Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Battaglia di Novara

8 aprile 1821

Gli avversari

Vittorio Amedeo Sallier de la Tour, marchese du Cordon - Uomo politico (Chambéry 1774 - Torino 1858)

Militare nell'esercito sardo, combatté contro i rivoluzionari francesi; col ritiro dei Savoia in Sardegna, si arruolò nell'esercito inglese; alla restaurazione rientrò nell'esercito sardo col grado di generale; nel 1821 con le sue truppe e con quelle austriache disperse a Novara le forze costituzionali. Ministro degli Esteri (1822-34), rappresentò il Regno di Sardegna al Congresso di Verona (ott.-dic. 1822). Collare della Ss. Annunziata per la repressione del 1821, maresciallo di Savoia e (1834-48) comandante della divisione di Torino; senatore (1848), avversò la politica di Cavour.


Gaspare Domenico Regis (Costigliole Saluzzo, 22 aprile 1792 - Pinerolo, 15 novembre 1872) è stato un militare, politico e patriota italiano.

Gaspare Domenico Regis era membro di una nobile famiglia dell'aristocrazia piemontese. Intrapresa la carriera militare nell'ambito dell'esercito napoleonico, combatté le guerre della sesta e della settima coalizione antinapoleonica. Rientrato in patria, condusse una brillante carriera militare che lo portò alla nomina a Luogotenente colonnello dal 21 novembre 1831 e poi a Colonnello dal 9 settembre 1834, ricoprendo l'incarico di Ispettore della contabilità dei Corpi. Il 15 dicembre 1838 gli venne concesso il titolo di Conte. Nominato Maggiore generale il 16 novembre 1839, divenne poi Luogotenente generale e Membro del Congresso consultivo permanente di guerra. Il 14 ottobre 1848 fu nominato Senatore del Regno di Sardegna. Morì a Pinerolo nel 1872.

La genesi

Mentre la rivoluzione napoletana si spegneva soffocata dalle armi austriache, alle quali invero non aveva opposto quasi resistenza, un'altra ne scoppiava in Piemonte, e con lo stesso aspetto di movimento militare e settario. Il 10 marzo 1821, mentre gli austriaci, superata ormai la stretta di Antrodoco, movevano su L'Aquila, scoppiava il moto di Alessandria. Tanto il moto piemontese che quello napoletano furono soffocati dall'Austria; e tanto il primo che il secondo furono minati da una grave, per quanto assai diversa, scissione: a Napoli, dalla rivoluzione separatista siciliana, a Torino, dal fatto che più di metà dell'esercito si rifiutò di aderire al movimento costituzionale. Anche in Piemonte la resistenza militare all'austriaco invasore fu minima, ma quivi si trattava dì combattere non solo contro gli austriaci, ma pure contro gli stessi commilitoni piemontesi; e la sproporzione delle forze dalle due parti era ben maggiore. Il primo movimento durò otto mesi e mezzo ed ebbe modo di svolgersi; il secondo non durò che trentatré giorni, subito schiantato dall'opposizione del nuovo sovrano e dall'intervento austriaco. Entrambi ebbero la triste conseguenza di veder cadere gravemente il prestigio militare dei due maggiori eserciti della penisola; cosicché il valore guerriero degl'italiani, riaffermatosi dopo secoli di servitù nelle guerre napoleoniche, parve subire un nuovo ben doloroso tracollo. A noi interessa soprattutto, al solito, di vedere il carattere guerriero della rivoluzione e di spiegare il fallimento di questa nel campo militare. Fatto notevole, in Piemonte la rivoluzione costituzionale parve subito legarsi alla guerra all'Austria e alla liberazione della Lombardia. Mentre il grosso delle forze austriache era impegnato nell'impresa di Napoli - e si aveva ragione di sperare per lo meno in una lunga resistenza fra i monti -l'esercito liberatore piemontese sarebbe penetrato in Lombardia, d'accordo coi federati lombardi le popolazioni sarebbero insorte, i veterani delle guerre napoleoniche, ufficiali e soldati, sarebbero tornati numerosi all'appello: la rivoluzione avrebbe potuto dilatarsi sempre più nel Veneto, nei Ducati, nelle Romagne! I costituzionali piemontesi speravano di trascinare il re a concedere la costituzione e a dichiarare la guerra all'Austria. A quell'Austria che nel 1799 s'era mostrata ben pronta a ingoiare anche il Piemonte e che nelle trattative di Vienna del 1814-15 aveva cercato di ricuperare, se non altro, la val d'Ossola; e appariva quindi più che mai infida e pericolosa. In questo modo la rivoluzione avrebbe continuato, in parte almeno, la secolare politica sabauda di espansione nell'Italia settentrionale, «cogl'anni e col Po». C'era un'altra circostanza che spingeva i Savoia a diffidare dell'Austria. Nel 1815 era stato definitivamente sanzionato un fatto importante: la scomparsa della repubblica di Venezia. L'Austria, dunque, non aveva più da temere alle sue spalle, in caso d'azione contro il Piemonte; e il re Vittorio Emanuele I non poteva non preoccuparsi di ciò. I migliori in Piemonte non intendevano però solo accodarsi al monarca, ma partecipare alla vita dello Stato ed essere a parte della determinazione dei suoi destini. Era questa la naturale evoluzione e trasformazione della società, e avrebbe dovuto esserlo pure da parte della monarchia. Il desiderio di riforme portava a considerar queste come un mezzo, uno strumento di guerra all'Austria, e un mezzo quindi anche per accrescere la gloria e il prestigio di Casa Savoia. All'idea di riforma, prima necessaria base alla maggiore impresa, aderivano anche figli di ministri e rappresentanti dell'aristocrazia. Non deve far quindi meraviglia che la propaganda segreta degli Adelfi, che sembravano aver riunito tutte le forze settarie del regno, come i Guelfi nello Stato pontificio e i Carbonari nel Napoletano, si estendesse anche nell'esercito; sebbene in Piemonte la diffusione delle sette fosse di gran lunga minore che nel Napoletano. Numerosi reduci delle campagne napoleoniche erano stati riammessi a poco a poco nell'esercito e, insieme con la lunga esperienza e capacità professionale, avevano portato lo spirito antiaustriaco e il disprezzo per quell'esercito che essi tante volte avevano visto in rotta davanti a sé.

