Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Battaglia di Mondovì

20-21 aprile 1796

Gli avversari

Napoleóne I Bonaparte (fino al 1796 Buonaparte) imperatore dei Francesi

Nacque ad Ajaccio il 15 agosto 1769, morì a Longwood, nell'isola di S. Elena, il 5 maggio 1821; figlio di Carlo e Letizia Ramolino. Collegiale ad Autun, Brienne, Parigi, fu poi luogotenente d'artiglieria (1785) e tentò in seguito la fortuna politica e militare in Corsica (nel 1791 era capo-battaglione della guardia nazionale ad Ajaccio, nel febbraio 1793 condusse il suo battaglione di guardie nazionali nella spedizione della Maddalena, miseramente fallita, nell'aprile-maggio 1793 prese posizione, con il fratello Luciano, contro P. Paoli, per cui dovette fuggire in Francia). Comandante subalterno nel blocco di Tolone (ottobre 1793), si acquistò il grado di generale e quindi il comando dell'artiglieria dell'esercito d'Italia. Sospettato di giacobinismo per l'amicizia con A. Robespierre, subì un breve arresto; destinato a un comando in Vandea, rifiutò e fu radiato dai quadri (aprile 1795). Divenuto amico di P. Barras conobbe presso di lui Giuseppina de Beauharnais (che sposò il 9 marzo 1796); e per incarico di Barras difese energicamente la Convenzione contro i realisti (13 vendemmiale). Ottenne così il comando dell'esercito dell'interno, poi di quello d'Italia. Presa l'offensiva (9 aprile 1796), batté separatamente (Montenotte, Millesimo e Dego) gli Austro-Sardi, costringendo questi ultimi all'armistizio di Cherasco (28 aprile 1796), quelli, dopo le vittorie di Lonato, Arcole, Rivoli, e la resa di Mantova, ai preliminari di pace di Leoben (18 aprile 1797). Occupata la Lombardia, ricostituisce sul modello francese le repubbliche di Genova e di Venezia e toglie al papa la Romagna (armistizio di Bologna, 23 giugno 1796; trattato di Tolentino, 18 febbraio 1797). Poi, col trattato di Campoformio (17 ottobre 1797), conferma alla Francia il Belgio e le annette le Isole Ionie, ponendo fine all'indipendenza di Venezia, il cui territorio passava all'Austria (ad eccezione di Bergamo e Brescia incorporate nella nuova Repubblica Cisalpina). Preposto, a Parigi, a una spedizione contro le isole britanniche, la devia verso l'Egitto, ove sbarca il 2 luglio 1798 e vince alle Piramidi, in Siria (ma è fermato a S. Giovanni d'Acri), ad Abukir (dove la sua flotta era stata, il 1° agosto, distrutta da Nelson). Tornato in Francia con pochi seguaci (9 ottobre 1799), vi compie, un mese dopo (18 brumaio), un colpo di stato, con la dispersione del Consiglio dei Cinquecento e la sostituzione del Direttorio con un collegio di tre consoli, assumendo egli stesso il titolo di primo console. Ripresa la guerra contro i coalizzati, valica le Alpi (primavera 1800), vince a Marengo (14 giugno 1800) gli Austriaci costringendoli alla pace di Lunéville (9 febbraio 1801), cui seguono profonde modificazioni territoriali in Italia (annessione alla Francia di Piemonte, Elba, Piombino, Parma e Piacenza; costituzione del regno di Etruria); conclude con l'Inghilterra la pace di Amiens (25 marzo 1802). Console a vita (maggio 1802), sfuggito alla congiura di G. Cadoudal (1803), assume su proposta del senato la corona d'imperatore dei Francesi (Notre-Dame, 2 dic. 1804) e poi quella di re d'Italia (duomo di Milano, 26 maggio 1805). Nei tre anni di pace (rotta, però, con l'Inghilterra già nel maggio 1803), spiega una grande attività ricostruttiva: strade, industrie, banche; ordinamento amministrativo, giudiziario, finanziario accentrato; pubblicazione del codice civile (21 marzo 1804; seguirono poi gli altri); creazione di una nuova nobiltà di spada e di toga; concordato con la S. Sede (16 luglio 1801). Formatasi, per ispirazione britannica, la 3ª coalizione (Inghilterra, Austria, Russia, Svezia, Napoli), la