Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Battaglia di Pastrengo

30 aprile 1848

Gli avversari

Carlo Albèrto re di Sardegna (Torino 1798 - Oporto 1849)

Figlio di Carlo Emanuele principe di Carignano e di Maria Cristina di Sassonia-Curlandia, ebbe genitori di tendenze apertamente liberali e, educato a Parigi e a Ginevra, fu sottotenente dei dragoni nell'esercito napoleonico. Tornò nel Piemonte nel maggio 1814 e, erede presuntivo al trono, nel 1817 sposò Maria Teresa, figlia del granduca di Toscana Ferdinando III. Ambizioso, profondamente imbevuto di orgoglio dinastico e insieme insofferente dell'uggiosa atmosfera della corte di Vittorio Emanuele I, coltivò l'amicizia di giovani liberali, come Santorre di Santarosa e C. di San Marzano, e fu a conoscenza, e per un momento anche ambiguo fautore, della cospirazione che portò al moto piemontese del marzo 1821. Reggente per l'abdicazione di Vittorio Emanuele I, concesse la costituzione di Spagna (14 marzo), ma, sconfessato dal nuovo sovrano Carlo Felice, ubbidì all'ordine di recarsi a Novara presso le truppe del gen. V. Sallier de La Tour. Confinato in mal celato esilio a Firenze presso la corte del suocero, per riguadagnarsi la considerazione di Carlo Felice, andò a combattere i liberali spagnoli al Trocadero (agosto 1823). Morto Carlo Felice il 27 aprile 1831, C. A. salì al trono e, disprezzato dai liberali, si fece paladino dell'assolutismo regio e accarezzò sogni di crociate legittimiste. A tal periodo appartengono la convenzione militare con l'Austria (23 luglio 1831), i feroci processi anticarbonari e antimazziniani del 1833-34, il continuo appoggio ai gesuiti che rese soffocante l'atmosfera culturale e morale del Piemonte di quegli anni, l'aiuto morale e finanziario dato al tentativo legittimista della duchessa di Berry in Francia e al movimento reazionario del Sonderbund. Gelosissimo del suo potere personale, C. A. lo manteneva contrapponendo il Consiglio di stato (creato il 18 agosto 1831) ai ministri, oppure contrapponendo ministro a ministro (il clericale C. Solaro della Margherita al liberaleggiante E. di Villamarina), e ancora allontanando senza esitazione ministri creduti onnipotenti quali il conte A. della Escarena nel 1835. E le riforme interne, dall'abolizione della costituzione e della feudalità in Sardegna, al codice del 1837 che creò l'unità giuridica degli stati sabaudi, all'abolizione delle barriere economiche interne, ebbero ancora carattere di paternalismo illuminato. La crisi d'Oriente del 1840, modificando i dati fondamentali della politica europea, lo indusse a mutare politica e ad abbracciare un programma antiaustriaco di espansionismo territoriale nella pianura padana. Concesso, dopo ansie, dubbi e tentennamenti, lo statuto (4 marzo 1848), iniziò soltanto il 23 marzo - quando le Cinque giornate di Milano volgevano al termine - la campagna contro l'Austria. Ma, dopo alcune vittorie iniziali, le sconfitte di Custoza e di Milano lo costrinsero all'armistizio Salasco (9 agosto 1848). Accusato da ogni parte di tradimento, d'incapacità militare, di scarso animo, odiato dai Lombardi per la politica di tradizionale annessionismo piemontese perseguita durante la guerra, C. A. volle riprendere le ostilità, ma, disfatto a Novara, dovette abdicare (23 marzo 1849). Nacque allora la "leggenda" carloalbertina, che, lasciando nell'ombra l'aperto reazionarismo della prima parte della vita del re e le ambiguità antiche e recenti, fece di C. A. un paladino del riscatto nazionale e della causa della libertà italiana: leggenda che non mancò di esercitare un influsso sull'opinone pubblica a favore della monarchia sabauda.