Nel tardo pomeriggio del 6 marzo 1821, il marchese Carlo Asinari dì San Marzano, il conte Santorre di Santarosa, il conte Guglielmo Moffa di Lisio e il conte Giacinto Provana di Collegno, sono introdotti segretamente nella biblioteca di Carlo Alberto e quivi, alla presenza del marchese Roberto D'Azeglio, fratello maggiore del futuro famoso romanziere, gli comunicano in gran segretezza il piano della cospirazione, che ha per fine la libertà e l'indipendenza d'Italia, e lo esortano quindi a unirsi a loro per ottenere dal re una costituzione moderata, nel comune interesse della dinastia e dell'Italia. Si può ritenere che il principe di Carignano promettesse di farsi mediatore fra il re e i cospiratori per una costituzione siciliana o francese, e specialmente per la guerra contro l'Austria. Dopo il colloquio col principe i cospiratori decidono di dedicare il domani agli ultimi preparativi della rivoluzione, che dovrà iniziarsi l'8 mattina coll'occupazione delle cittadelle d'Alessandria e di Torino, accompagnata quest'ultima da una grande dimostrazione di popolo a Moncalieri, per indurre il re a concedere pacificamente la costituzione. Ma il giorno dopo Carlo Alberto insiste con il San Marzano e con il Collegno perché il moto sia sospeso. I congiurati fanno noto a Carlo Alberto che il moto è rimandato. Ma la mattina dell'8 si sparge la voce che il principe è sempre favorevole, e allora a sera altro colloquio del Santarosa con il Carignano: questi promette soltanto di non ostacolare la rivoluzione, poi, preso da scrupoli e dubbi, fa sapere che si opporrà decisamente. Il 9 mattina terzo colloquio del Santarosa col prìncipe, il quale sempre più lepidamente consente a non ostacolare il moto. Allora il Santarosa decide per la seconda volta di sospendere l'azione, tanto più che Carlo Alberto subito dopo ha dato ordini per impedirla. Ma se a Torino i congiurati paiono decisi a rimandare l'impresa a tempo indeterminato, ad Alessandria, ove prevalgono gli elementi carbonari più accesi, si è risoluti ad andare avanti. A tarda sera del 9 marzo vengono riuniti dai cospiratori numerosi ufficiali e sottufficiali della brigata Genova e viene loro comunicato dal colonnello Guglielmo Ansaldi e dal capitano Isidoro Palma, che si presentano come delegati speciali di Carlo Alberto, un manifesto che li invita a porsi attorno al principe di Carignano. Aggiungono che questi si è portato a Moncalieri per far sottoscrivere al re la costituzione, che il re l'ha tosto concessa e che il principe giungerà ad Alessandria con molta artiglieria fra poche ore. Il comandante della cittadella viene pure persuaso con tali notizie; nella notte la truppa (brigata Genova e reggimento Dragoni del Re) è fatta levare, mentre elementi della brigata Savoia sono stati dislocati un po' lontano, e insieme con un battaglione di federati armati occupa la cittadella. Subito è costituita una giunta di governo provvisoria, presieduta dal colonnello Ansaldi e sulla fortezza è issato non il tricolore carbonaro, come a Napoli, ma il tricolore italico, bianco, rosso e verde. Al tempo stesso, però, si proclama la costituzione di Spagna tanto cara ai carbonari: errore gravissimo, che la Santa Alleanza avrebbe forse permesso una costituzione di tipo francese, inglese o siciliano, non mai la dottrinaria e demagogica costituzione di Spagna, permeata di diffidenza verso il sovrano; né Vittorio Emanuele I sarebbe stato disposto ad approvarla. Ma ciò era conseguenza del fatto che gli elementi più avanzati prendevano l'iniziativa del movimento.