flotta franco-spagnola è battuta a Trafalgar (21 ottobre 1805) da quella inglese comandata da Nelson, ma Napoleone assedia e batte gli Austriaci a Ulma (15-20 ottobre), gli Austro-Russi ad Austerlitz (2 dicembre) e impone la pace di Presburgo (26 dicembre 1805: cessione di Venezia e altre terre austriache alla Francia e ai suoi alleati tedeschi). Assegna il Regno di Napoli (senza la Sicilia) al fratello Giuseppe, quello di Olanda al fratello Luigi, e forma la Confederazione del Reno (luglio 1806). Alla 4ª coalizione (Russia, Prussia, Inghilterra, Svezia) oppone le vittorie di Jena e Auerstedt (14 ottobre 1806) sui Prussiani, l'occupazione di Berlino e Varsavia, le vittorie sui Russi a Eylau (od. Bagrationovsk, 8 febbraio 1807) e Friedland (14 giugno) cui segue la pace di Tilsit (8 luglio 1807), vera divisione dell'Europa in sfere d'influenza tra Francia e Russia con l'adesione della Russia al blocco continentale contro l'Inghilterra (bandito il 21 novembre 1806), e con la formazione del granducato di Varsavia (al re di Sassonia) e del regno di Vestfalia (al fratello Girolamo). Messo in sospetto dall'atteggiamento della Spagna, la occupa (dal maggio 1808) e ne nomina re il fratello Giuseppe (sostituendolo a Napoli col cognato Gioacchino Murat); ma la guerriglia degli Spagnoli, indomabile, logora lentamente le sue forze militari, mentre la lotta contro la Chiesa (occupazione di Roma, febbraio 1808; imprigionamento del papa Pio VII, 5 luglio 1809) gli sottrae popolarità presso ampi settori sociali. Debella quindi, non senza fatica, in Baviera (19-23 aprile 1809) e a Wagram (6 luglio) la 5ª coalizione, capeggiata dall'Austria, e impone la pace di Schönbrunn (14 ottobre 1809), che segna l'apogeo della potenza napoleonica, per gli ampliamenti territoriali che il trattato e i successivi provvedimenti portano all'Impero francese e ai suoi satelliti. Coronamento della pace, dopo il ripudio della prima moglie, sono le nozze (1° aprile 1810) con Maria Luisa d'Austria e la nascita (20 marzo 1811) del "re di Roma". La Russia, allarmata per le mire napoleoniche, aderisce alla 6ª coalizione: Napoleone la invade (24 giugno 1812), vince a Borodino (7 settembre), occupa Mosca (14 settembre); ma la città è in preda alle fiamme e Napoleone è costretto a iniziare verso la Beresina una ritirata disastrosa, poi vera fuga, mentre governi e popoli di Russia, Prussia e infine d'Austria (10 agosto 1813) si sollevano contro di lui. Né l'offensiva ripresa nella Sassonia (maggio 1813), né le trattative con i coalizzati gli giovano; la sconfitta di Lipsia (16-19 ottobre 1813) lo costringe a sgombrare la Germania e a difendersi sul suolo francese (inverno 1813-14). Il 31 marzo 1814 gli Alleati occupano Parigi e il 6 aprile Napoleone abdica senza condizioni accettando il minuscolo dominio dell'isola d'Elba, ove giunge il 4 maggio 1814. Ma, sospettando che lo si voglia relegare più lontano dall'Italia e dall'Europa, sbarca con poco seguito presso Cannes (1° marzo 1815) e senza colpo ferire riconquista il potere a Parigi (20 marzo). Il tentativo dura solo cento giorni e crolla a Waterloo (18 giugno 1815). Dopo l'abdicazione (22 giugno), Napoleone si rifugia su una nave inglese: considerato prigioniero, è confinato, con pochi seguaci volontari, nell'isola di S. Elena, dove a Longwood, sotto la dura sorveglianza di Hudson Lowe, trascorre gli ultimi anni, minato dal cancro, dettando le sue memorie. Le sue ceneri furono riportate nel 1840 a Parigi, sotto la cupola degli Invalidi. La sconfitta definitiva di Napoleone ebbe per la Francia gravi conseguenze: occupata per tre anni dalle potenze nemiche, fu obbligata a pagare esose indennità di guerra; dopo un periodo di relativa pace sociale visse lo scoppio del malumore e della vendetta del mondo cattolico.


