati, impazienti di combattere e di concludere velocemente il conflitto, marciò contro il nemico e lo sconfisse, non senza difficoltà. Per tutto ciò ottenne l'onore di un secondo trionfo e portò in Campidoglio una notevole quantità di oggetti d'oro, frutto del bottino della battaglia. Nel 355 a.C. fu eletto console per la terza volta ed ebbe come collega il patrizio Marco Valerio Publicola, entrambi patrizi, in violazione delle leggi licinie-sestie. Nonostante le proteste dei plebei e dei tribuni della plebe, i due consoli riuscirono a far sì che anche per l'anno successivo la carica fosse appannaggio di due patrizi.
Nel 353 a.C. fu eletto console per la quarta volta ed ebbe come collega il patrizio Marco Valerio Publicola, al secondo consolato. A Sulpicio fu affidata la campagna contro Tarquinia ed a Publicola quella contro i Volsci, che minacciavano gli alleati Latini. Quando però sembrò che Cere fosse entrata in guerra, alleandosi a Tarquinia, fu nominato dittatore Tito Manlio Imperioso Torquato. Nel 351 a.C. fu eletto console per la quinta volta ed ebbe come collega Tito Quinzio Peno Capitolino Crispino, al secondo consolato. A Sulpicio fu affidata la campagna contro Tarquinia ed a Tito Quinzio quella contro i Falisci. In entrambi i casi, i romani riuscirono a che i nemici chiedessero la pace, senza che si arrivasse ad uno sconto in campo aperto, ma devastandone le campagne.
Quando i consoli in carica erano Marco Popilio Lenate e Gneo Manlio, una spedizione partì da Tivoli con intenti bellicosi e raggiunse Roma ai primi silenzi della notte. L'evento improvviso e l'allarme notturno terrorizzarono la popolazione immersa nel sonno; e ulteriore paura aggiunse il fatto che molti non sapevano chi fossero e da dove venissero i nemici. Nonostante l'ordine di correre alle armi venne dato immediatamente, mentre in prossimità delle porte e dei muri vennero piazzate sentinelle e corpi di guardia. Ma quando le prime luci del giorno permisero di capire che la massa degli assalitori non era consistente e che non vi erano altri nemici salvo i Tiburtini, i consoli, usciti da due delle porte, piombarono loro addosso dai fianchi mentre si stavano già avvicinando alle mura; e fu chiaro che la loro spedizione era fondata più sulla sorpresa che sul vero valore: riuscirono appena a sostenere il primo assalto romano. Quell'assalto, risultò chiaro, era stato un bene per i Romani perché la paura provocata da una guerra così vicina aveva represso sul nascere uno scontro tra patrizi e plebei. Un'altra incursione ostile fu invece, per le campagne, più preoccupante: i Tarquiniesi penetrarono in territorio romano, devastandolo soprattutto nei pressi del confine con l'Etruria. E siccome le richieste di riparazione non ebbero seguito, i nuovi consoli Gaio Fabio e Gaio Plauzio dichiararono loro guerra per ordine del popolo. A Fabio toccò quella campagna, mentre a Plauzio andarono gli Ernici. Inoltre si facevano sempre più frequenti le voci circa una guerra scatenata dai Galli. Ma in mezzo a tutte quelle preoccupazioni fu motivo di consolazione il concedere la pace ai Latini che erano venuti a domandarla, e che inviarono un massiccio contingente di rinforzi (come previsto dalle clausole di un antico trattato cui quel popolo non si era attenuto per molti anni). Grazie all'invio di queste nuove forze, i Romani reagirono meglio all'arrivo della notizia che i Galli erano arrivati a Preneste e di là si erano accampati nei pressi di Pedo. Fu deciso di nominare dittatore Gaio Sulpicio e il console Gaio Plauzio venne richiamato apposta per farlo. Al dittatore venne affiancato come maestro di cavalleria Marco Valerio. Questi uomini marciarono