Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Battaglia di Novara

23 Marzo 1849

Gli avversari

Carlo Albèrto re di Sardegna (Torino 1798 - Oporto 1849)

Figlio di Carlo Emanuele principe di Carignano e di Maria Cristina di Sassonia-Curlandia, ebbe genitori di tendenze apertamente liberali e, educato a Parigi e a Ginevra, fu sottotenente dei dragoni nell'esercito napoleonico. Tornò nel Piemonte nel maggio 1814 e, erede presuntivo al trono, nel 1817 sposò Maria Teresa, figlia del granduca di Toscana Ferdinando III. Ambizioso, profondamente imbevuto di orgoglio dinastico e insieme insofferente dell'uggiosa atmosfera della corte di Vittorio Emanuele I, coltivò l'amicizia di giovani liberali, come Santorre di Santarosa e C. di San Marzano, e fu a conoscenza, e per un momento anche ambiguo fautore, della cospirazione che portò al moto piemontese del marzo 1821. Reggente per l'abdicazione di Vittorio Emanuele I, concesse la costituzione di Spagna (14 marzo), ma, sconfessato dal nuovo sovrano Carlo Felice, ubbidì all'ordine di recarsi a Novara presso le truppe del gen. V. Sallier de La Tour. Confinato in mal celato esilio a Firenze presso la corte del suocero, per riguadagnarsi la considerazione di Carlo Felice, andò a combattere i liberali spagnoli al Trocadero (ag. 1823). Morto Carlo Felice il 27 aprile 1831, Carlo Alaberto salì al trono e, disprezzato dai liberali, si fece paladino dell'assolutismo regio e accarezzò sogni di crociate legittimiste. A tal periodo appartengono la convenzione militare con l'Austria (23 luglio 1831), i feroci processi anticarbonari e antimazziniani del 1833-34, il continuo appoggio ai gesuiti che rese soffocante l'atmosfera culturale e morale del Piemonte di quegli anni, l'aiuto morale e finanziario dato al tentativo legittimista della duchessa di Berry in Francia e al movimento reazionario del Sonderbund. Gelosissimo del suo potere personale, Carlo Alberto lo manteneva contrapponendo il Consiglio di stato (creato il 18 ag. 1831) ai ministri, oppure contrapponendo ministro a ministro (il clericale C. Solaro della Margherita al liberaleggiante E. di Villamarina), e ancora allontanando senza esitazione ministri creduti onnipotenti quali il conte A. della Escarena nel 1835. E le riforme interne, dall'abolizione della costituzione e della feudalità in Sardegna, al codice del 1837 che creò l'unità giuridica degli stati sabaudi, all'abolizione delle barriere economiche interne, ebbero ancora carattere di paternalismo illuminato. La crisi d'Oriente del 1840, modificando i dati fondamentali della politica europea, lo indusse a mutare politica e ad abbracciare un programma antiaustriaco di espansionismo territoriale nella pianura padana. Concesso, dopo ansie, dubbi e tentennamenti, lo statuto (4 marzo 1848), iniziò soltanto il 23 marzo - quando le Cinque giornate di Milano volgevano al termine - la campagna contro l'Austria. Ma, dopo alcune vittorie iniziali, le sconfitte di Custoza e di Milano lo costrinsero all'armistizio Salasco (9 ag. 1848). Accusato da ogni parte di tradimento, d'incapacità militare, di scarso animo, odiato dai Lombardi per la politica di tradizionale annessionismo piemontese perseguita durante la guerra, Carlo Alberto volle riprendere le ostilità, ma, disfatto a Novara, dovette abdicare (23 marzo 1849). Nacque allora la "leggenda" carloalbertina, che, lasciando nell'ombra l'aperto reazionarismo della prima parte della vita del re e le ambiguità antiche e recenti, fece di Carlo Alberto un paladino del riscatto nazionale e della causa della libertà italiana: leggenda che non mancò di esercitare un influsso sull'opinone pubblica a favore della monarchia sabauda.


Johann Joseph Franz Karl Radetzky, conte di Radetz.