Johann Joseph Franz Karl, Radetzky, conte di Radetz (Trebnice, Boemia, 5 novembre 1766 - Milano 5 gennaio 1858)

Feldmaresciallo austriaco, inizio' diciottenne la carriera militare facendo le prime esperienze militari contro i Turchi, mentre nel 1793 fu nominato ufficiale d'ordinanza di J. P. Beaulieu, poi di S. v. Wurmser, con i quali fece le campagne d'Italia del 1796 e del 1797. Promosso colonnello, partecipò alla battaglia di Marengo, come aiutante di campo di M. v. Melas, quindi salì presto agli alti gradi militari, poiché nel 1808 era maggior generale e nel 1809 tenente feldmaresciallo, con l'incarico della riorganizzazione interna dell'esercito. Fece le campagne dal 1813 al 1815, in qualità di capo di Stato maggiore del principe K. Ph. Schwarzenberg, comandante in capo degli eserciti alleati, e dal 1816 al 1828 servì in Ungheria agli ordini del governatore, l'arciduca Ferdinando. Aveva deciso di ritirarsi dal servizio attivo, ottenendo, come generale di cavalleria, il comando della fortezza d'Olmütz (Olomouc), quando, scoppiata la rivoluzione dell'Italia centrale (febbraio 1831), fu destinato a sostituire il vecchio generale J. Ph. v. Frimont nel comando dell'esercito che l'Austria aveva concentrato in Lombardia. Promosse i lavori di fortificazione di Verona e attese al miglioramento dell'esercito, prevedendo che la rivoluzione del '31 e i susseguenti moti insurrezionali che agitavano l'Italia costituivano i prodromi di una guerra a breve scadenza. Nel 1836 fu promosso feldmaresciallo. Teneva il governo militare della Lombardia, quando scoppiò la rivoluzione delle Cinque Giornate milanesi, per cui il Radetzky fu costretto ad abbandonare la capitale lombarda e a rifugiarsi entro Verona, dopo di aver messo a ferro e a fuoco i paesi in cui gl'insorti gli contrastavano la ritirata. Dichiarata, da parte del Piemonte, la guerra all'Austria, il Radetzky rimase nel quadrilatero; e mentre l'esercito di Carlo Alberto assediava Peschiera, egli provvide a riorganizzare il suo esercito, per riprendere l'offensiva non appena gli fossero giunti i rinforzi da lui chiesti. Essi giunsero dalla parte del Veneto, dopo aver vinto a Cornuda e alle Castrette le truppe pontificie, e il 22 maggio operarono il congiungimento con le truppe del Radetzky Validamente accresciuto, l'esercito austriaco si concentrò allora a Mantova col proposito di tagliare la strada di Milano all'esercito piemontese, e dopo sanguinosa lotta a Curtatone e a Montanara (29 maggio) contro le truppe dei volontari toscani, si scontrò a Goito con l'esercito piemontese, che riportò una brillante vittoria, impedendo agli Austriaci il passaggio del Mincio. Se non che, il Radetzky, traendo profitto dell'inesplicabile inazione del nemico, piegò su Vicenza, che fu costretta a capitolare, e rinforzato dalle truppe di L. v. Welden, sconfisse a Sommacampagna l'ala destra dell'esercito piemontese comandata da E. de Sonnaz (22-23 luglio), e due giorni dopo batté l'esercito di Carlo Alberto a Custoza, lo costrinse a togliere il blocco a Mantova, quindi lo sconfisse a Volta, obbligandolo alla ritirata su Milano e poi a rivalicare il Ticino. Il Radetzky entrò in Milano il 6 agosto e tre giorni dopo concluse l'armistizio detto di Salasco, per cui l'esercito piemontese doveva evacuare da tutto il territorio lombardo. Ripresa la guerra il 16 marzo 1849, dopo otto mesi di armistizio, il Radetzky varcò il Ticino presso Pavia e il 23 marzo riportò una nuova vittoria a Novara; e poiché negò una sospensione d'armi, Carlo Alberto decise di abdicare (24 marzo) in favore del figlio, che fu costretto ad accettare le dure condizioni dei preliminari di pace imposte dal Radetzky Nominato governatore generale del Lombardo-Veneto, il Radetzky amministrò il paese con eccessiva severità, sia nei riguardi degli esuli, sequestrando i beni ai più facoltosi, sia nel reprimere il moto insurrezionale del 6 febbraio 1853, ma specialmente per la crudeltà dimostrata nel perseguitare i patrioti milanesi e per la fredda ferocia durante i processi di Mantova. Fu collocato a riposo il 28 febbraio 1857. Scrisse di argomenti militari (Über den Zweck der Übungslager im Frieden, 1816; Gedanken über Festungen, 1827, ecc.).