contro i Galli, dopo aver selezionato il meglio dei due eserciti consolari. Ma la guerra si trascinò molto più a lungo di quanto entrambe le parti desiderassero. Mentre all'inizio solo i Galli erano ansiosi di arrivare allo scontro, in seguito i Romani ne superarono di gran lunga l'irruenza, desiderosi com'erano di correre alle armi e di combattere. Ma il dittatore, non essendo forzato dalle circostanze, non aveva alcuna intenzione di buttarsi allo sbaraglio contro un nemico che il tempo rendeva giorno dopo giorno sempre meno preoccupante, in zone poco favorevoli, senza adeguate provviste di viveri. E a tutto questo si aggiungeva il fatto che la forza e il valore del nemico consisteva interamente nella capacità di attacco, mentre diventava poca cosa non appena le operazioni rallentavano anche di un nonnulla. Fondandosi su queste considerazioni, il dittatore cercava di tirare la guerra per le lunghe, minacciando pene gravissime per chi avesse osato aprire le ostilità senza il suo ordine. Gli uomini, che non vedevano di buon occhio questa tattica, sulle prime cominciarono a sparlare del dittatore durante i servizi di guardia e talora si recavano in gruppo dai senatori rimproverandoli di non aver affidato la guerra ai consoli: il comandante supremo da loro scelto era un grandissimo stratega, uno che credeva che la vittoria gli sarebbe caduta tra le braccia dal cielo senza dover alzare un dito. Ma in seguito i soldati iniziarono a parlare alla luce del sole e a dire apertamente cose ancora più gravi: non avrebbero più aspettato l'ordine del comandante: avrebbero combattuto oppure sarebbero rientrati a Roma in schiera compatta. Ai soldati cominciarono a unirsi i centurioni e le lamentele non erano più limitate a piccoli crocchi: nella piazza principale del campo e di fronte alla tenda del dittatore era ormai un solo coro di proteste. La massa degli scontenti aumentò poi nell'assemblea del popolo e da tutte le parti si sentiva la gente gridare che era venuto il momento di andare dal dittatore. Il portavoce delle truppe avrebbe dovuto essere Sesto Tullio, come si conveniva alla sua statura di soldato.
In quella campagna Tullio serviva per la settima volta come centurione primipilo e in tutto l'esercito non c'era nessun altro - almeno all'interno della fanteria - che si fosse distinto quanto lui per i servizi prestati. Marciando in testa alle truppe, Tullio salì sulla tribuna e si avvicinò a Sulpicio che era sbalordito non tanto al vedersi davanti quella massa di soldati, quanto piuttosto al fatto che a guidarla fosse Tullio, un soldato assolutamente ligio alla gerarchia militare. "Se mi è concesso, o dittatore, disse l'intero esercito, sentendosi condannato alla viltà dal tuo comportamento e quasi privato delle armi per ignominia, mi ha pregato di venire a perorare la sua causa presso di te. A dir la verità, se noi potessimo essere accusati di aver in qualche luogo ceduto la posizione, di aver voltato le spalle ai nemici o di aver abbandonato vergognosamente le insegne, ciò nonostante continuerei a pensare che sia giusto chiederti di offrirci l'opportunità di riparare alla nostra colpa con una prova di valore e di conquistare nuova gloria cancellando il ricordo del nostro disonore. Anche le legioni che furono messe in fuga all'Allia partirono poi alla volta di Veio e riconquistarono con il valore quella stessa patria che avevano perduto per codardia. Quanto a noi, per la benevolenza degli d?i e la fortuna che arride a te e al popolo romano, la nostra causa e la nostra gloria sono ancora intatte. Anche se della gloria sarei meno sicuro, visto che i nemici ci hanno insultato in tutti i modi possibili, come fossimo