Feldmaresciallo austriaco, nato nel castello di Trebnice, in Boemia, il 5 novembre 1766, morto a Milano il 5 gennaio 1858. Entrato diciottenne nella carriera militare, fece le prime armi contro i Turchi, e nel 1793 fu nominato ufficiale d'ordinanza di J. P. Beaulieu, poi di S. v. Wurmser, con i quali fece le campagne d'Italia del 1796 e del 1797. Promosso colonnello, partecipò alla battaglia di Marengo, come aiutante di campo di M. v. Melas, quindi salì presto agli alti gradi militari, poiché nel 1808 era maggior generale e nel 1809 tenente feldmaresciallo, con l'incarico della riorganizzazione interna dell'esercito. Fece le campagne dal 1813 al 1815, in qualità di capo di Stato maggiore del principe K. Ph. Schwarzenberg, comandante in capo degli eserciti alleati, e dal 1816 al 1828 servì in Ungheria agli ordini del governatore, l'arciduca Ferdinando. Aveva deciso di ritirarsi dal servizio attivo, ottenendo, come generale di cavalleria, il comando della fortezza d'Olmütz (Olomouc), quando, scoppiata la rivoluzione dell'Italia centrale (febbraio 1831), fu destinato a sostituire il vecchio generale J. Ph. v. Frimont nel comando dell'esercito che l'Austria aveva concentrato in Lombardia. Promosse i lavori di fortificazione di Verona e attese al miglioramento dell'esercito, prevedendo che la rivoluzione del '31 e i susseguenti moti insurrezionali che agitavano l'Italia costituivano i prodromi di una guerra a breve scadenza. Nel 1836 fu promosso feldmaresciallo. Teneva il governo militare della Lombardia, quando scoppiò la rivoluzione delle Cinque Giornate milanesi, per cui il Radetzky fu costretto ad abbandonare la capitale lombarda e a rifugiarsi entro Verona, dopo di aver messo a ferro e a fuoco i paesi in cui gl'insorti gli contrastavano la ritirata. Dichiarata, da parte del Piemonte, la guerra all'Austria, il Radetzky rimase nel quadrilatero; e mentre l'esercito di Carlo Alberto assediava Peschiera, egli provvide a riorganizzare il suo esercito, per riprendere l'offensiva non appena gli fossero giunti i rinforzi da lui chiesti. Essi giunsero dalla parte del Veneto, dopo aver vinto a Cornuda e alle Castrette le truppe pontificie, e il 22 maggio operarono il congiungimento con le truppe del Radetzky Validamente accresciuto, l'esercito austriaco si concentrò allora a Mantova col proposito di tagliare la strada di Milano all'esercito piemontese, e dopo sanguinosa lotta a Curtatone e a Montanara (29 maggio) contro le truppe dei volontari toscani, si scontrò a Goito con l'esercito piemontese, che riportò una brillante vittoria, impedendo agli Austriaci il passaggio del Mincio. Se non che, il Radetzky, traendo profitto dell'inesplicabile inazione del nemico, piegò su Vicenza, che fu costretta a capitolare, e rinforzato dalle truppe di L. v. Welden, sconfisse a Sommacampagna l'ala destra dell'esercito piemontese comandata da E. de Sonnaz (22-23 luglio), e due giorni dopo batté l'esercito di Carlo Alberto a Custoza, lo costrinse a togliere il blocco a Mantova, quindi lo sconfisse a Volta, obbligandolo alla ritirata su Milano e poi a rivalicare il Ticino. Il Radetzky entrò in Milano il 6 agosto e tre giorni dopo concluse l'armistizio detto di Salasco, per cui l'esercito piemontese doveva evacuare da tutto il territorio lombardo. Ripresa la guerra il 16 marzo 1849, dopo otto mesi di armistizio, il Radetzky varcò il Ticino presso Pavia e il 23 marzo riportò una nuova vittoria a Novara; e poiché negò una sospensione d'armi, Carlo Alberto decise di abdicare (24 marzo) in favore del figlio, che fu costretto ad accettare le dure condizioni dei preliminari di pace imposte dal Radetzky Nominato governatore generale del Lombardo-Veneto, il Radetzky amministrò il paese con eccessiva severità, sia nei riguardi degli esuli, sequestrando i beni ai più facoltosi, sia nel reprimere il moto insurrezionale del 6 febbraio 1853, ma specialmente per la crudeltà dimostrata nel perseguitare i patrioti milanesi e per la fredda ferocia durante i processi di Mantova. Fu collocato a riposo il 28 febbraio 1857. Scrisse di argomenti militari (Über den Zweck der Übungslager im Frieden, 1816; Gedanken über Festungen, 1827, ecc.).

La genesi

Alla Sforzesca all'una di notte, come si è detto, lo Chrzanowski si preparava a diramare gli ordini per l'azione del mattino; essi mostrano come si ritenesse tranquillo dal lato di Mortara: una sola divisione e non più 2 avrebbe dovuto tener fermo davanti alla città, mentre ben 4 avrebbero operato contro il fianco dell'esercito austriaco. E tanto fidava nel risultato della propria azione che quella stessa unica divisione di Mortara avrebbe dovuto tenersi pronta a contrattaccare! I suoi ordini erano disgraziatamente troppo superati dagli avvenimenti e quindi fuori della realtà. All'una di notte giungono al Quartier Generale piemontese i due ufficiali con le ferali notizie. Il general maggiore vede il suo piano del tutto scompigliato e cerca per prima cosa di parlare col re. Ma solo verso le tre, in quel buio, si riesce a rintracciare il sovrano, che dorme per terra in mezzo ai savoiardi del 2° fanteria. Si convoca una specie di consiglio di guerra, cui partecipano, oltre al re e al generale polacco, anche il duca di Genova e il Bes; non si è riusciti nell'oscurità a rintracciare il Perrone. Per un momento i primi due sembrano propensi a persistere nel piano stabilito, attaccando gli austriaci colle 3 divisioni disponibili e ordinando alle altre 2 dì fermarsi e contrattaccare. Ma subito il progetto ardito è abbandonato, e si discute invece se si debba cercare di ripiegare, con una lunga e non facile marcia di fianco, sopra Vercelli, oppure raccogliere tutte le forze davanti a Novara, e dare quivi la decisiva battaglia. Così si stabilisce di fare. Fra le tre e le quattro del mattino del 22 marzo le divisioni si mettono in moto. La 2a e la 3a divisione sono a Trecate prima di mezzodì; la 4a, di retroguardia, arriva verso le quattro pomeridiane. Non molto dopo la 2a e la 3a divisione proseguono per Novara e bivaccano davanti alla città. Quivi, ancor prima dell'alba, è giunta la colonna condotta dal generale Trotti e verso le sei del mattino la brigata Aosta, ossia gran parte della la divisione; in mattinata essa è raggiunta dal Durando. Assai più tardi giunge la divisione di riserva; rimasta incerta se dirigersi a Vercelli o a Novara, ha fatto sosta a Granozzo per quattro ore e mezzo, aspettando ordini, poi il duca di Savoia ha ritenuto opportuno avviarsi verso Borgo Vercelli, ma, ricevuto un tassativo ordine del Comando supremo, con ampio giro si è portato a Novara, dove le truppe son giunte fra mezzanotte e le due. Al mattino del 23 giunge sul posto anche la 4a divisione, nonché la brigata Solaroli, già a guardia del ponte sul Ticino. Alle nove dì mattina del 23 marzo tutte le truppe sono in posizione: i movimenti si sono compiuti senza alcuna molestia da parte del nemico.