Mentre il moto riusciva ad Alessandria, un altro tentativo naufragava a Possano. Il tenente colonnello conte Morozzo di Magliano partecipe della congiura, aveva chiesto al suo colonnello di portare a Torino lo squadrone disponibile, a protezione del re. Egli pensava di poter trascinare i soldati dalla parte costituzionale, appena un po' lontani dal loro colonnello, ma questi, pur consentendo all'invio dello squadrone, avvertì il ministero della cosa, e gli fu risposto che non occorrevano altre truppe. Così il piano del Morozzo naufragò. Eppure proprio questo episodio ebbe un'influenza decisiva sui congiurati di Torino! Quivi infatti si sparse la voce che lo squadrone già era in moto: il fatto ricordava un po' lo «squadrone sacro» di Noia; si dovevano abbandonare a sé quegli animosi? Prevalse il partito che ormai il dado era tratto e che occorreva che i capi si gettassero allo sbaraglio per cercare di contenere e dirigere il movimento. Il San Marzano si dirigeva verso Vercelli, il Collegno ad Alessandria, il Santarosa e il Lisio a Pinerolo. Quivi i due ultimi traevano a sé 300 cavalleggeri, e con quelli movevano anch'essi verso Alessandria, raggiunti per via dal San Marzano, che a Vercelli non era riuscito a far proseliti fra i soldati. L'11 marzo la piccola colonna entrava nella città: il governatore era partito poco prima con un certo numero di truppe e di ufficiali rimastigli fedeli. L'Ansaldi assunse ora il comando della divisione di Alessandria, il Collegno della fortezza, il Santarosa della Guardia Nazionale.

Il re, frattanto, da Moncalieri s'era portato a Torino: la sera del 10 marzo, in un consiglio della Corona, si decise in massima di concedere una costituzione di tipo francese o inglese, ma in modo che non sembrasse una concessione a pronunciamenti militari. La mattina dell'11 un proclama del sovrano invita a desistere dal moto, e sembra che esso stia per estinguersi. Il capitano Vittorio Ferrero muove da Carignano su Torino con poco più di 100 soldati, e al mattino compare davanti a Porta Nuova. A lui si uniscono un centinaio di studenti e altri borghesi armati nel modo più vario, mentre le forze governative li fronteggiano con le armi al piede. I ribelli innalzano sotto i loro occhi la bandiera Carbonara e proclamano la costituzione spagnola, al solito grido di «Viva il Re e guerra all'Austria! » Molti popolani e curiosi sono accorsi allo strano spettacolo, ma la città non si è mossa: verso sera il Ferrero, deluso, decide di ritirarsi anch'egli su Alessandria. La corte ritiene che la rivoluzione si stia spegnendo e passa di colpo dalla grande longanimità all'intransigenza più assoluta. Per di più, giunge da Lubiana il marchese di San Marzano (padre del fiero assertore del principio costituzionale) e fa sapere che tutti i monarchi d'Europa sono decisi a opporsi al flagello della costituzione spagnola. E allora, la mattina del 12, nuovo proclama del re: nessuna costituzione, che le potenze di Lubiana mai riconoscerebbero; agli autori del movimento costituzionale la responsabilità di un'eventuale invasione austriaca del Piemonte.

