Battaglie In Sintesi
8 - 9 aprile 1815
Nacque il 25 marzo 1767 da Pietro Murat-Jordy, albergatore e intendente dei beni posseduti dai Talleyrand nei dintorni di Labastide-Fortunière, oggi Labastide-Murat. Destinato dal padre alla carriera ecclesiastica, frequentò il collegio di Cahors e il seminario di Tolosa: ma l'amore per una fanciulla lo trasse fuori della strada che gli era stata prescelta, e, dopo essersi battuto per lei e aver consumato il poco denaro che possedeva, si arruolò volontario nel reggimento dei cacciatori delle Ardenne. Dagli studî non aveva ricavato che un po' di erudizione e una certa facilità di parola e di penna; era destinato a essere soltanto uomo d'azione, intemperante, incapace di trovare un sano equilibrio nella vita e di dominare lo spirito d'avventura e l'ardente brama di farsi strada a ogni costo nel mondo, che sempre lo signoreggiarono, rendendolo ottimo soldato sul campo di battaglia, dove era possibile conquistare rapidamente onori e gradi, ma politico inadatto a conservare in tempo di pace i fortunati profitti della guerra. Espulso dal corpo per insubordinazione contro il comandante (1789), nel 1791 entrò a far parte della guardia costituzionale di Luigi XVI; ma nel nuovo reparto non restò neppure un mese; conquistato dalle idee repubblicane si diede ai rivoluzionarî. Denunziando come reazionari i suoi componenti, contribuì alla dissoluzione di quella guardia; servì da ufficiale nei cacciatori e nel corpo franco di usseri formato da Landrieux; e venuto in lotta con quest'ultimo, poté vantare benemerenze patriottiche, fra le quali il cambiamento in Marat del proprio nome. Di poi, nuove e, questa volta, effettive benemerenze acquistò il 13 vendemmiaio dell'anno IV, allorché si schierò in difesa della costituzione e d'ordine del Bonaparte s'impossessò di quaranta cannoni. Quel giorno si decise tutto il suo avvenire. Nominato generale di brigata il 2 febbraio del 1796 e poi aiutante di campo di Napoleone, si legò strettamente a quest'ultimo sino a divenire suo fedelissimo strumento. Nella seguente campagna di Egitto si batté eroicamente nella battaglia delle Piramidi, e fu il primo a muover l'assalto contro S. Giovanni d'Acri. Poi accompagnò il suo generale in Francia; e in Parigi il 18 brumaio alla testa di poche decine di granatieri s'impose al Consiglio dei cinquecento. Poco dopo ebbe la conferma del grado di generale di divisione, ottenuto in Egitto, il comando della guardia consolare e la mano di Carolina, sorella del primo console. Seguirono sempre maggiori onori. Partecipò alla battaglia di Marengo, comandò la cavalleria di riserva, l'esercito del mezzogiorno, le truppe stanziate nella Repubblica Italiana, costrinse alla pace di Firenze re Ferdinando di Napoli, prese possesso dell'isola d'Elba, fu incaricato di missioni diplomatiche presso il papa e il re di Napoli. Ritornato in Francia, fu governatore di Parigi e non negò il suo aiuto a Napoleone nella tragica esecuzione del duca d'Enghien, ottenendo in ricompensa centomila franchi. Nelle seguenti guerre tornò a essere eroico sino alla follia sul campo di battaglia, ricoprendosi di gloria ad Austerlitz; tra i primi a essere nominato maresciallo dell'impero, il 10 febbraio del 1805 fu creato principe imperiale e grande ammiraglio, il 15 marzo del 1806 granduca di Clèves e Berg, nel 1808 luogotenente generale in Spagna, e quando su questo trono salì Giuseppe Napoleone che lasciava la corona di Napoli, ottenne questo regno (con decreto firmato da Napoleone in Baiona il 15 luglio 1808 e con decorrenza dal 1° agosto).