Il maresciallo Radetzky, dopo l'insperato successo di Mortara, non aveva mostrato in verità un'eccessiva fretta di sfruttarlo adeguatamente. Non l'aveva infatti valutato nella sua interezza. Egli riteneva che, grazie alle sorpresa della Cava e alla successiva conversione dell'esercito austriaco verso Mortara, i piemontesi avrebbero dovuto retrocedere su Vercelli dietro la Sesia, e poscia a Casale dietro il Po, per riguadagnare la loro vera base d'operazione, Alessandria, e ricollegarsi colle forze della destra del Po, divisione lombarda, brigata Belvedere, 6a divisione. E ritenne probabilmente d'aver respinto verso Vigevano e oltre Mortara delle semplici forze di copertura, destinate a proteggere la marcia di fianco del grosso dell'esercito piemontese, da Boffalora a Vercelli. Ed egli poteva sperare di coglierle in crisi di movimento presso Novara o comunque prima di Vercelli. Da Mortara, alle quattro di notte del 22 marzo, il maresciallo dispone che alle dieci e mezzo di mattina il II Corpo prosegua su Vespolate (a metà strada tra Mortara e Novara), seguito dal III Corpo e dal I di riserva, ossia i 3 corpi incolonnati sulla strada di Pavìa proseguano la loro marcia in direzione di Novara; il I Corpo continuerà a fiancheggiare alla destra; il IV Corpo, che costituiva il fiancheggiamento dal lato di sinistra, lo continuerà fino a Rebbio, poi piegherà su Vespolate inserendosi fra il II e il III Corpo, All'alba del 23 marzo il II e III Corpo e il I di riserva hanno tutti oltrepassato Mortara, e mentre la coda dell'immensa colonna è ancora a diciannove chilometri da Novara, la testa non ne dista che otto; il IV Corpo, di fiancheggiamento alla sinistra, è a tre chilometri da Vespolate, e il I Corpo di fiancheggiamento a destra è alquanto indietro, salvo l'avanguardia, ch'è quasi all'altezza di Vespolate. È mantenuta in sostanza la disposizione precedente: i corpi sono disposti in modo da sostenersi a vicenda: la direttrice strategica è la strada Mortara-Novara. Ma le notizie che giungono al maresciallo nella giornata del 22 e nella notte sul 23, sono assai discordanti: si parla di radunata dei piemontesi su Novara, ma si vocifera pure di ritirata loro su Vercelli ed oltre. Per di più, il comandante del II Corpo, D'Aspre, è più che mai persuaso che a Novara non debbano esserci che truppe di copertura e retroguardie. Di conseguenza, alle otto di mattina del 23 il maresciallo Radetzky, da Borgo Lavezzaro, modifica profondamente le precedenti direttive. È disposta una decisa conversione a sinistra, verso Vercelli, di tutto l'esercito; in testa si troveranno il IV e il I Corpo, rincalzati rispettivamente dal III e dal I di riserva; la funzione di copertura e di fiancheggiamento svolta fin qui dal I Corpo sarà adesso assunta dal II, il quale dovrà marciare subito su Novara e impadronirsene. Appena se ne sarà impadronito, comincerà la grande conversione a sinistra di tutto l'esercito; e il II Corpo seguirà il 24 il grosso dell'esercito verso Vercelli. A rigore, la manovra dovrà svilupparsi quando Novara sia in mano austriaca, ma il I Corpo, che è il più lontano, deve pur tuttavia muoversi prima che ciò sia noto. E poi il maresciallo prescrive al III Corpo di « cercare in ogni modo di raggiungere Vercelli [che è al di là della Sesia, sulla riva destra], per avere là riuniti la sera stessa o nella notte quattro corpi d'armata»; il che significa che il Radetzky prevede non solo che i piemontesi siano in ritirata dietro la Sesia, ma che neppure si dispongano a difendere il passaggio del fiume. Al generale Wimpffen a Pavia è dato ordine di muovere colle sue forze in direzione dì Casale. Questo pare ormai il grande obbiettivo strategico dell'esercito austriaco. Dunque, alle nove dì mattina del 23 marzo si è mossa in direzione di Vercelli l'avanguardia e alle dieci e mezzo il grosso del IV Corpo; e alle dieci, pure su Vercelli, ma sulla strada meridionale, il I Corpo. Sempre alle dieci si è posto in movimento in direzione di Novara il II Corpo. Il III Corpo però è rimasto fermo pel momento fra Borgo Lavezzaro e Vespolate, aspettando a muoversi d'aver notizie del II; mentre il I Corpo di riserva è rimasto fermo a sud di Albonese, in attesa che il I Corpo abbia terminato di sfilare, per porsi quindi al suo seguito. Per quanto tutto l'esercito sia orientato verso Vercelli, i tre corpi settentrionali sono abbastanza riuniti e in condizione d'appoggiarsi a vicenda, anche dal lato di Novara. Il che non toglie che l'appoggio al II Corpo da parte dei due corpi più vicini sarà pur sempre alquanto lento e tardivo. Con un nemico energico e attivo, i diversi nuclei dell'esercito austriaco potrebbero essere battuti separatamente, tanto più che il I Corpo e il I di riserva saranno troppo lontani. Ma diciamolo subito: l'esercito austriaco ha una notevolissima superiorità numerica; l'esercito piemontese oppone 5 divisioni a 5 corpi d'armata austriaci; i 3 corpi austriaci più vicini a Novara già possiedono una forza pari o leggermente superiore a quella delle 5 divisioni dell'esercito piemontese.