La genesi

Dopo il primo vero contatto cogli austriaci, detto comunemente battaglia del ponte di Goito per distinguerlo dalla battaglia del 30 maggio successivo, i piemontesi si batterono con slancio e abilità, pur avendo di fronte la più quotata unità austriaca, quella dei famosi cacciatori imperiali tirolesi. Alessandro La Marmorà specialmente ardeva dal desiderio di mettere alla prova la sua tanto ostacolata e incompresa creazione, sebbene anche adesso dovesse deplorare che il battaglione di bersaglieri fosse stato frazionato fra le varie divisioni, cosicché i risultati ottenuti da una compagnia non potevano non essere limitati. Fu una vera jattura per l'esercito piemontese che questo eccellente ufficiale fosse subito gravemente ferito e messo fuori combattimento per l'intera campagna. Del resto, questo combattimento mostrava come il Comando supremo austriaco non intendesse affatto impegnarsi a fondo a contrastare il passaggio del Mincio. Ciò appare più che mai nelle operazioni più a nord, fra Borghetto e Monzambano, ove avanza il 9 aprile la 3a divisione. Quivi le 2 compagnie austriache di retroguardia ripiegano senz'altro sulla sinistra del fiume, dopo aver disfatto il ponte di legno; ma vengono tosto sloggiate da 2 pezzi d'artiglieria e retrocedono sul ciglione del terrazzo fluviale, di dove altre truppe austriache con 2 cannoni tentano disturbare il riattamento del ponte. Alle quattro pomeridiane il ponte è ristabilito: 3 battaglioni, preceduti dalla compagnia bersaglieri divisionale, lo varcano, ma all'imbrunire sono richiamati in gran parte sulla riva destra: essi hanno avuto in tutto 6 feriti. Le operazioni sembrano invece assumere un ritmo più intenso dal lato di Borghetto. Alle tre pomeridiane, sicuro ormai del possesso di Monzambano, il comandante della 3a divisione, generale Broglia, manda 2 battaglioni con 4 pezzi a impadronirsi del ponte sul Mincio congiungente i due villaggi di Borghetto e di Valeggio. I piemontesi trovano Borghetto sgombro e si spingono fino al ponte, che trovano incendiato; per di più gli austriaci appaiono fortemente sistemati sulla riva sinistra, che ha un forte dominio sulla riva destra. Per tre ore si prolunga un vivace scambio di fuoco dalle opposte rive e alla fine i piemontesi vengono ritratti dietro Borghetto.

Il 10 aprile è giorno di sosta con scarso fuoco d'artiglieria e di fucileria. Nella giornata dell'11 aprile si ha notizia che gli austriaci hanno abbandonato definitivamente la riva sinistra del Mincio e si sono raccolti davanti a Verona: allora i piemontesi occupano finalmente Valeggio. Non si può quindi parlare di un forzamento del Mincio da parte piemontese; d'altro canto, gli austriaci non hanno fatto alcun serio tentativo d'impedirlo, salvo per poche ore al ponte di Goito, e nemmeno hanno tentato di cogliere l'esercito piemontese in crisi di passaggio del fiume; il quale del resto ha praticamente impegnato solo parte di 2 divisioni, la 1a e la 3a, con una dozzina di cannoni, e ha agito, salvo a Goito, con grande ponderatezza e prudenza. Ma ora le operazioni si arrestano. Il Comando ha commesso, sono parole del duca di Genova, « l'immenso errore di non incalzare il nemico fuggente »; e ancora per quasi tutto l'aprile c'è sosta: due sole ricognizioni, ormai troppo tardive, contro Peschiera e contro Mantova, che valgono solo a mostrare come la difesa delle due fortezze sìa ormai in piena efficienza. Dopo di che il Comando decide d'assediare Peschiera. E questo mentre era più che mai necessario non dare tregua al nemico, non lasciar sbollire l'impeto rivoluzionario nelle popolazioni, fare insomma non una guerra prudente e lenta, di logorio tipo secolo XVIII, ma una vera guerra rivoluzionaria.

