Battaglie In Sintesi
429 a.C.
Stratego ateniese. Nel 440-39 comandò insieme con Agnone e con Tucidide 40 navi mandate in soccorso di Pericle che assediava Samo. Fra la guerra di Samo e la guerra di Corcira si deve collocare l'invio di 100 navi sotto il suo comando in aiuto degli Acarnani ch'erano in lotta con gli Argivi. Nel 432 (autunno) Formione, inviato con 1600 opliti a Potidea, dopo aver cinto d'assedio la città, si diede a devastare la Calcidica e la Bottica riuscendo anche a prendere qualche piccola piazzaforte. Stratego nel 430-29 fu mandato (inverno) con 20 navi a Naupatto per sorvegliare l'imbocco del golfo di Corinto. Nell'estate del 429 costrinse a battaglia 47 navi peloponnesiache che tentavano di uscire dal golfo e con abile manovra riuscì a vincerle. Nella medesima estate vinse presso Naupatto una parte della flotta nemica, impedendo che per il momento forzasse lo stretto e annullando così l'effetto del successo che, in grazia della notevole superiorità numerica, essa aveva dapprima ottenuto. Nell'inverno 429-28 da Naupatto, ove si trovava, penetrò con 800 opliti nell'interno dell'Acarnania per scacciarne gli elementi ostili agli Acarnani e agli Ateniesi. Nella primavera del 428 tornò ad Atene e probabilmente poco dopo morì.
I Lacedemoni intanto spediscono Timocrate, Brasida e Licofrone per consiglieri a Cnemo nel governo della flotta, con ordine di procurar miglior esito ad un secondo combattimento navale, e non lasciarsi da picciol numero di navi toglier l'uso del mare. Conciossiaché quella disfatta pareva loro molto strana (tanto più perché era la prima volta che avevano sperimentato combattimento navale), e l'attribuivano non tanto alla minoranza della loro flotta, quanto a non so qual poco ardire dei combattenti; né bilanciavano l'antica perizia degli Ateniesi col loro recente esercitamento. Però adirati spedirono coloro, i quali giunti colà d'accordo con Cnemo con avviso circolare intimavano a ciascuna città di dar le navi, e racconciavano quelle di prima disposti di venire ad una seconda battaglia. Formione anch'egli dal canto suo manda agli Ateniesi gente ad annunziare i preparamenti dei Lacedemoni, e ragguagliarli della riportata vittoria; ed instava che gli spedissero sollecitamente più navi potevano, perché ogni giorno v'era da aspettarsi di dover combattere per mare. Essi ne mandano venti, ordinando però al capitano che le conduceva di arrivar prima a Creta: perché Nicia di Gortinia, cretese, pubblico ospite degli Ateniesi, li confortava ad andare colla flotta a Cidonia, assicurandoli che ridurrebbero in potestà loro quella città nemica. Brigavasi egli di ciò per far cosa grata ai Polieniti confinanti coi Cidoniati. Il capitano adunque, tolte seco le navi, andò a Creta, ed insieme cò Polieniti saccheggiò le terre dei Cidoniati. I venti poi e la difficoltà di riprender mare lo costrinsero a trattenersi non poco tempo.