donnicciole nascoste al riparo della trincea, e tu, il nostro comandante - cosa questa ben più difficile da sopportare - ci consideri un esercito privo di nerbo, di armi e di mani e prima ancora di averci messo alla prova hai disperato di noi a tal punto da ritenerti il comandante di un'armata di invalidi e di storpi. Perché in quale altro modo potremmo spiegarci che un generale esperto e temerario quale tu sei se ne stia, come si suole dire, con le mani in mano? Comunque stiano le cose, è più ragionevole che tu dia l'impressione di avere dei dubbi circa il nostro valore piuttosto che ad avere dubbi sul tuo siamo noi soldati. Ma se invece questa tattica non dipende da te ma ti è imposta dallo Stato, e se a tenerci lontano da Roma è qualche accordo stretto dai senatori e non la guerra contro i Galli, allora io ti prego di ascoltare le parole che sto per dirti non come se fossero rivolte dalla truppa al comandante, ma come se a parlare fosse la plebe ai patrizi (e visto che voi patrizi avete i vostri piani, chi potrebbe prendersela coi plebei se anche loro decidessero di averne?): noi siamo soldati, non vostri servi; siamo stati inviati a combattere una guerra e non mandati in esilio. Se qualcuno vorrà dare il segnale e guidarci in battaglia, noi saremo pronti a combattere come si conviene a degli uomini e a dei Romani. Ma se non c'è bisogno delle armi, allora preferiamo riposarci a Roma piuttosto che dentro un accampamento. Ai patrizi è questo che mandiamo a dire. Ma a te, o comandante, noi che siamo i tuoi soldati chiediamo imploranti di concederci l'opportunità di combattere. Non abbiamo voglia soltanto di vincere: vogliamo vincere sotto il tuo comando, conquistare per te l'alloro prestigioso, entrare con te in trionfo a Roma e accompagnare con ovazioni e ringraziamenti il tuo carro trionfale fino al tempio di Giove Ottimo Massimo". Il discorso di Tullio venne sostenuto dalle invocazioni della folla, mentre da ogni parte si udivano voci che chiedevano a tutta forza di dare il segnale di battaglia e l'ordine di prendere le armi.
Pur pensando che l'iniziativa, di per sé ottima, fosse stata condotta in maniera non certo esemplare, ciò nonostante il dittatore decise di seguire la volontà della truppa, e in privato domandò a Tullio che cosa significasse quel gesto e sulla base di quale precedente egli avesse agito. Tullio pregò il dittatore di non credere che egli si fosse dimenticato della disciplina militare, né della propria posizione né tantomeno dell'autorità del comandante: siccome la massa è in genere della stessa stoffa dei suoi capi, egli non aveva rifiutato di esserne il portavoce, per evitare che saltasse fuori qualcun altro simile a quelli che di solito la massa in fermento suole scegliere come propri rappresentanti. Ma a essere sincero, non avrebbe fatto nulla senza l'approvazione del suo comandante, il quale doveva del resto guardarsi bene dal lasciarsi sfuggire di mano il controllo dell'esercito, visto che in quello stato di eccitazione rimandare la soluzione del problema non sarebbe servito a molto. Se infatti l'ordine non fosse venuto dal comandante, avrebbero scelto da soli luogo e tempo per entrare in battaglia. Mentre questo colloquio era in pieno svolgimento, uno dei Galli tentò di portar via degli animali che si trovavano a pascolare al di là della palizzata, ma se li vide strappare da due Romani, contro i quali i Galli presero a scagliare sassi. Dalla postazione romana si levò allora l'allarme e da entrambe le parti gli uomini si mossero allo scontro. E ormai la scaramuccia stava per trasformarsi in una battaglia vera e propria, se i centurioni non avessero prontamente diviso i contendenti.