Colli (Colli Marchini), Michelangelo Alessandro (Michele), barone (Vigevano 1738 - 22 dicembre 1808 )

Nato a Vigevano (Pavia) nel 1738 dal barone Giuseppe (i Colli Marchini - tale è il cognome completo - erano baroni del Sacro Romano Impero) e da Clara Cattaneo, militò sin da giovane al servizio dell'imperatore percorrendo rapidamente le tappe della carriera militare, grazie anche alla benevolenza del maresciallo Laudon che egli seppe conquistarsi per l'abilità e la competenza dimostrate durante le battaglie contro i Turchi. Infatti, messosi in luce già al tempo della guerra dei Sette anni, fu proprio nelle campagne militari contro l'Impero ottomano che egli poté mostrare le proprie capacità in qualità di maggiore del reggimento italiano Belgioioso. Ferito gravemente nella battaglia di Belgrado, fu talvolta costretto in seguito a farsi trasportare in lettiga sul campo. Quando il Regno di Sardegna si uni all'Austria nelle campagne antinapoleoniche, il Colli fu distaccato al comando dell'armata piemontese dove si distinse particolarmente fra i generali austriaci e sabaudi. I maggiori successi contro l'invasione francese nella contea di Nizza si dovettero appunto a lui, tanto che il re di Sardegna Vittorio Amedeo III gli fece solenni congratulazioni, inviandogli una lettera personale datata 29 giugno 1793. Nel 1794 il Colli assunse insieme con il generale Dellera il comando delle forze di Nizza. Il Carteggio tra l'arciduca Ferdinando d'Austria, governatore della Lombardia col generale Michele Colli, 1796-1796, edito da P. Pecchiai (in Miscellanea in onore di Giovanni Sforza, Lucca 1920, pp. 472-76), fornisce indicazioni sulle azioni di guerra tra il novembre 1793 e il maggio del 1796. In seguito, però, anche il Colli fu travolto dalle truppe francesi: Napoleone con manovre fulminee nel marzo del 1796 si incuneava tra l'esercito piemontese del Colli e quello austriaco del Beaulieu, isolando il primo e battendolo in una serie di scontri che indussero il re Vittorio Amedeo III a firmare l'armistizio di Cherasco. In obbedienza alle clausole del trattato il Colli, in quanto generale al servizio dell'imperatore, fu costretto a lasciare il comando del corpo affidatogli. Poco dopo, per espressa richiesta di monsignore G. Albani uditore generale dello Stato pontificio, fu invitato ad assumere la direzione suprema dell'esercito papale. Il Colli, venendo da Trieste su una fregata inglese, sbarcò ad Ancona insieme con altri ufficiali e, resosi conto dell'insufficienza degli armamenti e degli uomini, ordinò immediatamente leve forzate, dirigendosi subito dopo a Roma, dove venne accolto con grandi onori e festeggiamenti. Pio VI infatti, con un breve del 4 febbraio 1797, lo aveva formalmente nominato comandante supremo delle truppe pontificie. Tratta appunto di questo periodo la pantomima satirica rappresentata in quei giorni al teatro alla Scala di Milano e conosciuta col nome Ballo del papa, che ritrae il generale Colli nell'atto di ricevere dal papa la spada di difensore della Chiesa.