Intanto che gli Ateniesi erano ritenuti a Creta, i Peloponnesi che stanziavano a Cillene apparecchiati per la battaglia di mare, si spinsero colla flotta sino a Palermo dell'Acata, ove dalla parte di terra erano già venute in rinforzo le genti del Peloponneso. Similmente Formione passò da Naupatto a Rio di Molicro, e al di fuori di questo promontorio si tenne sull'ancora con venti navi, quelle stesse con le quali aveva combattuto. Era questo Rio amico agli Ateniesi, a differenza dell'altro nel Peloponneso, situato rimpetto al primo, tra loro distanti circa settanta stadii di mare; ed è questa la bocca del seno di Crisa. Adunque i Peloponnesi, visti gli Ateniesi, presero stazione con settantasette navi presso questo Rio dell'Acaia, non molto distante da Palermo, ove era la loro fanteria. Per sei o sette giorni stettero entrambi alle vedette, intesi a prepararsi pel combattimento che disponevano di fare. Discorrevano i Peloponnesi non esser da uscire al largo fuori dei due Rii, temendo ancora della passata sconfitta: gli Ateniesi di non dovere ingolfarsi nello stretto, giudicando che la battaglia in luogo angusto sarebbe in vantaggio dei Peloponneso Cnemo poi, Bornia e gli altri comandanti dei Peloponnesi volendo precipitar gl'indugi ed attaccar la zuffa innanzi che da Atene venisse nuovo aiuto, adunarono da prima i soldati; e poiché gli vedevano per la maggior parte paurosi ed inviliti, attesa la precedente sconfina, presero a rincorarli e parlarono così: «Valorosi Peloponnesi, la passata naval battaglia, se a cagione di quella avvi chi teme della futura, non porge giusto argomento per intimorirvi, ove sappiate come ella non ebbe completo apparecchio, e che la nostra corsa avea per oggetto non combattimento marittimo, ma piuttosto trasporto di truppe. La fortuna stessa ci fu in molti casi contraria, e forse l'inesperienza (essendo quello il primo combattimento per mare) causò il nostro danno, cosicché non fu per viltà che restammo vinti. Nè quel vigor d'animo a cui vincere non valse la forza, e che trova in sé stesso la sua discolpa, del punto indebolirsi per le conseguenze di sinistra fortuna: anzi tutto che possa addivenire che restino gli uomini sconcertati pel concorso di casuali accidenti, vuolsi ciò non pertanto reputare che, quanto all'animo, sieno gli stessi valorosi e inalterabili; e che serbando in petto cuor generoso, non piglierebbono a pretesto l'inesperienza per aonestar talvolta la loro codardia. Ma voi non siete di tanto inferiori nell'esperienza, quanto per ardimento superiori. La pratica di costoro, che principalmente vi spaventa, se va unita all'intrepidezza ricorderà loro, anche in mezzo al pericolo , di eseguire i precetti appresi ma senza intrepidezza, nissun'arte è buona contro i pericoli; perocché la paura perturba la memoria, e l'arte senza fortezza a nulla giova. Contrapponete adunque alla loro maggior pratica il vostro maggiore ardimento; al timore per la sconfitta sofferta la considerazione di non essere stati allora ben preparati; e riflettete che adesso voi avete il disopra, non solo pel maggior numero delle navi, ma ancora perché venite a battaglia lunghesso una piaggia vostra, ove è anche pronta per voi la soldatesca di terra. Ora la vittoria è ordinariamente dei più e dei meglio preparati: ond'è che non abbiamo pure un motivo giusto da temere della sconfitta: anzi gli sbagli stessi da noi prima commessi ci serviranno di nuovo ammaestramento. Su via adunque, nocchieri e mannari, fate ognuno il debito vostro, non abbandonando il posto assegnato a ciascuno, e noi sapremo non meno dei passati capitani prepararvi opportuna l'affrontata, ne lasceremo a chicchessia scusa ad esser codardo: o se pur vi sia chi il voglia, sarà punito colla dovuta pena, dove i valorosi avranno il premio che si compete al valore».