I tre piani operativi piemontesi

Lasciate sfuggire le varie occasioni nell'ultima decade di marzo e nella prima d'aprile, il compito dell'esercito piemontese si presentava assai più arduo. Contro il sistema fortificato del Quadrilatero, appoggiato a una duplice linea fluviale del Mincio e dell'Adige coi monti a nord e paludi e fossi e canali a sud, la superiorità numerica dell'esercito piemontese, 60 battaglioni contro 36 austriaci, e limitata, è bene rilevarlo, alla sola fanteria, non era invero grande; tanto più che i battaglioni piemontesi non erano ancora al completo e risultavano d'almeno un quarto inferiori a quelli avversari; e se i piemontesi aspettavano i complementi delle due ultime classi di riservisti, 15 000 uomini circa, le truppe austriache aspettavano pure validi e agguerriti rinforzi. Un intero corpo d'armata si stava preparando dietro l'Isonzo, in parte costituito dalle stesse truppe del Veneto che avevano potuto ritirarsi indisturbate nella Venezia Giulia; cosicché le forze austriache del Quadrilatero sarebbero presto state aumentate d'un terzo, se non si correva tempestivamente ai ripari. Occorreva dunque impedire che 15 o 20 battaglioni austriaci potessero traversare il Veneto e congiungersi col Radetzky; bisognava vedere la guerra non solo limitata al Quadrilatero, in operazioni d'assedio lente e costose, in cui le forze piemontesi avrebbero finito fatalmente col risultare insufficienti, ma concepirla come lotta di tutta la nazione, con un teatro d'operazioni ben più vasto, esteso a tutto l'arco alpino, dallo Stelvio all'Isonzo e oltre, e dal Mincio alle foci del Po. E due problemi dovevano innanzi tutto essere considerati preminenti; l'intercettazione delle comunicazioni del maresciallo Radetzky coll'Impero, lungo la valle dell'Adige; la distruzione o almeno l'intercettazione delle forze dì soccorso nel Veneto. Tre possibilità si presentavano pur sempre all'esercito piemontese: operare dalla montagna attraverso il Trentino, sbarrando la via dell'Adige e collegandosi per Rovereto e la Vallarsa con Vicenza e colla pianura veneta - il piano legato alle più famose memorie delle guerre napoleoniche, caldeggiato dal Cattaneo e appoggiato anche sulle prime dal generale De Sonnaz, il piano a cui, Carlo Alberto, il 31 marzo, era sembrato per un momento volersi attenere. V'era poi una seconda possibilità: varcare ed eventualmente forzare il Mincio e l'Adige, e prender posizione nella stretta fra questo e i Lessini, a Caldiero, dietro l'Alpone, sulla strada da Vicenza a Verona, altra zona di memorie napoleoniche, mantenendo una testa di ponte sulla destra dell'Adige; piano ardito certamente e non senza rischi, sostenuto più tardi in sede teorica da Carlo Pisacane e dal capitano d'artiglieria svizzero Le Masson. Si presentava poi una terza possibilità: porsi a sud del Quadrilatero, colla sinistra appoggiata al Po, a Governolo, la destra a cavaliere dell'Adige, al di sopra di Legnago, in modo da comunicare con Vicenza e con Padova: piano caldeggiato, a quanto sembra, dall'energico generale De Sonnaz nel consiglio di guerra di Cremona del 4 aprile, e sostenuto in sede teorica più tardi da Girolamo Ulloa.

I tre piani presentavano naturalmente vantaggi e svantaggi; e c'era sempre la possibilità d'una reazione da parte del Radetzky e l'inconveniente di lasciare la Lombardia scoperta. Ma non esiste un piano che dia l'assoluta certezza di vittoria e che non esponga a rischi: secondo la nota legge del Clausewitz, il risultato è proporzionato al rischio. Comunque, importava non tenere l'esercito anchilosato sopra una linea difensiva sempre troppo estesa e debole, ma lasciarlo in condizioni tali da poter liberamente operare sia contro il Quadrilatero sia nel Veneto, utilizzando al massimo grado e veramente inquadrando e dirigendo le forze fresche degli alleati di Toscana, di Roma, di Napoli, e quelle animose dei volontari. E invece l'esercito piemontese, già arrivato in ritardo al Mincio con una marcia a zig-zag da Pavia a Crema, da Crema a Cremona, da Cremona a Marcarla, di qui alla linea Castiglione delle Stiviere-Goito, dopo alcune brillanti operazioni per garantirsi il passaggio del Mincio si ferma sulla destra di questo fiume e in venti giorni preziosi si limita a due ricognizioni in forza contro Peschiera il 13 e contro Mantova il 19, ricognizioni teatrali, ormai tardive, tali soprattutto da scoprire al nemico le proprie forze e la propria organizzazione. Si disse che l'esercito non era al completo, che aveva bisogno di riordinarsi e soprattutto si insisté sul fatto che i riservisti avevano bisogno d'addestramento. In realtà, dei dieci contingenti della fanteria, la metà non era affatto di gente disavvezza alle armi: due erano di soldati stanziali, uno di soldati di leva sotto le armi, due di riservisti assenti da uno o da due anni soltanto; dell'altra metà, due contingenti avevano partecipato al richiamo del campo d'istruzione del 1846. Sette contingenti, dunque, su dieci non erano affatto in condizioni così tristi. Restava il contingente di nuova leva, presentatosi in gennaio, il quale già aveva avuto due mesi d'istruzione e che, inquadrato fra soldati esperti, non avrebbe dovuto costituire affatto un ingombro. Si trattava in complesso di gente dai venti ai ventisei anni, fisicamente selezionata, priva o ancor poco gravata da carichi di famiglia. Alquanto disavvezzi solo i due ultimi contingenti di ventisette e ventott'anni; comunque questi elementi, i soli che raggiunsero l'esercito al campo in aprile, servirono unicamente a completare l'effettivo dei battaglioni, portandolo a circa 900 uomini. E in condizioni notevolmente migliori si trovavano cavalleria e artiglieria, con ferma più lunga. Disallenati e fuori esercizio erano i generali e soprattutto il gran numero dei comandanti di reggimento e di battaglione, nutriti d'una preparazione superficialissima e formale. Ma impreparato più di tutti era lo Stato Maggiore, senza carte, senza piani, senza un proprio reparto di guide a cavallo, senza alcuna preparazione ai servizi di campagna e di collegamento fra i reparti; e senza un'intendenza degna di questo nome. Cosicché i servizi logistici, elemento fondamentale per un esercito che si batte e che manovra, già di per sé deficientissimi, non avevano una vera direzione; i provinciali, non abbastanza esperti negli esercizi di piazza d'armi, si sarebbero in compenso allenati a marciare e a combattere a stomaco vuoto! Proprio per questo saliente motivo riteniamo che delle tre possibilità quella sostenuta dall'Ulloa fosse la preferibile, come quella che meglio avrebbe salvaguardato le esigenze logistiche, evitando manovre difficili e rischiose e permettendo l'impiego della molta e buona cavalleria. Che, ad onta delle sue manchevolezze, l'esercito piemontese, coi suoi 62 battaglioni, i suoi 36 squadroni, i suoi 104 pezzi d'artiglieria, cui il Radetzky poteva opporre, in parte vincolati dal presidio delle fortezze, solo 35 battaglioni (sia pure di forza lievemente superiore), 29 squadroni e 102 cannoni (quasi sempre di minor calibro), rappresentava un solido strumento di guerra: ottimo di sua natura il soldato piemontese, calmo, tenace, intrepido, resistente alle fatiche e alle privazioni. L'esercito austriaco riuniva ora nel Quadrilatero, come s'è detto, 22 battaglioni del I Corpo e 13 del II, e quasi al completo cavalleria e artiglieria. Esercito stanco, alquanto scosso nel morale, ma ormai in via di ripresa nell'ottima sua base d'operazione.