Conseguenza del secondo proclama, la ribellione della cittadella di Torino. Vi si trovano di presidio 3 compagnie di fanti e 3 di fidatissimi granatieri della Guardia, mandate li' da poco per misura di sicurezza, ma i granatieri sono vennero immediatamente disarmati col pretesto di una rivista del corredo, e proprio in quel momento scoppia la rivolta. Il comandante della cittadella, colonnello Des Geneys, subito accorso ad affrontare gli insorti, cade ucciso da un sergente. I granatieri danno allora di piglio alle armi, ma ormai i rivoltosi occupano i punti più importanti e 3 pezzi d'artiglieria potrebbero far strage delle truppe fedeli. Il capitano Gambini assume il governo della cittadella e fa inalberare il tricolore carbonaro, mentre sui bastioni un nucleo di federati borghesi proclama la costituzione spagnola. Intransigenza e cocciutaggine dalle due parti; e il paese presto ne avrebbe pagato le spese! Ormai, con le cittadelle di Alessandria e di Torino in mano dei ribelli, non restavano al re che due partiti: mettersi a capo delle numerose truppe fedeli e procedere risolutamente contro i rivoltosi, oppure abdicare. Vittorio Emanuele I parve deciso al primo partito: lasciare Torino, unirsi alle truppe fedeli, raccoglierne altre attorno a sé e poi tornare verso la capitale. Ma prevalsero i consiglieri più intransigenti e retrogradi, fautori del principio tanto peggio tanto meglio, e desiderosi in cuor loro che l'Austria intervenisse per far piazza pulita di tutto e ristabilire per davvero la situazione. Così, prima della mezzanotte di quel fatale 12 marzo, il re firmava l'atto di abdicazione, a favore implicitamente del fratello Carlo Felice. Ma questi già al mattino del 4 marzo s'era messo in viaggio alla volta di Modena per salutarvi, si disse, il suocero reduce da Lubiana (Carlo Felice aveva sposato Maria Cristina, figlia di Ferdinando dì Borbone), ma anche verosimilmente, come asserì un apologista, « per non trovarsi al fianco del Re nel momento in cui doveva prendere, sotto la sua responsabilità, decisioni in un modo o nell'altro di eccezionale importanza». Di conseguenza, Vittorio Emanuele I affidava la reggenza al principe Carlo Alberto, che invano aveva cercato di sottrarsi a così grave incarico. E all'alba del 13 il vecchio re se ne partiva per Nizza, scortato dal generale Gifflenga, lasciando lo Stato in preda all'incipiente anarchia, sotto la reggenza d'un giovane e inesperto principe, già compromesso, a ragione o a torto, nella comune opinione, verso i rivoltosi.