Questo incidente persuase il dittatore sul realismo delle parole di Tullio: dato che la situazione non ammetteva ulteriori dilazioni, annunciò che il giorno successivo si sarebbe combattuto in campo aperto. Ma il dittatore, scendendo in campo convinto più del temperamento che non della forza della sue truppe, cominciò a guardarsi intorno e a studiare qualche stratagemma per spaventare il nemico. Grazie alla sua abilità tattica, escogitò un nuovo espediente, di cui si servirono in seguito molti comandanti romani e di altre genti (alcuni anche ai nostri giorni): ordinò ai palafrenieri di togliere le selle ai muli, lasciando solo un paio di coperte e disse loro di montarli vestendosi parte con le armi dei prigionieri e parte con quelle degli ammalati. Dopo averne messi insieme circa mille, vi mescolò un centinaio di cavalieri e ordinò loro di piazzarsi al calar della notte sulle montagne che sovrastavano l'accampamento e di non muoversi di là finché non avessero ricevuto il segnale. Quanto al dittatore, non appena fece giorno, cominciò a organizzare con estrema cura la sua linea di battaglia alle pendici delle alture, in maniera che i nemici andassero a piazzarsi di fronte alle montagne dove era stato allestito per spaventarli un espediente che, pur non avendo nulla di concreto al di là delle apparenze, fu per i Romani quasi più utile della loro stessa forza. Sulle prime i comandanti dei Galli supposero che i Romani non sarebbero scesi in pianura. Ma poi, quando li videro iniziare di colpo la discesa, impazienti com'erano di venire allo scontro, si buttarono a testa bassa e la battaglia ebbe inizio prima ancora che i rispettivi comandanti avessero dato il segnale d'inizio. L'ala destra dei Galli attaccò in maniera ancora più poderosa: e per i Romani non sarebbe stato possibile resistere, se il dittatore non si fosse trovato per puro caso da quella parte. Chiamando per nome Sesto Tullio, gli domandò se fosse quello il modo di combattere da lui promesso a nome dei soldati. Dov'erano finite le urla di quelli che chiedevano di poter correre alle armi, dove le minacce di entrare in battaglia senza l'ordine del comandante? Ecco, ora il loro comandante li spronava a gran voce alla battaglia e ad avanzare con la spada in pugno al di là delle insegne! Possibile che tra quanti poco prima erano pronti a dare ordini non ce ne fosse uno disposto a seguirlo, loro che nell'accampamento ostentavano baldanza e poi diventavano codardi in battaglia? Le parole del comandante corrispondevano a verità: e la vergogna provata fu uno stimolo tanto forte da far si che si lanciassero contro i proiettili nemici dimentichi del pericolo. Questo assalto quasi da forsennati gettò lo scompiglio tra gli avversari, che vennero poi messi in rotta da un attacco della cavalleria ancor prima di potersi riprendere dalla confusione. Il dittatore stesso, non appena si rese conto che una parte dello schieramento stava perdendo colpi, diresse l'attacco verso il fianco sinistro dei Galli (nel punto in cui le loro fila apparivano più compatte), e diede il segnale convenuto agli uomini appostati sulle alture. E quando anch'essi alzarono un nuovo grido di guerra e i Galli li videro scendere lungo le pendici del monte in direzione del loro accampamento, temendo di rimanere tagliati fuori, abbandonarono la battaglia e fuggirono disordinatamente verso l'accampamento stesso. Là però vennero intercettati dal maestro di cavalleria Marco Valerio, il quale, dopo averne disperso il fianco sinistro, stava già cavalcando di fronte ai dispositivi di difesa. Allora i fuggiaschi cambiarono direzione puntando verso i monti e i boschi, dove però la maggior parte di essi venne fronteggiata dai palafrenieri travestiti da cavalieri. Quelli che erano stati spinti dal panico verso i boschi furono massacrati senza pietà a battaglia giù conclusa.
Dai tempi di Marco Furio, nessuno meritò più di Gaio Sulpicio di celebrare un trionfo sui Galli. Egli raccolse dalle spoglie dei Galli una notevole quantità d'oro che consacrò agli dei in Campidoglio facendola interrare in una cella sotterranea.