Nello stato affidato alle sue mani l'opera di riorganizzazione politica ed economica era stata già iniziata da Giuseppe, ma ora si trattava non solo di completare siffatta opera, sibbene ancora di applicare tutte le norme legislative per trasformare completamente la vita del Mezzogiorno d'Italia, in tutti i suoi aspetti. E si può dire che re Gioacchino pienamente assolse al compito che si era assunto, sì che l'epoca del suo governo deve essere considerata come l'età nella quale il regno di Napoli abbandonò i suoi ordinamenti medievali e li sostituì con altri che si adattavano alle mutate condizioni dell'Europa. Magnifica, e, perché condotta contro l'Inghilterra, di risonanza europea, fu la prima impresa militare del nuovo monarca, che tolse agli Anglo-Siculi l'isola di Capri, centro di riunione dei nemici del nuovo regime instaurato nel Mezzogiorno; l'anno dopo, 1809, fu respinta una nuova spedizione anglo-sicula contro il regno; e poi, spesso con implacabile severità specialmente nelle Calabrie, ove il compito fu affidato al Manhès, fu represso il brigantaggio politico-sociale, che era reazione agli ordinamenti francesi. L'applicazione della legge francese sulla coscrizione militare - legge odiata sul principio, poi tollerata - permise la creazione di un forte esercito nazionale, che, dapprima inquadrato da ufficiali francesi, ebbe poi uno scelto corpo di ufficiali napoletani, istruitisi nelle armate napoleoniche o nelle scuole militari dello stato, saggiamente riordinate. Nel campo amministrativo fu perfezionato il sistema creato da Giuseppe; e, innovazione di grande importanza e ricca di benefici risultati, fu promulgato il Codice Napoleone, e, tranne in qualche periodo e in alcune regioni, furono soppressi i tribunali straordinarî, sì che la giustizia fu impartita con saggi criterî di equanime moderazione. I lavori pubblici ebbero grande impulso con la costruzione di tutto un complesso di strade e di opere di notevole utilità. La rigida applicazione della legge sulla feudalità permise lo sfruttamento di vaste estensioni di terre sino allora incolte; e l'agricoltura ebbe maggiore sviluppo con la creazione di società agricole in tutte le provincie. Anche il sistema tributario fu riordinato, migliorata l'amministrazione del tesoro, creato con il Banco di Napoli un solido istituto di credito, data una nuova organizzazione alle opere di pubblica beneficenza. E finalmente molte cure furono rivolte all'istruzione, specialmente media ed elementare.
In pochi anni la vita economica e morale del Mezzogiorno fu profondamente rinnovata. Gli ordinamenti militari diedero una disciplina del tutto nuova alla gioventù; e reggimenti napoletani si batterono con bravura non inferiore a quella degli alleati nelle guerre di Spagna e di Germania, accanto ai reparti italiani e francesi. L'eversione della feudalità e la quotizzazione delle terre portarono alla formazione del ceto medio, ché risale appunto a questo tempo e all'opera di Gioacchino l'origine della borghesia terriera nel Mezzogiorno, la quale ben presto divenne la vera dominatrice della vita del paese. E dalla borghesia uscì fuori una folta schiera di politici e di militari, direttamente interessati alla conservazione dei nuovi ordinamenti: profondi conoscitori, i primi, di questi ultimi, che essi stessi avevano creato, e desiderosi di perfezionarli; bramosi, i secondi, di accrescere sempre più le glorie belliche e le possibilità militari della giovane monarchia. Poi, con l'andar del tempo il loro programma politico si perfezionò, anche per effetto della propaganda antifrancese degli Anglo-Siculi, che diffondevano ideali d'indipendenza e di unità italiani e, attraverso le sette carbonare, ora sorte e creatrici di moti rivoluzionarî nelle Calabrie e negli Abruzzi, ideali democratici. Tali ideali finirono con l'essere accarezzati anche dai sostenitori del regime murattiano, desiderosi di liberare il regno dall'influsso francese, di sostituire i funzionarî e i militari non nazionali, di attuare riforme sempre più liberali, di ottenere anche istituzioni parlamentari, che lo statuto di Baiona, mai applicato, invano aveva concesso. Ma allora il Murat non seppe regolare lo sviluppo di questi sentimenti. Napoleone aveva sempre avuto scarsa fiducia nei talenti politici del cognato e già prima che questi salisse sul trono di Napoli era spesso venuto in dissidio con lui. Poi