Quello stesso 13 marzo, Carlo Alberto, abbandonato dai ministri del vecchio regime, tutti dimissionari, e dai loro primi segretari, pressato prima da una deputazione di federati, poi dai civici decurioni col sindaco e da molti altri cittadini e federati e dietro la minaccia d'un bombardamento della capitale, si rassegnava a concedere la costituzione spagnola; il giorno dopo un editto confermava la cosa, salve le modificazioni che alla costituzione avrebbero apportato il parlamento e la corona. Il 14 il principe componeva il nuovo ministero: tutte persone rette e oneste ma limitate, non adatte al difficile momento. E, sempre il 14, egli creava una giunta provvisoria, di quattordici e poi di ventotto membri, in luogo del parlamento finché non fosse convocato, tutti scelti fra nobili o alti funzionar! piemontesi, ma anch'essi incerti e irresoluti. In realtà ministero e giunta eran formati da elementi moderati o conservatori, ostili alla costituzione spagnola e alla piazza che, sia pure contro lor voglia, li aveva portati al potere. E meno che mai erano propensi a una guerra all'Austria, mentre essa vinceva nel Napoletano; e perciò gli apprestamenti militari, in un paese in cui la massa dei contadini, ossia dei riservisti, era indifferente od ostile alla rivoluzione, furono lenti e fiacchi. Si decretò l'armamento della Guardia Nazionale e la chiamata dei contingenti provinciali di fanteria; il 17 marzo era decretata la costituzione di 6 battaglioni di truppa leggera, di 800 uomini ciascuno, tutti volontari. Si aveva ora un ministero a Torino, una giunta pure a Torino, e una giunta ad Alessandria. Ma se poco si faceva di conclusivo per la guerra in Piemonte, anche meno si faceva in Lombardia. Il Gonfalonieri si era ammalato proprio nei momenti più delicati e si trovava adesso convalescente, gli austriaci si erano preoccupati poco della rivoluzione piemontese, tanto sembrava intempestiva, per non dire assurda; ma quando essa fu scoppiata, mostrarono di spaventarsi assai: ruppero i ponti sul Ticino, posero quante truppe poterono a guardia del fiume, cosicché in Milano non rimasero che 3000 uomini. Ma nessun segno dì rivolta appariva, e solo alcuni studenti dell'università di Pavia erano corsi ad Alessandria. I cospiratori provarono a persuadere l'Imperiale e Regio Governo a concedere una Gurdia Nazionale per l'eventuale mantenimento dell'ordine, ma inutilmente. A Brescia, i congiurati meditarono atti audaci, quali la cattura dì convogli, o un colpo di mano sopra Peschiera; ma poi tutti conclusero che il meglio era aspettare le mosse dei piemontesi. E allo scopo, appunto, di affrettarle, alcuni federati lombardi si recavano a Novara e a Torino. Il 16 marzo il dottor Gaetano de Castiglia, il marchese Giorgio Pallavicino e il marchese Giuseppe Arconati Visconti si presentavano a Carlo Alberto, esortandolo a passare il Ticino. Egli li ricevette con grande cortesia ed espresse caldi sensi d'italianità, ma aggiunse che il Piemonte non era pronto e che la guerra non presentava più nessuna probabilità di successo. Tuttavia, a salvaguardia del regno e per ogni evenienza, avrebbe fatto avanzare alcune truppe verso il Ticino. Ebbene, anche queste limitatissime dichiarazioni erano interpretate come promesse rassicuranti! Erano i giorni in cui il Manzoni componeva il commovente Marzo 1821, coi fatidici versi: «Già le destre hanno strette le destre | Già le sacre parole son porte: | O compagni sul letto di morte, O fratelli su libero suoi ». Ma in realtà quasi nessuno pensa seriamente alla guerra. A Torino parrebbe che colla facile vittoria sul vecchio re la parte più difficile già fosse compiuta; e la stampa, divenuta all'improvviso libera, si sfoga in esaltazioni retoriche, proprio mentre le forze costituzionali del regno di Napoli stanno andando in sfacelo! Per di più la giunta di Alessandria fa della bassa demagogia, permettendo che i soldati si eleggano gli ufficiali, stabilendo aumenti di vitto e di soldo, diffondendo notizie fantastiche circa la guerra nel Napoletano. Gli elementi migliori, come il Santarosa, si trovano per così dire prigionieri dell'ingranaggio, nel quale si sono venuti a mettere: invece di dominare la rivoluzione ne sono trascinati! A Torino l'altra giunta cerca soprattutto d'intralciare la strada a quella di Alessandria. Carlo Alberto e il Santarosa, trascinati entrambi, si ostacolano a vicenda, bramosi di trovar presto una decorosa via d'uscita! Ma ormai il giovane principe non la vede che in una controrivoluzione, che eviti almeno l'onta dell'occupazione straniera. E questa, prima ancora che dalle potenze, è affrettata dal nuovo re Carlo Felice. Costui dichiara di non riconoscere l'abdicazione del fratello, intima al prìncipe di Carignano di partire subito per Novara e di attendervi ordini. A Novara il generale Vittorio de La Tour, comandante della divisione, era rimasto fedele alla corona, poi aveva accettato a malincuore gli ordini della reggenza, che lo mettevano a capo delle forze a difesa del Ticino. Ora gli giunge il 17 da Carlo Felice l'ordine di formare in Novara una luogotenenza generale del regno, in attesa che Vittorio Emanuele I rinnovi « in stato perfettamente libero» l'abdicazione; ai sudditi raccomanda di mantenersi fedeli, in attesa del soccorso degli alleati. Questi ordini sono mandati al La Tour per il tramite degli austriaci; la reggenza di Torino è sconfessata e misconosciuta, senza che Carlo Felice nemmeno la degni d'una comunicazione. Deplorevole, in verità, un simile contegno e un simile procedere. Egli avrebbe dovuto correre subito a Torino, rendersi conto della situazione, fronteggiare gli avvenimenti: in tal modo avrebbe dato prova di coraggio, d'energia e, all'occorrenza, di pronto intuito. Invece, dopo essere corso a Modena colla scusa di salutare il suocero, proprio in un momento in cui sullo Stato s'addensavano gravi nubi, ora colla scusa che l'abdicazione del fratello non era spontanea, se ne stava al sicuro a Modena, mentre poi compieva un atto d'autorità - e quale - invocando contro il suo paese l'intervento straniero e scagliando fulmini contro il giovane cugino, lasciato solo a risolvere una situazione quanto mai difficile. Ma vi e' di più: Carlo Alberto già per conto suo pensava a compiere la controrivoluzione, appoggiandosi agli elementi conservatori moderati e alle truppe rimaste fedeli; Carlo Felice interrompeva bruscamente quest'opera, che avrebbe evitato l'intervento straniero e non esitava a porre sé e i propri stati nelle mani dell'Austria. A Torino Carlo Alberto convoca a consiglio i ministri vecchi e nuovi: tutti insistono perché egli non abbandoni la reggenza in circostanze tanto gravi. Egli accondiscende, e il giorno dopo, 18 marzo, dichiara sciolta la giunta di Alessandria. Ma le dimostrazioni di piazza continuano e il principe di Carignano, il 21 sera, esce a cavallo da Torino col fido marchese Costa di Beauregard e con uno scudiere. I tre traversano Torino, si uniscono secondo il convenuto ai cavalleggeri di Savoia e insieme procedono fino a Rondissone, presso la Dora Baltea. Il principe di Carignano vi resta tutto il 22, riunendo truppe fedeli accorse da varie parti, e nella notte del 21 raggiunge finalmente Novara; qui Io sventurato depone la reggenza, con un proclama in cui dichiara di volersi mostrare primo sulla strada dell'onore che Carlo Felice gli addita. A Torino, il 22, la giunta si costituisce in governo permanente. Ma ben tosto due terzi dei suoi membri si dileguano e gli altri rimangono molto incerti sul da farsi. In realtà, le truppe costituzionali in Torino non superano i 1000 uomini, più una scarsa e male organizzata Guardia Civica. Il principe della Cisterna e il marchese di Prie, imprigionati come abbiamo visto e poi liberati, riprendono la via di Francia. Alla fine la giunta decide di tenere il governo solo fino a nuovi ordini del reggente o di Carlo Felice. Ma a ciò tenta opporsi il Santarosa, fatto da Carlo Alberto ministro della Guerra come compenso per lo scioglimento della giunta di Alessandria. Il fiero patriota propone che la giunta torinese si trasferisca in Alessandria, e il 23 pubblica un proclama in cui, constatata la partenza di Carlo Alberto, «ingannato da pochi uomini disertori della Patria e lìgi all'Austria», esorta i soldati alla guerra di liberazione in Lombardia; quanto a Carlo Felice egli è prigioniero a Modena degli austriaci. Al tempo stesso, però, da Alessandria si pubblica un proclama famoso per la sua sfrontatezza : gli austriaci sono stati sbaragliati dai napoletani, i quali in breve porteranno il loro fraterno aiuto, e inoltre le valli bresciane sono in piena sollevazione. Ormai il Santarosa, spinto allo sbaraglio da una situazione che non approva in cuor suo, ma che neppure si sente di sconfessare apertamente, prende ad agire non solo come ministro della Guerra, ma come dittatore, ordinando la radunata di tutte le forze in Alessandria, per l'offensiva verso la Lombardia. Egli, vittima della giunta d'Alessandria, diviene a sua volta un estremista, a sostegno del programma più nobile anche se utopistico della rivoluzione: la guerra all'Austria per la liberazione della Lombardia.