I due eserciti a confronto

Se l'esercito piemontese poteva sembrare soprattutto di riservisti, sul modello prussiano, l'austriaco rappresentava l'esasperazione dell'esercito di caserma, sul modello francese. Esso, qualunque sia la nazionalità degli elementi che lo compongono, forma un corpo a sé, estraneo al paese in cui vive, e fortemente nelle mani degli ufficiali, tutti dì carriera. La ferma è di otto anni, abbastanza buono l'addestramento e tale da tenere nel sufficiente conto le esigenze del servizio di campagna; buoni i servizi, discretamente colto e preparato lo Stato Maggiore. I battaglioni, su sei compagnie anziché su quattro, le hanno meno numerose e pesanti; e così le brigate, formate di due, tre o quattro battaglioni, e le divisioni, che constano di due o tre piccole brigate, sono più agili e meglio maneggevoli delle pesanti brigate e divisioni piemontesi, rispettivamente di sei e di dodici battaglioni. L'artiglieria divisionale austriaca è inferiore a quella piemontese per addestramento, precisione dì tiro e anche calibro dei pezzi, ma più mobile; la cavalleria, che gode di grande fama, ha pure un discreto addestramento al servizio d'avanguardia e di perlustrazione. In complesso, se il soldato in sé non era intrinsecamente superiore - anzi, noi riteniamo che fosse inferiore - l'organizzazione, l'addestramento e il comando erano notevolmente migliori. Ad onta di ciò, l'esercito austriaco si rivelò durante la campagna molto migliore nella difensiva che nell'offensiva; tutta la condotta di guerra mostrò quasi sempre grande metodicità (eccezion fatta per l'azione del giugno su Vicenza); la numerosa e buona cavalleria non fu mai impiegata in massa.