Intanto già dal 31 gennaio Napoleone aveva dichiarato guerra allo State pontificio e l'esercito francese ne aveva varcato i confini occupando Faenza e Ancona. La situazione divenne insostenibile per l'esercito papale; lo stesso Colli disperava della riconquista delle terre occupate, essendosi reso conto di non poter più contare sull'obbedienza delle truppe. Pareri contrastanti sono stati espressi riguardo alla partecipazione del Colli alla battaglia di Faenza. Secondo il Pastor e il Botta egli sarebbe stato presente e si sarebbe salvato con la fuga; secondo il Mestica e il Baldassari invece si sarebbe trovato a Roma nel momento della battaglia e, direttosi verso Ancona, non vi sarebbe neppure potuto arrivare poiché le truppe pontificie erano già in ritirata. È certo comunque che l'episodio colpì fortemente i contemporanei; ne troviamo traccia, ad esempio, nell'Autobiografia di Monaldo Leopardi (nei Paralipomeni di Giacomo Leopardi questi, per rappresentare con più evidenza la fuga precipitosa dei topi, la paragonerà a due celebri fughe di soldatesche moderne, una delle quali è appunto questa dei papalini nel 1797). Mentre, dopo la ritirata dell'esercito pontificio, il Colli disponeva la difesa di Roma, un'adunanza del Sacro Collegio stabiliva di autorizzarlo a concludere un armistizio. Le condizioni preliminari poste dal Bonaparte per qualunque ulteriore trattativa imponevano il disarmo di tutte le truppe di recente costituzione e la partenza di tutti gli ufficiali austriaci, quindi dello stesso Colli, che comunque fece pressioni perché si concludesse la pace a qualunque costo, essendosi reso conto dell'impossibilità per l'esercito pontificio di sostenere altre offensive francesi. In obbedienza dunque al trattato di Tolentino Pio VI congedava gli ufficiali austriaci e, con il breve del 29 aprile 1797 Locum tenente Mareschallo Colli, esprimeva al Colli il suo sincero rincrescimento per essere costretto a lasciarlo partire, assicurandogli una riconoscenza perpetua per quanto egli aveva fatto.

Sempre coerente alle proprie idee di rigido difensore degli ideali monarchici contro le idee giacobine e rivoluzionarie, il Colli, dopo la firma del trattato di Tolentino, passava al servizio del re di Napoli in qualità di addetto allo Stato Maggiore del generale Mack. La considerazione in cui venne tenuto può essere intuita da quanto scrive V. Cuoco, cioè che durante la guerra tra il Regno di Napoli e la Francia rivoluzionaria il Colli, nonostante non ricoprisse la carica di consigliere, fu invitato ad esprimere il proprio parere sul proseguimento della guerra. Dopo il crollo del Regno di Napoli e la creazione della Repubblica partenopea il Colli si trasferì a Firenze ricoprendo l'ufficio, fino all'occupazione francese, di inviato straordinario e ministro plenipotenziario imperiale prima e austriaco poi presso Carlo Ludovico di Borbone re d'Etruria. Anche dopo tuttavia continuò a vivere in Firenze, dove morì il 22 dicembre 1808.

La genesi

La battaglia di Mondovì non fu che una conseguenza della marcia che dovettero fare i due eserciti francese e piemontese dopo la battaglia di Montenotte. Difesosi questo più giorni con gran valore nei campi della Bicocca, della Niella e di S. Michele senza poterne essere sloggiato, il generale Colli suo comandante, temendo finalmente per le mosse di Massena e dei generali Guyeux e Fiorella di essere circondalo alle spalle dai nemici la notte del 21 aprile 1796, levò occultamente il campo, e conducendo seco tutte le artiglierie e le bagaglio, s'incamminò frettolosamente, ma ordinatamente alla volta di Mondovì. Il seguitarono velocemente i repubblicani ed il raggiunsero a Vico, dove allo spuntar del giorno seguì la battaglia che i Francesi chiamano di Mondovì.