tali dissensi divennero sempre più gravi dopo il 1808. Re Gioacchino rivelò subito il suo desiderio di rendersi indipendente dalla tutela francese, mentre per Napoleone lo stato napoletano doveva essere strumento della sua politica e doveva subordinare la propria vita alle esigenze della vita dell'impero. Così si oppose alle murattiane mire di espansione nel vicino regno di Sicilia (e la spedizione tentata nel 1810 contro i Borboni dell'opposta sponda dello Stretto di Messina ebbe infelice risultato); non volle diminuire i tributi imposti allo stato come partecipazione di un governo dipendente alle spese generali del governo dominatore; non volle permettere che il regno murattiano avesse una sua propria politica estera; negò il permesso di sostituire funzionarî e ufficiali indigeni ai Francesi che occupavano le cariche più importanti. Sul principio il re dovette cedere. Ma le incertezze del suo governo, dibattuto fra opposti desideri e necessità, poiché rinfocolavano le passioni della nazione senza appagarle, non erano le più opportune a fissare su chiare basi la natura dei suoi rapporti con l'impero e a formare la coscienza politica del paese, sì da adattare quest'ultimo alle esigenze della vita dell'Europa, nella quale lo stato napoletano non poteva non essere considerato vassallo della Francia. E quando cominciarono i tristi giorni dell'impero, e, spinto dagli entusiasmi dei suoi sudditi e dalle tendenze stesse dell'animo, il re pensò di secondare i loro desideri e, anche nella speranza di salvarsi dal crollo dello stato napoleonico, volle atteggiarsi a sovrano indipendente e concesse le desiderate riforme liberali e rese nazionale il governo, apparve chiaro l'equivoco sul quale poggiava tutta la vita politica del Mezzogiorno, nell'impossibilità materiale di assicurarsi con le proprie armi quell'autonomia che bramava e che re Gioacchino gli aveva fatto sperare con troppa leggerezza, mentre era effettivamente legato con la fortuna e con la disgrazia di Napoleone. Molto probabilmente lo stato murattiano non si sarebbe potuto salvare nel mutato clima storico dell'Europa; ma la sua caduta poté essere attribuita agli errori politici del suo sovrano, il quale si alienò le simpatie degli amici e dei nemici e rivelò la sua incapacità a creare e a seguire una linea di condotta che conciliasse i suoi doveri di monarca devoto a chi tale lo aveva creato e di principe intelligente e accorto, sostenitore degl'interessi dei suoi sudditi. E del Murat non rimase intatta che la gloria conquistata sui campi di battaglia, e l'ultima impresa della sua vita - la spedizione nelle Calabrie - fu degna conclusione dell'esistenza di un uomo che tutti avevano unicamente considerato come guerriero nato e nella sua fine rivelò tutta la profonda debolezza del governo murattiano.
Re Gioacchino si distaccò da Napoleone durante la triste ritirata che tenne dietro alla campagna di Russia, alla quale egli aveva partecipato dando nuova prova del suo meraviglioso ardimento: incaricato di assumere il comando delle truppe disperse, mentre l'imperatore si recava a Parigi, abbandonò al viceré Eugenio la direzione dell'impresa e si ritirò a Napoli. Seguirono le trattative con l'Austria e con l'Inghilterra, nelle quali il re si mostrò preoccupato unicamente di assicurarsi il possesso del proprio stato, mentre l'imperatore compiva gli ultimi tentativi per salvarsi dal disastro: ma la sua incerta condotta non era la più opportuna a persuadere gli alleati della lealtà della sua politica, ché ad essi non dava effettivi aiuti, non avendo il coraggio di prendere le armi contro Napoleone, mentre alla sua causa arrecava gravi danni. Poi a Vienna invano cercò di ottenere la conferma del suo titolo regio; e allora tentò la sorte delle armi, ancora una volta in tempo poco opportuno, ché non si preoccupò di mettersi d'accordo con Napoleone, il quale all'Elba già meditava la sua ultima impresa. Le sue forze, rivelatasi vana la speranza di ottenere l'aiuto di tutta l'Italia chiamata alle armi in nome della sua unità politica, si rivelarono impari ad affrontare gli Austriaci; dovette abbandonare lo stato. Seguirono giorni amarissimi, ché non poté trovare asilo in Francia: poi in Corsica preparò la spedizione armata nelle Calabrie, che avrebbe dovuto ridargli il possesso del regno, ma che si chiuse tristamente al Pizzo (13 ottobre 1815), con la sua fucilazione.