Gli alti ufficiali piemontesi

L'esercito piemontese assumeva dunque un atteggiamento difensivo per coprire la Lombardia, come se questa non fosse stata molto meglio protetta da operazioni che infliggessero alle forze austriache un colpo mortale e per prima cosa tagliassero loro ogni via di comunicazione e impedissero l'affluire di rinforzi. Si sarebbe detto che il Comando supremo dell'esercito piemontese avesse già perso di vista il vero scopo della guerra. Ma in realtà non esisteva una suprema direzione della guerra. A capo dell'esercito è il re, personalmente valoroso e non privo a volte d'impeti guerreschi e di slanci generosi, ma senza alcun piano strategico e che procede a furia di consigli di guerra. E nemmeno ha accanto un generale che faccia davvero le sue veci e supplisca alle sue manchevolezze: il capo di Stato Maggiore, conte Carlo Canera di Salasco, figura scialba e insignificante, nelle sue mansioni non va oltre la trasmissione degli ordini, desideroso sempre di non urtare la suscettibilità del sovrano. Pretenderebbe forse d'essere l'alter ego del sovrano il generale Franzini, ministro della Guerra al campo e a disposizione del re. Ha cinquantanove anni, è stato tenente d'artiglieria nell'esercito napoleonico, è certamente uomo dotato di cognizioni tecniche; ma, tiepidissimo liberale, è incapace di comprendere e di sentire il carattere della guerra rivoluzionaria che si dovrebbe combattere, e per di più di sua natura è metodico, sistematico, burocratico. Né del resto il re è affatto disposto a seguirlo ciecamente. Carlo Alberto, infatti, ascolta anche i comandanti dei due corpi d'armata in cui è stato diviso l'esercito, ossia i generali Bava e De Sonnaz, ma specialmente il primo. Il Bava, di due anni più giovane del Franzini e nei suoi begli anni capitano dell'esercito napoleonico, era certamente il migliore dei generali piemontesi, sebbene anch'egli calmo e metodico. Non si può negare che avesse a volte una visione chiara della situazione; ma era irascibilissimo e il fatto che il re lo consultasse, salvo poi a modificare i suoi piani, creò presto uno stato d'animo tutt'altro che favorevole a una proficua collaborazione. Inoltre, l'attrito e la gelosia fra lui e il Franzini aumentavano e acuivano i dispareri e più che mai valevano a mantenere nell'incertezza il già indeciso sovrano. V'erano i suoi due figli, l'ormai ventottenne duca di Savoia, posto al comando della divisione di riserva, e il secondogenito, duca di Genova, messo a capo dapprima dell'artiglieria e più tardi della 4a divisione; buoni od ottimi comandanti in sottordine, non avevano, a dire il vero, né l'esperienza né le qualità per essere senz'altro di fatto a capo dell'esercito. Pure non sembra che il re si valesse del loro spesso equilibrato consiglio, ombroso anche nei loro riguardi e perennemente scontento di sé e degli altri. In conclusione, mancò nella guerra del 1848 un Comando supremo che veramente funzionasse, e i dispareri dei consiglieri di Carlo Alberto ebbero sempre un'efficacia solo negativa.

Verso Pastrengo

Sarebbe stato necessario, come si è detto, sia chiudere al Radetzky la via dell'Adige, sia impedire che il corpo d'armata formatosi a Gorizia potesse traversare il Veneto e giungere a Verona; per ottenere ciò occorreva utilizzare le forze dei volontari lombardi e Veneti e per prima cosa sostenerli e nel Trentino e nel Friuli almeno con una brigata regolare. L'esercito piemontese, che aveva 62 battaglioni contro 35, avrebbe ben potuto privarsi di 12. Non era già una dispersione di forze, che quei 12 battaglioni avrebbero potuto riunire intorno a sé almeno 10 000 volontari lombardi e altrettanti Veneti e impedire che il Radetzky potesse sul serio concentrare la cospicua forza necessaria per l'offensiva; e altre forze del resto sarebbero giunte dai Ducati, dallo Stato pontificio e dalla Toscana. E sembra che il duca di Savoia fosse dell'avviso di mandare una brigata piemontese nel Veneto, ma Carlo Alberto non ne volle sapere: nonché privarsi d'una parte dei suoi soldati, tratteneva presso l'esercito piemontese un discreto numero di volontari lombardi. Cosicché la spedizione del Trentino, caldeggiata dai democratici lombardi, rimaneva affidata unicamente ad alcuni gruppi di volontari, poco più di 2000 uomini, senza artiglieria e soprattutto senza alcun coordinamento dell'azione loro con quella dell'esercito regolare. Il Radetzky si limita a mandare un battaglione di rinforzo alla guarnigione di Trento e altri due battaglioni vengono dal Tirolo; si chiamano poi alle armi le formazioni volontarie tirolesi: la minaccia da quel lato è così facilmente parata, e i volontari giunti a Stenico, abbastanza vicini a Trento, devono retrocedere abbandonando alle rappresaglie austriache le patriottiche popolazioni che li avevano accolti festosamente. In questo modo la via dell'Adige resta aperta al Radetzky. Ma v'ha di più: il 10 aprile il nuovo corpo d'armata austriaco è in Gorizia in gran parte costituito, e il 17 il generale Nugent varca l'Isonzo, iniziando la marcia attraverso il Veneto, col duplice scopo di portare un valido rinforzo al maresciallo Radetzky, portando da 2 a 3 i suoi corpi d'armata, e al tempo stesso, sottomettendo via via il Veneto, aprire l'altra e maggiore comunicazione del vecchio maresciallo con la Monarchìa. Finalmente il 26 aprile metà dell'esercito piemontese varca il Mincio e prende posizione al piede delle famose colline del lato orientale dell'anfiteatro morenico. Le truppe mostrano il migliore spirito, sono piene d'entusiasmo, hanno vivo desiderio di battersi. Il 28 aprile passano altre 2 divisioni e tutto l'esercito fa una conversione a sinistra. Prima pareva che la direttrice strategica fosse la strada Valeggio-Villafranca-Verona, per la pianura, lungo la linea alla base delle colline dell'anfiteatro morenico, cosi da dar la mano al corpo d'armata pontificio, giunto ormai al Po; ora sembra invece che lo scopo principale sia di coprire la brigata che blocca Peschiera, con una linea che dal lago di Garda si lega al bordo di tali colline, seguendolo fino a sette od otto chilometri dal Mincio, cercando un appoggio a destra, in pianura, nell'abitato di Villafranca. Un semicerchio di venticinque chilometri, che copre il blocco di Peschiera e al tempo stesso minaccia Verona, e nel lato settentrionale minaccia pure molto dappresso la linea dell'Adige, la via da Verona a Trento. In realtà, già il 25 aprile il Comando supremo piemontese non ha potuto non autorizzare il Durando ad accorrere coi pontifici in difesa del Veneto, che non solo il 17 il Nugent ha iniziato l'avanzata, ma il 22 ha preso Udine e si approssima al Tagliamento. In questo modo, però, il progetto d'una grande operazione dalla pianura contro Verona, con la collaborazione delle forze pontificie, è già sfumato.