Intanto anche a Genova scoppiava l'insurrezione. Un infelice proclama del reazionario governatore, ammiraglio Des Geneys, gongolante per le disposizioni date da Carlo Felice, parve una provocazione, e si temé pure che egli sì adoperasse per consegnare Genova agli austriaci in caso di guerra. I tumulti, in gran parte di studenti, cominciarono il 21; il 22 divennero più gravi: a sera due colpi d'artiglieria a mitraglia sui dimostranti cagionarono due morti e vari feriti. Ciò non valse però a far tornare la calma; anzi il 23 una parte del presidio passava ai rivoltosi e il governatore, sceso per arringarli, fu percosso e salvato svenuto grazie ad alcuni studenti. Allora egli deponeva il potere nelle mani dei dodici commissari di governo, da lui designati, ma graditi ai cittadini. In questo modo si avevano nel regno il governo di Genova, la giunta di Alessandria mai sciolta in effetto, e la giunta di Torino; e questo proprio mentre il 23 un proclama di Carlo Felice, sempre dalla sicura Modena, stabiliva tre governatori generali, al posto della defunta reggenza, e precisamente uno a Novara, rappresentato dal La Tour, uno a Genova nella persona del Des Geneys, e uno in Savoia in quella del conte Salmour. Dunque, tre governi rivoluzionari e tre governi reazionari La giunta di Torino provvedeva però dal canto suo a unificare il comando, sciogliendo definitivamente la giunta di Alessandria ed accogliendo il fatto compiuto della rivoluzione di Genova: in questo modo la giunta di Torino, o meglio il Santarosa, restava a capo della rivoluzione. Ma pure i giorni di essa erano ormai contati! I presidi di Cuneo e di Nizza si mantenevano tenacemente fedeli al re: le forze rivoluzionarie erano inferiori numericamente a quelle regie! Intanto interveniva la Santa Alleanza: il 14 marzo i tre sovrani stabilivano di rinforzare fino a 90.000 uomini le milizie austriache in Lombardia, e di tener pronti 100.000 russi di riserva alla frontiera galiziana. Il 22 le potenze accordavano l'aiuto di 15.000 austriaci, chiesto da Carlo Felice. Da parte dei costituzionali continuavano i preparativi guerreschi, mentre quelli d'Alessandria e gli altri di Torino non riuscivano a mettersi d'accordo. Ormai le truppe fedeli andavano concentrandosi in Novara e le costituzionali in Alessandria. Ma i richiamati per la guerra all'Austria disertavano a torme dai depositi, mentre gli austriaci si andavano ammassando sul Ticino. Falliva il tentativo di mediazione russa e il La Tour, in base agli ordini di Carlo Felice, dichiarava che avrebbe concesso amnistia ai soldati e ai sottufficiali, e a tutti gli altri il solo passaporto per l'esilio. Dal canto suo, Carlo Alberto il 30 aveva dovuto lasciar Novara per recarsi a Modena, dove l'iracondo parente non lo riceveva, ordinandogli di proseguire per Firenze presso il suocero, granduca di Toscana. Il 3 aprile un proclama di Carlo Felice, sempre da Modena, dichiarava ribelli tutti i rivoluzionari, traditori gli ufficiali e prometteva l'amnistia ai soli soldati! Proclama che parve eccessivo persino a Vienna! Ormai la decisione era affidata alle armi, e il Metternich scriveva baldanzosamente il 31 marzo: «Le cose del Piemonte finiranno allo stesso modo che a Napoli. Solo una rivoluzione francese potrebbe opporci un ostacolo insormontabile». In tutta fretta la giunta di Torino decretava l'organizzazione di un settimo battaglione di cacciatori volontari e di un ottavo battaglione di truppe leggere col nome di «Veliti italiani», pure di volontari. In realtà i rivoluzionari, diminuiti grandemente dalle diserzioni degli ultimi giorni, contavano circa la metà delle forze regie quanto a truppe con vera capacità operativa, ossia da 3 a 4000 uomini. Essi vennero divisi in due gruppi, agli ordini dei colonnelli San Marzano e Morozzo di Magliano, sotto l'alto comando del colonnello Regis. Le forze furono concentrate a Casale, poi passarono il Po. Dal canto suo, il La Tour si disponeva a muovere da Novara su Torino, sperando in tal modo di poter evitare l'intervento austriaco, d'accordo in questo col comandante delle forze austriache, generale Bubna. Il 6 aprile le avanguardie delle forze regie, in cammino verso Torino, e di quelle costituzionali, in marcia su Novara, vennero a trovarsi vicine presso Vercelli. Il La Tour, volendo evitare uno spargimento dì sangue, si ritrasse allora su Novara, ma avvertì i costituzionali che se essi fossero venuti avanti ancora, passando la Sesia, l'austriaco Bubna avrebbe varcato il Ticino. Era l'ultimo sforzo per evitare almeno l'invasione straniera, che gli austriaci sapevano molto sgradita alla Francia. Ma il Regis non volle ascoltar nulla e proseguì da Vercelli verso Novara, nella speranza che, di fronte allo straniero invasore, le truppe regie avrebbero fraternizzato coi suoi. E la sera del 7 aprile sì accampava sull'Agogna, a tre chilometri da Novara; se non che, nella stessa giornata, 8000 austriaci avevano passato il Ticino e stavano pure marciando su Novara. Erano dunque di fronte forse 3000 fanti, 1000 cavalieri e 6 cannoni dei costituzionali contro 10 battaglioni di fanteria, 1500 cavalieri e quasi tutta l'artiglieria piemontese: non meno di 8000 uomini, con altrettanti austriaci a loro sostegno. La lotta avrebbe avuto possibilità di successo solo se i regi sì fossero uniti ai costituzionali e se avesse cominciato a divampare la guerra partigiana; che anche altri 7000 austriaci avevano passato il Ticino, presso Abbiategrasso e Pavia. Erano così 23.000 uomini contro 4000, senza contare una terza schiera austriaca che da Piacenza puntava su Tortona, minacciando a un tempo Alessandria e Genova.