Partecipò alle guerre contro Napoleone. Nel 1821 comandò l'esercito che vinse i costituzionali di Napoli e ristabilì sul trono Ferdinando I; ebbe il titolo di principe di Antrodoco e una dotazione. Successe (1825) al Bubna nelle funzioni di governatore generale del Lombardo-Veneto; fu (1831) presidente del Consiglio supremo di guerra dell'impero austroungarico.
Il successo napoletano sul Panaro, aveva mostrato, ad onta del discutibile contegno del generale francese Fontaìne, il valore degli ufficiali e dei soldati; ma fu ben lungi dall'essere un successo decisivo. Il generale Bianchi sì guarda bene dal ritirarsi su Reggio, ma ripiega verso nord, per agire poi sul fianco destro dei nemici che siano andati avanti lungo la via Emilia, e per mantenere al tempo stesso il contatto con la massa di Ferrara-Occhiobello. Dal canto suo Gioacchino spinge la la divisione da Modena in parte verso Reggio e in parte verso Carpi, ossia verso nord; la 2a su Ferrara e la 3a resta a Bologna in riserva. Gioacchino Murat, il discepolo del grande Napoleone, vale a dire del maestro dell'azione per linee interne, tenendo la massa il più possibile riunita, continua poi a disseminare le sue forze: la 1a divisione sulla via Emilia oltre Modena, a Rubiera col grosso, il resto a Carpi, la 3a a Cento, la 2a a Ferrara, ossia sopra una sola lunga linea a semicerchio, mal collegate fra loro e senza riserve; e la Guardia in Toscana. Di fronte a lui gli austriaci hanno sì la metà dei loro 50.000 uomini disseminati fra le teste di ponte sul Po e le piazze retrostanti, che ritengono sempre possibile una insurrezione, ma conservano una massa di manovra di 25.000 uomini; e i ponti di Borgoforte, Occhiobello e Pontelagoscuro, tutti ben protetti, permettono di richiamare forze sui punti minacciati e di manovrare. Gioacchino sospende dunque la marcia verso Piacenza per volgere subito contro il Po, ma come prima ha assalito la linea del Panàro con la sola 1a divisione, così ora si decide ad attaccare quella del Po, alla testa di ponte d'Occhiobello, con la sola 2a (D'Ambrosio), che per di più lascia un battaglione a Ferrara e un secondo di collegamento con la città.
Il 7 aprile viene ordinata una ricognizione, che serve specialmente a richiamare forze austriache sul punto minacciato; l'8 aprile ci fu il primo attacco napoletano, respinto dalla forza di von Mohr grazie allo sbarramento dell'artiglieria ed alle fortificazioni nel frattempo costruite a ridosso del ponte; i Napoletani effettuarono una serie di tentativi, tra cui la carica di un intero reggimento di dragoni, ma queste cariche furono tutte respinte, facendo cadere il morale delle truppe di Murat. Intanto al re giunge una lettera in cui Lord Bentinck gli annunzia che l'Inghilterra ritiene rotto l'armistizio e aiuterà l'Austria con tutti i mezzi di terra e dì mare; il che significa innanzi tutto la probabilità d'una spedizione anglo-sicula contro il regno. I Napoletani avevano subito oltre 2.000 perdite, nei due giorni di battaglia; al contrario gli Austriaci avevano subito 400 perdite, stabilendo una testa di ponte ad Occhiobello.
Questo mentre agli austriaci stanno giungendo rinforzi, le popolazioni italiane rimangono più che mai inerti (di fronte ai 3 o 400 italiani accorsi presso Gioacchino stanno 3000 italiani nell'esercito austriaco, e accanto a questo sono le truppe estensi e toscane); le forze del generale Suchet in Francia non si muovono, e del resto truppe piemontesi e austriache già si trovano pronte a sbarrar loro il passo; la Guardia in Toscana procede con grande lentezza e cautela. Per smuovere gl'italiani sarebbe necessario un clamoroso successo.
Bibliografia:
"Storia militare del Risorgimento", Piero Pieri, Torino, Einaudi, 1962
"Tradizioni Militari Italiane", Aurelio Romano, Napoli, 1867