Siamo ormai all'ultima fase del dramma. La mattina del 23 marzo, alle nove, l'esercito piemontese si trova schierato davanti a Novara, fra l'Agogna e il Terdoppio. Tre divisioni sono in prima linea e due in seconda; a sinistra la brigata Solaroli guarda le provenienze da Trecate e da Galliate. Il campo di battaglia è abbastanza nettamente diviso in due parti disuguali dalle sorgenti e dal vallone dell'Arbogna, che crea fra questo e il Terdoppio una specie di stretta, per dove passa la strada di Mortara e dove si trovano le case della Bicocca. Il terreno fra l'Arbogna e il fiumìcello Agogna si estende invece più ampio, ma rotto da fossi e da vegetazioni. Un profondo canale, cavo Dassi, scorre parallelo all'Agogna, a meno di un chilometro da esso, e piega quindi ad angolo retto. Ordunque, la sinistra piemontese è schierata sullo stretto ripiano dal Terdoppio al vallone dell'Arbogna, il centro e la destra fra l'Arbogna e il cavo Dassi, circa un chilometro prima che, piegando verso l'Arbogna, venga a formare un ostacolo avanzato. La sinistra è data dalla 3a divisione (Perrone) con la brigata Savona avanti e ai due lati della Bicocca, e la brigata Savoia dietro, ed ha la brigata Solaroli a protezione lontana del fianco e delle spalle. Al centro è la 2 divisione (Bes) e alla destra la la divisione (Durando), quest'ultima colla brigata Aosta quasi al completo, e la brigata Regina ridotta a due battaglioni e cogli altri 4 sostituiti con altrettanti battaglioni di reclute. In seconda linea, dietro la 3a divisione, si trova la 4a (duca di Genova), e dietro la la è la divisione di riserva del duca di Savoia, con la brigata Guardie quasi intatta, e la brigata Cuneo praticamente dimezzata. Ma la divisione è pur sempre fortissima, avendo la brigata Guardie su 3 reggimenti (1° e 2° granatieri e reggimento cacciatori, 8 battaglioni invece di 6), 2 reggimenti di cavalleria anziché uno, 4 batterie invece di 2. Quanto alla brigata Solaroli, essa consta di 6 battaglioni della riserva, del battaglione Real Navi (praticamente un battaglione di cacciatori), più i bersaglieri valtellinesi e la Guardia Nazionale mobile bergamasca, due piccoli squadroni di dragoni lombardi e 8 pezzi d'artiglieria: in tutto 5500 uomini. Vi sono poi 2 battaglioni di bersaglieri a disposizione del Comando supremo. Nell'insieme 65 battaglioni (e 71 considerando i 4 di reclute e i 2 di volontari), 39 squadroni, 14 batterie; ma i battaglioni, ricordiamolo ancora una volta, hanno la forza media di 600 uomini, di fronte a quella di 1000 e più dei battaglioni austriaci; cosicché la forza complessiva si può calcolare in 45 000 fanti, 2500 cavalli, 109 cannoni. Restavano inutilizzate 2 divisioni e mezzo oltre il Po, della forza complessiva di 17 000 fanti, 650 cavalli e 40 cannoni, e 16 battaglioni dì reclute, ossia 6000 uomini circa; in tutto 23 000 fanti, sopra 68000; 650 cavalli sopra 3150 e 40 pezzi sopra 150 circa: un terzo della forza complessiva per la fanterìa, un quarto per l'artiglieria, un quinto per la cavalleria. Dispersione eccessiva, tanto più se si considera che gli austriaci riunivano 66 battaglioni sopra 73, 42 squadroni sopra 44, e 205 cannoni sopra 229; ossia circa 70 000 fanti sopra 80 000, con quasi tutta l'artiglieria e cavalleria. Cosicché venivano a trovarsi di fronte 70 000 austriaci con 5000 cavalli e 205 cannoni contro 45 000 piemontesi con 2500 cavalli e 109 cannoni. In realtà, però, solo 3 corpi austriaci su 5, ossia 37 battaglioni con 16 squadroni e 108 pezzi, erano davvero in condizione di partecipare alla battaglia, in seguito alle disposizioni del 22 e del 23; vi era anche da parte nemica una notevole dispersione di forze! Quanto allo schieramento piemontese, esso era strettamente difensivo: tre chilometri di fronte e quasi altrettanti di profondità; proprio l'opposto deireccessivo schieramento a cordone a Mortara, esteso per quattordici chilometri e rotto facilmente sopra un tratto di circa un chilometro! Le divisioni di prima linea avevano una brigata avanti e una di rincalzo, e così pure le divisioni di seconda linea. Lo Chrzanowski si proponeva di combattere una battaglia difensiva-controffensiva: il principio era buono; restava da vedere come si sarebbe attuato nell'esecuzione!