La battaglia

Sulle prime il loro vonguardo mise la confusione nel nostro che più non si poté riordinare; ma come quello fu giunto al luogo detto del Brichetto, che e un poggio che sorge tra Vico e Mondovì, la cosa mutò aspetto. La fermezza dei Piemontesi fu grande, gettarono essi a terra quanti nemici loro si appresentarono: il generale che ivi comandava, Dichat di Loisinge, cadde morto; ma i granatieri che vi pugnavano, non avevano per anche ceduto un passo; soldati ed ufficiali La facevano da artiglieri invece di quelli che erano stati uccisi. Il nemico pareva rallentare l'assalto, allorquando da due vallette laterali che ivi mettono capo sopraggiunsero due colonne francesi per prendere alle spalle gl'intrepidi Subalpini. In tale frangente il Colli ordinò la ritirata, senza che i due terzi dell'esercito avessero potuto combattere. Bonaparte, scrive qui il Botta, solito ad abbellir con parole magnifiche le sue gesta, rappresentò questo fatto con colori di grandezza e di virtù militare dal canto de' suoi. Ma il vero si e che il Colli non poteva né voleva tra mezzo ad una frettolosa ritirata, e con soldati già scemi d'animo e di forze venirne ad una battaglia giusta contro un nemico vittorioso, battaglia .in cui ne sarebbe andato tutto il destino di un antichissimo reame. Solo suo intento era di ritardar tanto il perseguitante nemico, che potesse condur in salvo le artiglierie ed il bagaglio, ed andare a pigliare un alloggiamento tale, che potesse, se ancor possibil fosse, arrestar il corso della fortuna che con tanto impeto precipitava. Difesosi in Vico con molla arie e valore, poté, ritardando il nemico, conseguire il fine che si era proposto, di condurre a salvamento nei luoghi sicuri dietro l'Ellero ed il Pesio le armi grosse e tutti gl'impedimenti. All'indomani della battaglia, il generale Bonaparte, formato il suo esercito in tre colonne, minacciava per una parte di varcare lo Stura, e per l'altra, impadronitosi d'Alba, città posta sulla riva del Tanaro sotto la foce dello Stura, era in grado di passare il primo di questi fiumi e di correre alle spalle dei Piemontesi. Ecco intanto l'allocuzione scritta che indirizzò in quella circostanza al suo esercito: « Soldati, voi avete riportato in 15 giorni sei vittorie, avete preso ventuna bandiere, cinquantacinque cannoni, parecchie piazze e conquistata la più ricca parte del Piemonte; voi avete fatto 15,000 prigionieri, ucciso offerito più di 10,000 uomini. Voi vi eravate sino ad ora battuti per sterili rocce, illustrale dal vostro coraggio, ma inutili alla patria: voi pareggiate oggidì coi vostri servizii l'esercito di Olanda e del Reno. Sprovveduti di tutto, a tutto avete supplito. Voi avete vinte battaglie senza cannoni, varcati fiumi senza ponti, fatte marcie sforzate senza scarpe, serenato senza acquavite e spesso senza pane. Le falangi repubblicane, i soldati della libertà, erano soli capaci di soffrire ciò che voi avete sofferto; grazie ve ne siano rese, o soldati! La patria riconoscente vi sarà debitrice della sua libertà, e se, vincitori di Tolone, voi auguraste l'immortale campagna del 1795, le vostre presenti vittorie ne augurano una più bella ancora. I due eserciti, che testé vi assalivano animosi, fuggono dinanzi a voi spaventati; i perversi, che ridevano della vostra miseria, sono confusi e tremanti. Ma, soldati, voi non avete ancor fatto nulla, poiché ancor vi resta a fare. Né Torino, né Milano, non sono in vostro potere; le ceneri dei vincitori dei Tarquinii sono ancora calpestate, dagli assassini di Ugo Basville; Vuoisi che tra voi siano taluni il cui coraggio si va affievolendo, e che preferirebbero di ritornare sulle vette dell'Appennino e delle Alpi. No, non posso crederlo. I vincitori di Montenotte, di Millesimo, di Dego, di Mondovì, ardono del desiderio di portar lontano la gloria del popolo francese! ».

Le conseguenze

La corte di Torino, scossa, ma non spaventata da tanti casi avversi, era deliberata di far testa all'odioso nemico; ma per mala sorte smossa da quel forte proposito da un funesto consigliar contrario del cardinal Costa, uomo per senno e per dottrina venerando, si lasciò indurre al partito di chiedere la pace. Accordata pertanto primamente, il 27 aprile, una tregua in Cherasco tra Bonaparte e gli ufficiali del re, Latour e della Costa, condizioni della quale furono la rimessione ai repubblicani delle tre piazze di Cuneo, Ceva e Tortona, e la cessione di tutto il paese da loro conquistato oltre lo Stura e il Tanaro, la pace venne conciliata il 18 del successivo maggio a Parigi e firmata per parte del ve Vittorio Amedeo dal conte di Revel suo ambasciatore. Allora veramente, soggiunge qui il Botta, e non più tardi perì il reame di Sardegna. Dallo strazio che ne fece poscia quel governo repubblicano di Francia comprenderanno facilmente i leggitori che non solo più onorevole, ma anche meno infelice consiglio sarebbe stato l'incontrare qualunque più duro caso di fortuna coll'armi in pugno, che il darsi con le mani disarmate ed avvinte in preda ad un amico sì fantastico e si crudele.