Gli schieramenti

Comunque, il 28 aprile l'esercito piemontese si trova di fronte agli austriaci, col II Corpo a sinistra, agli ordini del generale De Sonnaz, e il I a destra, agli ordini del generale Bava. La divisione di riserva è più addietro, in posizione centrale. Questa dislocazione non solo minaccia Verona, ma viene a porre i piemontesi, fra Sandrà e Santa Giustina, addirittura a tre o quattro chilometri dall'Adige, e a sette od otto dalla strada Verona-Trento. Ma appena il Radetzky ha intuito che i piemontesi si disponevano a passare il Mincio, ha pensato per prima cosa alla linea dell'Adige. Egli dispone ora in Verona di 33 battaglioni; di questi 10 sono in riserva nella città; 10 (I Corpo) sulla linea antistante, che forma una specie di campo trincerato sulla destra dell'Adige, con una serie di capisaldi costituiti dai villaggi dì Tomba, Santa Lucia, San Massimo, Croce Bianca e Chievo; e 13 si trovano invece sulla riva sinistra del fiume, ossia dietro l'Adige, e prolungano la linea in direzione nord-ovest, sulla strada Verona-Trento, dall'altezza di Chievo a quella di Bussolengo, con avamposti anche oltre il fiume. Abbiamo dunque 33 battaglioni austriaci che fronteggiano 51 battaglioni piemontesi, ma appoggiati a un campo trincerato e a un'importante linea fluviale, e con effettivi alquanto superiori, con una cavalleria all'incirca pari (34 squadroni contro 36) e con un'artiglieria mobile dì poco inferiore, 84 pezzi contro 82, e notevolmente superiore se si tien conto dei 192 pezzi della piazza. Inoltre, fra Trento e Volargine, a sud della chiusa di Verona, sono altri 5 battaglioni, che in parte possono appoggiare il II Corpo. Il Radetzky, di fronte alla minaccia piemontese, ha fatto occupare sulla destra dell'Adige, con 4 battaglioni, la posizione avanzata di Pastrengo; e un battaglione è stato spinto più avanti fino a Sandrà e oltre. Il maresciallo intende proteggere la linea dell'Adige e mantenere le comunicazioni con Peschiera. Avvenuto il passaggio del Mincio da parte dei piemontesi, il Radetzky ha mandato altri 3 battaglioni a Pastrengo e 3 a Bussolengo, cosicché sulla testa di ponte Bussolengo-Pastrengo si sono riuniti 10 battaglioni, 6 squadroni e 21 cannoni, senza contare 2 battaglioni sull'altipiano di Rivoli. Ora però il Comando supremo piemontese intende agire con energia: il 30 il II Corpo d'armata, sostenuto dalla divisione di riserva, muove per eliminare la molesta testa di ponte nemica, e si ha la battaglia di Pastrengo (30 aprile), il primo vero urto fra i due eserciti.