La battaglia

Alle undici circa di quella gelida e piovigginosa mattina, una vedetta sul campanile della Bicocca annunzia l'approssimarsi degli austriaci. È l'avanguardia del II Corpo e più precisamente della divisione arciduca Alberto, che già ha sfondato a Mortara. La strada di Mortara è invero solidamente sbarrata: avanti c'è ìl 15° reggimento Savona e dietro il 16°; in terza linea la brigata Savoia, e dietro ancora la brigata Piemonte della 4a divisione, e la brigata Pinerolo. Per di più il 15° fanteria ha alla sua sinistra due compagnie, e alla destra 2 battaglioni di bersaglieri; e 16 pezzi d'artiglieria sono a destra e a sinistra della Bicocca. I bersaglieri si sono portati avanti fin quasi presso Olengo e così pure il 15° fanteria, schieratosi un chilometro oltre la Bicocca, fra il Castellazzo e la Cavalletta. Il D'Aspre, fiero del trionfo di Mortara, ha ordinato di attaccare senz'altro. E 5 battaglioni austriaci avanzano impetuosi contro il velo di bersaglieri che ripiegano ai lati del 15° fanteria. Il combattimento si riaccende subito violentissimo: il 15° fanteria è nuovo al fuoco, perché rimasto Panno prima di presidio in Savoia; pure i soldati si battono bravamente, e gli austriaci sono fermati; essi cercano ora d'avvolgere le ali; ma accorrono elementi del 16° reggimento e del 2° fanteria Savoia e gli austriaci alla sinistra devono ritirarsi con gravi perdite. Ma alla destra gli ungheresi riescono a occupare la Cavalletta, avanzando ancora: accorrono sul posto il generale Perrone e lo stesso Carlo Alberto, uno squadrone di Genova Cavalleria carica a furia, reparti della 2a divisione minacciano a loro volta il fianco del nemico ed esso deve ora ritirarsi: i due superbi battaglioni ungheresi sono, al dire della relazione austriaca, «quasi interamente sfasciati». È mezzogiorno, il D'Aspre comprende d'aver di fronte forze numerose e decise a battersi. Non per questo lascia la presa: ordina all'altra brigata della divisione di testa di muovere a rincalzo, mentre la 2a divisione del corpo d'armata serra sotto a Olengo. Al tempo stesso sollecita l'intervento del III Corpo (Appel) e manda ad avvertire il IV Corpo (Thurn) di deviare verso Novara; e rende edotto il Comando supremo della situazione. II maresciallo Radetzky dal canto suo, udito l'insistente tuonare del cannone, ha intuito lo svolgersi degli avvenimenti; e a mezzogiorno ordina al III Corpo di concorrere all'azione del II, al I riserva di seguire il III, e al IV di piegare verso Novara e gettarsi sul fianco dei piemontesi. La II brigata della divisione arciduca Alberto entra dunque in azione davanti alla Bicocca, contro il lato destro della difesa piemontese e il combattimento si riaccende frazionandosi attorno alle sparse cascine. Dopo lunga e vivace lotta, gli austriaci tornano a prevalere. Il generale Perrone ordina allora agli altri 2 battaglioni del 2° fanteria Savoia d'avanzare. E il nemico è trattenuto, ma la situazione è sempre tesa. Perrone fa avanzare allora gli ultimi elementi disponibili del 1° Savoia; ma è respinto e tutta la linea ripiega verso la Bicocca. Qui però la lìnea piemontese si consolida: le truppe di Savona e dì Savoia contrattaccano e uno squadrone di Genova carica furiosamente; gli austriaci retrocedono sulla cascina Cavalletta e qui di nuovo resistono. Ma la situazione per gli austriaci che attaccavano con tanta baldanza è indubbiamente grave. Le due contrapposte divisioni, arciduca Alberto, austriaca e Perrone, piemontese, sono logore e sfinite; ma gli austriaci non hanno immediatamente dietro di sé che la divisione Schaffgotsche; i piemontesi tutto il loro esercito, e hanno mostrato di battersi tenacemente e potrebbero contrattaccare con forze soverchianti: gli austriaci attendono perciò ansiosamente rinforzi. Sono le due pomeridiane, la lotta ha una sosta. Intanto, alla sinistra austriaca un distaccamento fiancheggiante si è spinto avanti fino al cavo Dassi (che qui ha mutato il nome in cavo Prina), di fronte alla la divisione. Non sono che 8 compagnie con 2 cannoni e mezzo squadrone di usseri e si trovano a tenere a bada non solo la la divisione del Durando, che non contrattacca, ma tutto il resto dell'esercito piemontese. Al D'Aspre giungono 5 dei 7 battaglioni della sua 2a divisione; con questi rafforza le sue schiere e ordina un nuovo attacco: i piemontesi sono respinti, il nemico per la seconda volta arriva quasi di fianco alla Bicocca. Il Perrone tenta un contrattacco, ma mentre si sforza di riordinare la sua divisione, ormai sconvolta sotto la pressione dell'intero II Corpo austriaco, il vecchio eroico combattente della libertà cade da cavallo colpito in fronte da una palla di striscio. Comunque, l'attacco austriaco è fermato: due compagnie, mandate a tenere a bada la brigata Solaroli, sono subito contrattaccate dai volontari valtellinesi e inseguite per lungo tratto, fino in vista dì Trecate. A questo punto, mentre la 3a divisione ha sulle braccia quasi tutto il II Corpo austriaco, interviene il duca di Genova colla 4a divisione. Avanti è la brigata Piemonte, dietro alla sua sinistra la brigata Pinerolo; in testa, ove più critica si presenta la situazione, è il 3° fanteria, col generale Passalacqua, a sinistra il 4° reggimento col duca di Genova. Il Passalacqua cade mortalmente ferito, gridando ai suoi soldati: «avanti per l'onore piemontese! » L'intrepido generale muore, ma lo slancio è dato e il nemico è respinto di nuovo fin quasi alla Cavalletta. Nuova lotta e per la terza volta gli austriaci avanzano contro la destra piemontese. Avanza però adesso il 13° Pinerolo, sostenuto dall'11° Casale della divisione Bes: i piemontesi sono di nuovo presso la Cavalletta e qui l'arciduca Alberto riesce a fatica a rannodare poche truppe, in vista dell'ultima problematica resistenza. Anche alla sinistra piemontese il Castellazzo, dopo acerba lotta, è stato riconquistato.