Con queste parole i capitani inanimivano i Peloponnesi. E Formione insospettito anch'egli dello sbigottimento dei soldati, ed avvistosi che nei loro cerchi mostravansi timorosi, per la moltitudine delle navi nemiche, prese consiglio di convocarli per rincorarli con avvertimenti confacevoli all'occasione. Teneva già anche di prima preparati i loro animi, dicendo continovamente non esservi moltitudine di navi per grande che fosse, alla quale, venendo contro di loro, ei non potessero resistere. Ed i soldati stessi da molto tempo avevano di sé concepita questa dignitosa opinione che, Ateniesi com'erano, non cederebbero a quantunque gran numero di navi peloponnesie. Nondimeno, osservandoli allora scoraggiati al ragguardaraento del nemico, voleva rammentar loro avessero coraggio: il perché, radunati gli Ateniesi, parlò in questa sentenza: «Al vedervi, o prodi soldati, impauriti per la moltitudine dei nemici, vi ho qua radunati; perché non credo del vostro decoro lo sbigottire per cose non punto formidabili. E primieramente hanno costoro apparecchiato gran numero di navi, non contenti di forze eguali alle nostre, appunto perchè sono stati già vinti, e da se stessi si riconoscono inferiori a noi. In secondo luogo, quella baldanza, alla quale principalmente affidati ci vengono incontro, come se di loro soltanto fosse proprio l'esser valorosi, non da altro procede che dalla pratica delle battaglie terrestri, ove ordinariamente sono vincitori; e però credono di poter far lo stesso anche in quelle di mare. Ma tal ragione di imbaldanzire se l'hanno essi in quell'altro genere di combattimento, molto più a buon dritto l'avremo ora noi. Imperocché in generosità ei non ci avanzan punto, laddove siamo entrambi più arditi in ciò, in che siamo più esperimentati. Inoltre i Lacedemoni, venendo alla testa degli alleati per ricuperare il proprio decoro, ne conducono al cimento la maggior parte di mala voglia; avvegnachè, se cosi non fosse, dopo quella grande sconfitta non sarebbono essi venuti mai ad un secondo naval combattimento. Non abbiate no dunque timore della loro audacia; anzi voi mettete in loro più grande e più certa paura, si perché gli avete già vinti, si perché pensano che or non vi opporreste loro, se non aveste in animo di fnre qualche stupenda prova. In fatti di due eserciti a fronte quello che, come il loro è più numeroso, viene all'assalto fidando più nella forza che nel consiglio: ma quello che è molto inferiore di numero, e viene non astretto alla pugna, resiste al nemico confidando solo nella grandezza del proprio animo. Le quali cose essi considerando, temono più del nostro straordinario procedere, che non farebbono d'apparecchio proporzionevole al loro. Molti eserciti sono già stati battuti da minor numero per inesperienza e talora per codardia; noi però da tali difetti siamo immuni: nè per quanto starà in me, attaccherò la battaglia nel golfo, anzi neppure vi entrerò. Conciossiaché vedo, contro molte navi mal pratiche non esser favorevole la ristrettezza del luogo per le poche, che nei loro movimenti han pratica e più speditezza al corso; perché non avendosi da lungi il prospetto del nemico, niun potrebbe prender le dovute misure per ispignersi contro la nave contraria ed assalirla, né, messo alle strette, aver modo di ritirarsi all'occasione. Nè possibil sarebbe rompere e traversare le file nemiche, o dare indietro girando di bordo; operazioni tutte proprie delle navi più spedite: ma farebbe allor di mestieri ridurre la battaglia di mare a battaglia di terra, lo che gioverebbe al maggior numero di navi. Ora io, per quanto sta in me, provvederò a tutto questo, e voi tenetevi fermi in buona ordinanza sulle navi, ed eseguite prontamente gli ordini che riceverete, tanto più che ad ogni momento possiam venire all'affronto. Nell'atto stesso poi della pugna badate sovrattutto al buon ordine ed al silenzio (ciò che giova in assai operazioni di guerra, ma principalmente nei combattimenti navali ); e rispìngete costoro in maniera che risponda alle passate imprese. Il cimento è per voi rilevantissimo, trattandosi, o di torre ai Peloponnesi ogni speranza di aver flotta, o di rendere agli Ateniesi più imminente il timore di perdere la superiorità del mare. Vi rammento in ultimo che già su la maggior parte dei nemici riportaste vittoria: ora soldati una volta vinti non possono serbare lo stesso animo nell'incontro degli stessi pericoli».