La battaglia

Contro i 7 battaglioni austriaci, schierati sulle colline attorno a Pastrengo, movevano 4 brigate piemontesi: complessivamente 14 000 piemontesi contro 8000 austriaci. La destra, formata dalla brigata Savoia e da due compagnie di bersaglieri, avanza nel terreno collinoso non senza difficoltà e lentamente: il terreno non era stato studiato in precedenza dallo Stato Maggiore e le formazioni tattiche adottate non risultavano corrispondenti alle esigenze della realtà. Al centro la brigata Cuneo, che ha presso di sé il duca di Savoia e lo stesso re Carlo Alberto, è ostacolata e trattenuta dal terreno sortumoso, non esplorato in precedenza, e tarda ad avanzare. Alla sinistra procede meglio la brigata Piemonte, ma con azione in gran parte frontale e con formazioni troppo dense. In complesso per tre ore, dalle undici alle quattordici, l'azione è proceduta lenta, difficile, macchinosa; da parte nemica però la resistenza è stata puramente passiva. A quest'ora Carlo Alberto, che fin qui ha seguito l'azione da un casolare su di un colle a sud-ovest di Pastrengo, impazientito si porta fra la brigata Cuneo e la brigata Piemonte, coi tre squadroni di carabinieri di scorta al Quartier Generale. Proprio ora la brigata Cuneo si è messa davvero in movimento e tutta la linea ha ripreso ad avanzare; nel salire un poggio alcuni carabinieri a cavallo fatti segno a una violenta scarica di fucileria retrocedono in disordine; ma subito il maggiore Sanfront porta avanti al galoppo i tre squadroni, il re e il suo seguito si uniscono ad essi, la linea nemica è sfondata: Pastrengo appare nel fondo, a un chilometro di distanza! Ai due lati Cuneo e Piemonte avanzano, travolgendo la debole linea dei due battaglioni austriaci antistanti. Il generale Wocher impegna tosto le sue riserve per impedire che la morsa si serri troppo presto; ma ormai anche la brigata Savoia, sempre preceduta dai bersaglieri, ha superato Monte San Martino e incalza, mirando al ponte di barche dell'Adige: i bersaglieri vi giungono che gli austriaci hanno fatto appena in tempo a disfarlo; 200 rimangono tuttavia prigionieri sulla riva destra. Ma a questo punto la battaglia s'arresta. Allo svolgersi dell'attacco piemontese, il Radetzky ha risposto con una vigorosa azione dimostrativa contro il centro di tutto l'esercito nemico, con direttrice lo stradone Verona-Peschiera. Il suo attacco è stato nettamente respinto; tuttavia l'azione è valsa a impensierire l'alto Comando piemontese e a distoglierlo dal tentativo di varcare l'Adige e intercettare la strada di Trento. «Pour aujourd'hui il y en a assez»: questa la risoluzione conclusiva di Carlo Alberto! I piemontesi hanno avuto 15 morti e 90 feriti; gli austriaci 23 morti, 140 feriti e 380 prigionieri.

Le conseguenze

La prima battaglia della campagna si è risolta con una vittoria piemontese, ma vittoria incompleta e non sfruttata: la riva sinistra dell'Adige rimaneva in saldo possesso degli austriaci. L'esercito piemontese aveva mostrato la virtù dei suoi soldati, ma l'impostazione tattica e strategica della battaglia era stata manchevole: 3 brigate avevano partecipato in effetti all'azione, ma solo i reggimenti di testa avevano trovato impiego; quelli retrostanti non l'avevano alimentata e sostenuta né avevano sfruttato il successo. Comunque, la minacciosa testa di ponte austriaca verso Peschiera era stata eliminata e un'azione contro Verona non sarebbe stata più soggetta alla minaccia d'una reazione sul fianco dalla linea Pastrengo-Bussolengo. Nella successiva battaglia, però, l'esercito piemontese doveva lamentare un sanguinoso insuccesso, ad onta del valore e dell'abnegazione dì gran parte delle truppe. Colla battaglia di Pastrengo l'esercito piemontese ha portato la propria ala sinistra fino all'Adige. Ora Carlo Alberto vorrebbe, per mezzo d'una grande azione dimostrativa, ricacciare l'esercito austriaco in Verona, sloggiandolo dalle posizioni antistanti e mostrando la superiorità delle forze piemontesi in campo aperto.



Tratto da: "Storia militare del Risorgimento", Piero Pieri, Torino, Einaudi, 1962