Sono circa le tre pomeridiane. Il II Corpo austriaco è ormai in rotta ricacciato verso Olengo, ove non può trovare sicuri appigli tattici alla sinistra, mentre i piemontesi quivi già sopravanzano. Il D'Aspre ha chiesto alle due e mezzo, con manifesta ansia, al III Corpo d'accelerare la marcia, e al Radetzky d'inviare altri soccorsi. Ma proprio i carriaggi del II Corpo ingombrano la strada! Cosicché alle tre solo il battaglione cacciatori d'avanguardia del III Corpo si trova a tre chilometri da Olengo e il IV Corpo è ancora più lontano; e non prima delle cinque e mezzo le sue avanguardie potranno trovarsi al ponte dell'Agogna. Per di più, esso ha mandato 5 battaglioni verso Casale. Il I Corpo e il I di riserva sono del tutto lontani. L'esercito piemontese non ha impegnato che meno della metà delle sue forze, vale a dire poco più di 2 delle sue 5 divisioni e mezzo: 30 battaglioni e 32 pezzi sopra 73 disponibili con 109 pezzi. E dei 30 battaglioni impegnati una decina soltanto sono veramente logori. Gli austriaci non si stancarono d'esaltare l'eroismo delle 2 divisioni del II Corpo, che per quattro lunghe ore sostennero il peso di tutto quanto l'esercito piemontese: in realtà esse ebbero contro, successivamente, forze all'inarca uguali: tre quinti dell'esercito non avevano combattuto! E le 2 divisioni piemontesi avevano finito col respingere e fiaccare l'impeto baldanzoso delle 2 fiere divisioni del D'Aspre! Sarebbe stato veramente il momento dì contrattaccare con tutto l'esercito: i resti del II Corpo si sarebbero definitivamente sfasciati prima che il III Corpo avesse potuto validamente sostenerli; e anch'esso sarebbe stato travolto e poi sarebbe venuta la volta dello smilzo IV Corpo. Dopo di che, al Radetzky non sarebbe rimasto altro che cercare di riportare in salvo in Lombardia gli ultimi 2 corpi: e nuovi orizzonti si sarebbero davvero aperti all'azione dell'esercito vittorioso. Già lo Chrzanowski, a rigore, avrebbe potuto schiacciare prima la divisione arciduca Alberto, e successivamente l'altra del generale Schaffgotsche. Comunque, non era più adesso il caso di tardare. Ma il general maggiore non si era reso conto della situazione: da un lato, non aveva compreso d'aver di fronte solo il II Corpo austriaco; dall'altro, nelle alterne vicende del combattimento, era rimasto soprattutto colpito - ossessionato com'era dal preteso cedimento morale di Mortara - dal retrocedere e dallo sfasciarsi d'alcuni corpi, dal loro troppo lento ricostituirsi, dal solito quadro degli sbandati e dei fuggiaschi, mentre una diagnosi non molto diversa sarebbe stata possibile anche dall'altra parte. Gli eran viceversa sfuggiti la tenacia e l'impeto di altri reparti e si potrebbe dire dell'intera 4a divisione; mentre lo avevano impressionato i reiterati, seppure fuggevoli e transitori, successi nemici. È invece virtù dei veri capitani sentire il polso della battaglia, senza lasciarsi traviare da episodi staccati e dall'ineguale contegno di qualche reparto. Ma il generale polacco non conosceva i piemontesi né il loro esercito; estremamente miope, non poteva nemmeno rendersi sufficiente conto di quanto avveniva intorno a sé. In realtà, egli mirava soprattutto a trattenere il nemico fino a sera, nella speranza forse che, come a Goito l'anno prima, il Radetzky, di fronte a una resistenza prolungata, rinunziasse a rinnovare l'attacco e retrocedesse su Pavìa e la Lombardia. Proprio mentre il duca di Genova incalza le disfatte schiere del II Corpo austriaco, il generale maggiore gli ordina non già di fermarsi, ma di retrocedere! Non solo, ma prescrive al Bes di non muoversi e di mantenere colla 2a divisione un atteggiamento difensivo. Quando il battaglione Jager, avanguardia del III Corpo, giunge finalmente a Olengo e si affretta a schierarsi a destra del paese, per impedire un'azione avvolgente nemica, l'avversario non gli contrappone più che un velo di bersaglieri, messi a mascherare il ripiegamento della 4a divisione! L'arretramento di questa permetteva alle truppe austriache, tanto scosse, di riordinarsi e al III Corpo di schierarsi indisturbato. Da parte piemontese, lo Chrzanowski, pensando che la pressione austriaca continuerà dal lato della Bicocca; chiama quivi a sostegno della 4a divisione e dei resti della 3a i cacciatori delle Guardie, il 7° reggimento Cuneo e una batteria, tutte forze sottratte alla divisione di riserva. Sì priva così dell'ultima vera massa di manovra che gli restava per l'attuazione della sua controffensiva.