Le forze in campo

I costituzionali disponevano dei 4 reggimenti di linea, sempre dì 2 battaglioni ciascuno. Saluzzo, Monferrato, Genova e Alessandria, dei 2 battaglioni dei cacciatori italiani, dei 2 della legione leggera del corpo franco e del battaglione dei cannonieri di marina: 15 battaglioni in tutto, della forza di 450 uomini ciascuno; di 1900 soldati di cavalleria e dì 6 cannoni. Gli 8 battaglioni di cacciatori volontari non erano ancora utilizzabili. Per di più, occorreva provvedere a tener guarnite le principali città: così il reggimento Genova era nella cittadella d'Alessandria, i cacciatori italiani erano in Genova, dove il reggimento Regina, padrone dei forti, non aveva ancora aderito alla causa costituzionale; il reggimento d'Alessandria e i 2 battaglioni della legione leggera stavano a Torino, cosicché ai costituzionali rimanevano da utilizzarsi in campò aperto: il reggimento Monferrato, il reggimento Saluzzo, 3 compagnie del reggimento Genova, 4 compagnie della legione reale leggera, i reggimenti di cavalleria Dragoni della regina, cavalleggeri del re, Dragoni del re, cavalleggeri di Piemonte, e infine un battaglione d'artiglieria dì marina. In totale, 2300 uomini di fanteria; 1080 cavalieri montati, e 450 uomini d'artiglieria con 6 pezzi. Il La Tour disponeva in Novara del reggimento granatieri guardie, dei reggimenti Piemonte, Aosta, Cuneo, di 2 battaglioni della legione reale leggera, dei reggimenti di cavalleria Piemonte Reale, cavalleggeri Savoia e 4 squadroni del cavalleggeri Piemonte, di 185 carabinieri a cavallo e 112 a piedi, di 137 guardie del corpo, e di 18 cannoni: in tutto 5300 uomini di fanteria, 1700 a cavallo, 170 artiglieri a piedi, circa 7000 uomini complessivi.