Con queste parole anche Formione rincorava la sua gente. Ma i Peloponnesi, al vedere che gli Ateniesi non venivano verso loro nel golfo, e dove è più angusto , volendo condurveli dentro a loro dispetto, sul far dell'aurora presero il largo, e ordinate le navi con quattro di fronte si avviarono nell'interno del golfo verso il loro territorio. Precedeva l'ala destra con lo stesso ordine che aveva tenuto stando sull'ancora: avevano però in cotest'ala collocato venti delle navi più spedite, affinché se mai Formione, credendoli dirizzati contro di Naupatto, si avviasse anch'egli colà per soccorrerlo, la flotta Ateniese non potesse spingersi oltre quell'ala destra, e scansare così d'essere investita da loro; anzi quelle venti navi dovesser chiuderla in mezzo, ripiegandosi sopra di lei. Come Formione vide i nemici partire impauri, conforme ei si aspettavano, per Naupatto rimasto senza presidio, e fatte suo malgrado e frettolosamente montar le navi alla sua gente, scorreva lungo la costa, su la quale lo seguitava la fanteria dei Messeni pronta a soccorrerlo. I Peloponnesi visto gli Ateniesi avanzarsi con le navi schierate una dopo l'altra, ed omai ingolfati (ciò che appunto bramavano), allora fatto un solo segnale voltarono improvvisamente di bordo, e con la maggior celerità che ognuno poteva vogavano di fronte addosso agli Ateniesi. Speravano essi di poter prendere tutte le navi, ma undici di esse che erano innanzi all'altra, preso il largo, si sottraggono all'ala dei Poloponnesi, e al ripiegarsi su loro delle venti navi. Raggiungono bensi il restante, e spintele a terra mentre fuggivano, le fracassarono, ed uccisero tutta la gente ateniese che non si era salvata a nuoto. Alcune altre restate vuote le legavano alle loro e le rimorchiavano, ed una ne presero entrovi la ciurma. Allora i Messeni accorsero in aiuto, ed entrando armati nel mare salirono sopra alcune, e combattendo di su i banchi, mentre venivano rimorchiate, le riebbero.
I Peloponnesi adunque erano da questa parte vincitori, ed avevano rovinate le navi ateniesi. In questo le loro venti navi poste sull'ala destra correvano dietro alle undici ateniesi, che sottrattesi all'incalzar dei nemici eransi tirate al largo, ed eccetto una, furono le altre in tempo a ricovrarsi a Naupatto. Quinci fermatesi in faccia al tempio d'Apollo colle prue rivolte in fuori si preparavano a ributtarli, s'ei vogassero a terra contro di loro i Peloponnesi che vi giunsero dopo, navigavano cantando il peana come già vincitori; e una nave leucadia, che sola vogava molto innanzi all'altre, dava la caccia ad una ateniese rimasta indietro. Era casualmente ferma sull'ancora in distanza dal lido una barca mercantile, presso la quale arriva la nave ateniese prima della leucadia, gira di bordo intorno a lei, e riviene ad urtar nel mezzo quella che la inseguiva, e la sommerge. Codesto accidente inaspettato e strano riempie di spavento i Peloponnesi che altresì ebri della vittoria rincorrevano le navi nemiche alla rinfusa; tal che alcune delle navi loro, per aspettare che si riunissero le altre più, abbassarono i remi e fermarono il corso; cosa inopportuna nell'occasione che il nemico aveva breve spazio a trascorrere per lanciarsi contro di loro: altre mal pratiche dei luoghi urtarono in secco. A tal vista ritornò negli Ateniesi il coraggio, e con unanime grido di eccitamento corsero sopra i Peloponnesi i quali in mezzo al disordine causato dai precedenti sbagli, per breve ora ressero, e poi fuggirono verso Palermo d'onde erano partiti. Gli Ateniesi incalzandogli tolsero loro sei navi che avevano più vicine, riebbero quelle state da prima rovinate su la costa e rimorchiate, ed uccisero parte delle ciurme, parie fecero prigioni. Timocrate lacedemone che era su la nave leucadia la quale andò a fondo vicino alla barca mercantile, quando ella si perdeva si scannò, e fu poi sbalzato nel porto dei Naupatti.
Ritornati gli Ateniesi al sito da cui partitisi ottennero questa vittoria, vi ersero trofeo, ricuperarono i cadaveri ed i rottami delle uavi che erano vicini alla loro costa, e con salvocondotto restituirono i loro ai nemici. Parimente i Peloponnesi attribuendo a sé la vittoria, ersero trofeo a Rio dell'Acaia per la sconfina in cui spezzarono su la costa le navi ateniesi; e quella sola che avevano presa la consacrarono presso al trofeo. Dopo di ciò temendo del soccorso che si aspettava da Atene, sull'imbrunir del giorno, tutti, eccetto i Leucadii si ridussero nel golfo di Crisa ed a Corinto. Gli Ateniesi che con le venti navi dovevano da Creta raggiunger Formione prima della battaglia navale, arrivarono a Naupatto poco dopo la ritirata delle navi dei Peloponnesi; e finiva l'estate.
Tratto da:
"Della storia di Tucidide volgarizzata libri otto", Firenze, Tipografia Galileiana, 1835.