Dopo un'ora di sosta la battaglia riprende vivacissima alle quattro. La divisione di testa del III Corpo austriaco attacca coi suoi sette grossi battaglioni e dietro la rincalzano i resti del II Corpo. I piemontesi devono retrocedere, sia pure lentamente e combattendo, ma al sopraggiungere dei cacciatori delle Guardie e del 7° fanteria Cuneo il nemico ripiega. Anche ora, nulla che riveli da parte piemontese alcuna intrinseca inferiorità: gli austriaci hanno immesso nella battaglia 7 nuovi grossi battaglioni, 22 pezzi, 4 squadroni, un insieme di 9000 uomini; i piemontesi 5 battaglioni e 8 cannoni, 3500 uomini; e hanno di nuovo respinto il nemico! Ma non v'è dubbio che questa battaglia, ridotta a un'ininterrotta successiva immissione di nuove forze nel combattimento, e sempre nello stesso posto, non potrà non risolversi a favore dì chi ha la superiorità del numero! Alle cinque pomeridiane il maresciallo Radetzky, giunto di persona a Olengo, dispone per un nuovo decisivo attacco, rincalzato dall'altra divisione del II Corpo e sostenuto dall'azione del IV Corpo, ormai arrivato coll'avanguardia presso il ponte dell'Agogna. Proprio ora lo Chrzanowski si risolve a tentare la manovra controffensiva, ordinando alla divisione Bes d'avanzare verso la Bicocca e prescrivendo anche alla divisione Durando d'appoggiare il movimento: la mossa di Goito, o meglio la parodia della mossa di Goito. Questa varca il cavo Dassi e prende il Torrione Quartara e le case adiacenti, tenute sempre dal distaccamento austriaco fiancheggiarne, e se ne impadronisce; ma ben presto, udito che grosse forze austriache premono alla destra (sono i primi elementi del IV Corpo), retrocede. Frattanto il Bes è andato avanti colla brigata composta e il Piemonte Reale Cavallerìa, ma gli è giunto da parte del La Marmora, a nome del general maggiore, l'ordine di sospendere l'attacco e ripiegare a sostegno della la divisione, minacciata dal IV Corpo austriaco. L'ordine, in realtà, è del solo La Marmora, il quale scosso da quanto avvenne a Mortara teme, ora che sta per sferrarsi il grande generale attacco nemico, che la 2a divisione possa essertagliata fuori, e la la presa alle spalle dal IV Corpo nemico: la battaglia è perduta e bisogna solo cercare di salvare il salvabile. Il Bes esita; ma l'ordine gli viene ripetuto da un ufficiale di Stato Maggiore, e allora retrocede; clementi nemici che vorrebbero incalzare sono vigorosamente contrattaccati alla baionetta dal 12° Casale. Dal lato della Bicocca sì è intanto sferrato l'ultimo decisivo attacco nemico. Sono giunti ad Olengo anche 5 battaglioni di granatieri del I Corpo di riserva, nonché il parco d'artiglieria di ben 64 pezzi; al tempo stesso si o avuta notizia che il IV Corpo già sta richiamando forze piemontesi sopra di sé. Il maresciallo Radetzky emana le ultime disposizioni per l'attacco finale: 10 battaglioni alla destra, 5 alla sinistra, altri 5 di rincalzo immediato, e di riserva i 5 battaglioni di granatieri: ben 25 battaglioni, e il loro attacco è preceduto da una violenta preparazione d'artiglierìa. Contro questa massa non si trovano che il 4° fanteria Piemonte e il 14° Pinerolo, sostenuti da pochi resti di Savona e da 2 compagnie di bersaglieri; e inoltre una parte dell'11° Casale; il 2° reggimento Guardie e il 7° Cuneo, inviati in ritardo dalla divisione di riserva, sono ancora in marcia e di riserva non vi è che il 3° Piemonte, che, come s'è detto, è stato ricostituito; la brigata Solaroli è ancora lontana, il generai maggiore non l'ha voluta chiamare, e tutto il giorno è stata tenuta a bada da 2 compagnie austriache. Lo Chrzanowski non si è deciso a tempo né a contrattaccare col centro (2a divisione) e colla destra (la divisione), appoggiate dalla divisione dì riserva, né a concentrare tempestivamente le maggiori forze alla Bicocca: la brigata composta, i cacciatori delle Guardie, il 7° Cuneo e la brigata Solatoli, chiamati a tempo, avrebbero costituito pur sempre, una massa di 15 battaglioni di riserva, coi quali l'attacco nemico, pur cosi violento, avrebbe potuto essere contenuto e respinto. Sono le sei. Di fronte a tanta preponderanza di forze l'intera linea piemontese oscilla e poi arretra; il nemico, che non ha nessuna minaccia sui fianchi, né da parte della 2a divisione, né da parte della brigata Solarci!, incalza baldanzoso e la Bicocca cade alla fine in mano del nemico; non solo, ma esso ancora avanza2. I 2 battaglioni di cacciatori delle Guardie e i 3 battaglioni di Cuneo, ora arrivati, cercano dì far argine alla marea dilagante; ma questa procede fino al cimitero. A Santa Lucia, l'anno prima, il cimitero, col suo muro di cinta tutto tagliato da feritoie, era stato per gli austriaci un caposaldo difensivo d'eccezionale importanza. Ma qui nessun lavoro è stato fatto. Ora entrano in linea i 5 battaglioni austriaci di rincalzo, con manovra avvolgente contro la sinistra della difesa piemontese. Lo Chrzanowski oppone a questi 5000 uomini i 3 battaglioni di riserva, estrema riserva, del 3° fanteria, 1600 uomini in tutto, e il duca di Genova che nel corso della battaglia ha già avuto tre cavalli caduti sotto di sé, si pone alla loro testa, eroicamente, a piedi: il nemico è fermato e le truppe possono sfilare in discreto ordine in Novara. A sostegno del 3° fanteria giunge ora il 2° granatieri, e vale a rendere meno confusa, fra le tenebre sempre più fitte, la ritirata delle truppe della Bicocca.Mentre la sinistra piemontese ripiegava sotto la pressione d'un nemico troppo superiore di forze, la destra era seriamente minacciata dall'entrata in azione del IV Corpo austriaco. Verso le cinque e mezzo, i primi elementi dell'avanguardia nemica (due compagnie con 2 cannoni e mezzo squadrone) sboccano dal ponte dell'Agogna, ma sono subito presi dì mira dall'artiglieria piemontese e vigorosamente caricati da uno squadrone di Savoia Cavalleria. Il duca di Savoia, che ha mandato a spizzico gran parte della sua divisione alla Bicocca, non dispone ormai che del 1° reggimento granatieri delle Guardie, di 10 squadroni e di 9 pezzi. Egli schiera senz'altro dietro il cavo Dossi i 3 battaglioni di granatieri. Intanto il grosso del IV Corpo nemico, 7 battaglioni, passa l'Agogna; ma visto l'ostacolo e, dietro, i granatieri schierati, subito si ferma, rimanendo in attesa. Intanto giungeva al Durando l'ordine di ritirata, ma reparti austriaci, passato il canale, cercavano di ostacolarlo; la divisione retrocedeva molto lentamente, nel terreno rotto, fra le tenebre, molestata dal fuoco nemico, ma prima delle otto poteva riparare in Novara. Le misure adottate dal duca di Savoia erano valse ad evitare il più grave pericolo, quello d'un'irruzione nemica alle spalle dell'esercito in crisi, dal lato di Vercelli. Quanto alla brigata Solaroli, essa aveva avuto ancora per due volte qualche molestia, subito rintuzzata, ma nell'insieme era intatta. Il generale Solaroli, che in tutta la giornata non aveva ricevuto ordini, alle otto circa ìniziava indisturbato il ripiegamento e da Novara proseguiva per Càmeri. Cosicché verso le otto o poco dopo, tutto l'esercito si trovava riunito in Novara o poco oltre la città. Gli austriaci non inseguivano, paghi di dormire sul conteso campo di battaglia. Le perdite erano state gravi dalle due parti: 578 morti, 1405 feriti e 409 dispersi o prigionieri da parte piemontese, più 8 cannoni, perduti tutti nella fase finale della battaglia o fra le tenebre; e da parte austriaca 410 morti, 1850 feriti e 963 prigionieri o dispersi. Perdite complessive 2392 uomini da parte piemontese, e 3223 da parte austriaca; il che prova in qual misura i vinti si fossero battuti.