La battaglia

Il La Tour aveva collocato sui bastioni, a difesa della città, un battaglione delle guardie, il reggimento Cuneo e la Legione Real leggera, i carabinieri, le guardie del corpo e le 2 batterie da campagna; e fuori della città, dal lato del Ticino, le rimanenti forze: l'altro battaglione delle guardie nel cimitero di San Nazario; a destra, e colla fronte a mezzodì, il Piemonte Reale Cavalleria colla batteria a cavallo; dall'altro lato, il reggimento d'Aosta e i 2 di cavalleggeri. In questo modo, egli si teneva pronto a prendere dì fianco i costituzionali che avessero cercato di penetrare nella città. Nel caso che, per la defezione di parte delle truppe, i costituzionali fossero potuti penetrare nella città, il cimitero, trasformato in un ridotto, offriva un rifugio ove sostenersi sino all'arrivo degli austriaci. Ma già nella notte 2000 austriaci avevano varcato il Ticino più a sud, all'altezza di Abbiategrasso, e si erano venuti a collocare a un miglio di distanza dal reggimento Piemonte, fuori di Novara. Alle prime luci il Regis dall'Agogna muoveva verso Novara, dal lato meridionale, mirando a occupare il sobborgo di San Martino e la Bicocca, destinata a divenire tanto famosa nel 1849. Ma subito la destra dei federati si vedeva assalita dalla cavalleria austriaca e dai cacciatori tirolesi, mentre, alla loro sinistra, dalle mura di Novara tuonava il cannone dei regi, e i cacciatori della legione reale li attaccavano al centro al grido di «Viva il Re! » Il San Marzano con 2 cannoni e sostenuto da una compagnia del Monferrato, cercava a destra di far fronte alla cavalleria austriaca, mentre il Regis retrocedeva, protetto da una debole retroguardia, verso l'Agogna. Ma la cavalleria austriaca avanzava e così pure la legione leggera reale: la retroguardia costituzionale era presto respinta, malgrado il valore di un battaglione del Monferrato e di alcuni dragoni della regina. Il nemico incalzante varcava l'Agogna, inseguendo i costituzionali, che retrocedevano lungo lo stradone di Vercelli, profondamente demoralizzati, dopo svanita l'illusione d'essere accolti come fratelli dai regi. Il primo battaglione Monferrato continuava a proteggere la ritirata, ma circuito dai cacciatori tirolesi e dagli ussari imperiali, alla fine era in gran parte fatto prigioniero. La ritirata si mutava in fuga disordinata fino a Borgovercelli, presso la Sesia. Quivi, però, il capitano Lisio coi suoi cavalleggeri e il capitano Rolando con una sessantina di dragoni del re caricavano le baldanzose schiere avanzate nemiche. Cosicché il grosso dei fuggiaschi poteva passare la Sesia e giungere a Vercelli. Ma gli austriaci e i regi pur sempre inseguivano e alle quattro del pomeriggio occupavano la città. Ormai le forze costituzionali erano in pieno dissolvimento; e solo pochi resti potevano raccogliersi a Crescentino e a Chivasso, nella speranza di raggiungere poi Alessandria. Così miseramente finiva la lotta da parte dei costituzionali. Le perdite furono minime: circa una trentina d'uomini fra morti e feriti dall'una parte e dall'altra; i costituzionali ebbero poi 250 prigionieri.

Le conseguenze

Mentre a Borgovercelli i capitani Lisio e Rolando, coi loro cavalieri, tentavano di salvare l'onore della rivoluzione, un tenente colonnello, un maggiore e due capitani costituzionali passavano agli usseri austriaci! In realtà, tutto era perduto, tosto che i soldati, ai quali s'era fatto credere in una immancabile fraternizzazione delle forze del La Tour, si videro accolti a cannonate e a fucilate da queste, mentre usseri austriaci e cacciatori tirolesi pure li assalivano. Il reggimento Alessandria, che da Torino il Santarosa aveva mandato verso Novara, si sottomise presso Vercelli ai regi; altre forze di presidio in Piemonte dichiararono di non voler più combattere contro le truppe del re. Il Santarosa mostrò tuttavia fermezza e coraggio, in mezzo al generale dissolvimento. Egli avrebbe voluto con la giunta portarsi ad Alessandria e, se necessario, a Genova e li prolungare la lotta; ma non ebbe seguito: la giunta si sciolse, lasciando il governo dello Stato al corpo decisionale di Torino. Il 10 aprile i regi ritornavano trionfalmente in Torino, mentre gli austriaci marciavano su Alessandria, dove entravano il giorno dopo: la guarnigione s'era sbandata e solo in pìccola parte raggiungeva Genova. Il Santarosa e molti dei più compromessi riparavano a Genova e lì prendevano la dolorosa via dell'esilio. Il dramma costituzionale piemontese era finito; ora cominciava, qui come a Napoli, e più o meno in tutta Italia, la tragedia delle persecuzioni e delle vendette.



Tratto da: "Storia militare del Risorgimento", Piero Pieri, Torino, Einaudi, 1962