L'esercito piemontese si trovava raccolto in gran parte sulle mura della città, parte della 3a e 4a divisione erano però a porta Sempione, e nei primi tratti della strada per Arona, mentre qualche elemento era sulla strada centrale di Borgomanero, e nuclei della 2a divisione, col generale Bes, sulla strada di sinistra, quella di Romagnano. Ma già verso le sei pomeridiane del 23 Carlo Alberto, dopo aver avvertito della cosa, in presenza del general maggiore, il ministro al campo Carlo Cadorna, ha mandato il generale Fecia di Cessato, sottocapo di Stato Maggiore, a chiedere un armistizio al nemico. Il Cessato è tornato alle otto e mezzo, dopo aver brevemente parlato alla Bicocca col capo di Stato Maggiore austriaco, generale Hess, il quale ha lasciato comprendere che gli austriaci esigono l'occupazione della Lomellina e d'Alessandria. Alle nove e un quarto è indetta una riunione, alla quale sono presenti il re, con due aiutanti di campo, i generali Carlo Emanuele La Marmora e Giacomo Durando; lo Chrzanowski col capo di Stato Maggiore, Alessandro La Marmora, e due dei cinque divisionali, ossia il duca di Savoia e il duca di Genova. Alla domanda se si ritenga possibile « riprendere le ostilità ed opporsi efficacemente al nemico », tutti rispondono negativamente. E allora Carlo Alberto dichiara d'abdicare: non ha trovato sul campo la morte liberatrìce, troverà nell'esilio la sua ultima nobilissima catarsi! Vengono ora riprese le trattative, ma senza che gli austriaci intendano interrompere le ostilità: il mattino del 24 marzo, alle otto, il IV Corpo entra in città e prosegue sulla via di Borgomanero; il II Corpo entra da Porta Mortara e prosegue sulla via di Arona: è evidente l'intenzione austriaca di serrare a destra e a sinistra il grosso dell'esercito piemontese, che si ritira per la strada centrale di Borgomanero, impedendogli di varcare eventualmente la Sesia a Romagnano per difendere il Piemonte, o di varcare il Ticino a Sesto Calende e penetrare in Lombardia. Ma, del resto, nessuna disposizione è stata data dal Comando supremo per una ritirata dell'esercito in una dì queste due direzioni; le ostilità sono ben presto sospese in attesa del convegno fra il maresciallo Radetzky e il nuovo re Vittorio Emanuele II, convegno che ha luogo a Vignale, quattro chilometri a nord di Novara, sulla strada di Borgomanero, fra le due e le tre pomeridiane. In questo stesso giorno 24 la divisione autonoma Wimpffen iniziava le operazioni contro Casale. Nessun apprestamento difensivo era stato compiuto nei nove mesi d'armistizio, e tanto meno negli anni antecedenti: esisteva il vecchio castello con 8 vecchi cannoni e 4 grossi obici da 32, ma con 12 cannonieri in tutto; e poi il deposito del reggimento cacciatori delle Guardie e un centinaio di fuggiaschi da Mortara. Ma v'era pure la Guardia Nazionale, e tutta la popolazione risoluta a difendersi. Era stata improvvisata alla meglio una testa di ponte al di là del Po, e questa venne difesa per tre ore dalla Guardia Nazionale contro un battaglione ungherese, sostenuto da una compagnia di cacciatori e da 3 batterie d'artiglieria. Gli austriaci varcavano il ponte, ma non osavano assalire la città e concentravano contro il castello il fuoco di 30 cannoni e di 6 racchette; ma l'artiglieria piemontese rispondeva con grande efficacia, tanto che la fanteria nemica si ritirava, lasciando solo un velo di cacciatori presso il ponte. La mattina dopo, 25 marzo, giungeva da Alessandria il tenente Morozzo con 10 carabinieri e alcune guardie nazionali e volontari, e respingeva i cacciatori nemici oltre il ponte. Ma il nemico tornava numeroso e riprendeva intenso il suo fuoco d'artiglieria, sempre vivacemente controbattuto, quando alle sedici e mezzo le ostilità venivano sospese in seguito alla notizia della conclusione dell'armistizio. La difesa di Casale, diretta dal vecchio generale Solaro di Villanova, reduce napoleonico, e animata il 15 dall'avvocato e deputato casalese Filippo Mellana, giunto quale commissario regio da Torino, serviva ancora una volta a mostrare quanto valessero le forze popolari, solo che ci fosse stato chi sapesse e intendesse sul serio utilizzarle.

Le conseguenze

La prima campagna era durata quattro mesi, contrassegnata da episodi brillanti e da vittorie rimaste indimenticabili nel cuore di tutti gl'italiani; e la seconda, pur dopo un affannoso lavorio di otto mesi, si era risolta in quattro giorni, con gli episodi brillanti di Borgo San Siro, di Gambolò e della Sforzesca, ma con le due dolorose rotte di Mortara e di Novara. Pure, i soldati avevano fatto bravamente il proprio dovere, e in quei pochi giorni il duca di Genova, il generale Bes, il generale Perrone, e lo stesso duca di Savoia la sera del 23, si erano distinti, e così il generale Della Rocca alla Sforzesca e il generale Passalacqua a Novara. Il Perrone suggellava una vita nobilissima con una morte eroica e il Passalacqua cadeva da prode alla Bicocca alla testa della brigata Piemonte. Emersero poi tre colonnelli di fanteria, destinati ad un brillante avvenire, il Cucchiari del 4° Piemonte, il Cialdini del 23° parmense-modenese e il Mollard del 17° Acqui, nonché il colonnello Di Montevecchio del Piemonte Reale Cavalleria. Ma, ancora una volta, all'esercito era mancato un capo. Lo Chrzanowski, ricco di studi e d'esperienza, mostrò tuttavia di mancare in troppo grande misura delle qualità essenziali d'un capo: intuito e forza dì decisione. Il re Carlo Alberto non fu nemmeno in questa campagna un capitano; mostrò ancora una volta la sua fredda imperturbabile calma davanti al pericolo, si trovò spesso nei punti più esposti, cercò invano la bella morte redentrice sul campo di battaglia. Novara segnava per lui la conclusione catastrofica d'una politica quasi ventennale sbagliata; ma, ai tempo stesso, l'inizio della rinnovata fortuna della sua casa. Dopo troppe oscillazioni e incertezze, egli aveva trovato la sua vera via nel grande movimento nazionale italiano, pur senza comprenderlo appieno e saperlo di conseguenza guidare! Ma quando per la seconda volta era sceso in campo coi suoi figlioli, in un'impresa da molti giudicata disperata, egli e l'opera sua s'eran trovati finalmente all'unisono colla coscienza nazionale. La sconfitta di Novara preparava i decisivi trionfi dì dieci anni dopo, mentre l'esercito piemontese manteneva, pur nella sconfitta, il proprio onore e il proprio prestigio.



Tratto da: "Storia militare del Risorgimento", Piero Pieri, Torino, Einaudi, 1962