Battaglie In Sintesi
15 - 17 maggio 1815
Nacque il 25 marzo 1767 da Pietro Murat-Jordy, albergatore e intendente dei beni posseduti dai Talleyrand nei dintorni di Labastide-Fortunière, oggi Labastide-Murat. Destinato dal padre alla carriera ecclesiastica, frequentò il collegio di Cahors e il seminario di Tolosa: ma l'amore per una fanciulla lo trasse fuori della strada che gli era stata prescelta, e, dopo essersi battuto per lei e aver consumato il poco denaro che possedeva, si arruolò volontario nel reggimento dei cacciatori delle Ardenne. Dagli studi non aveva ricavato che un po' di erudizione e una certa facilità di parola e di penna; era destinato a essere soltanto uomo d'azione, intemperante, incapace di trovare un sano equilibrio nella vita e di dominare lo spirito d'avventura e l'ardente brama di farsi strada a ogni costo nel mondo, che sempre lo signoreggiarono, rendendolo ottimo soldato sul campo di battaglia, dove era possibile conquistare rapidamente onori e gradi, ma politico inadatto a conservare in tempo di pace i fortunati profitti della guerra. Espulso dal corpo per insubordinazione contro il comandante (1789), nel 1791 entrò a far parte della guardia costituzionale di Luigi XVI; ma nel nuovo reparto non restò neppure un mese; conquistato dalle idee repubblicane si diede ai rivoluzionari. Denunziando come reazionari i suoi componenti, contribuì alla dissoluzione di quella guardia; servì da ufficiale nei cacciatori e nel corpo franco di ussari formato da Landrieux; e venuto in lotta con quest'ultimo, poté vantare benemerenze patriottiche, fra le quali il cambiamento in Marat del proprio nome. Di poi, nuove e, questa volta, effettive benemerenze acquistò il 13 vendemmiaio dell'anno IV, allorché si schierò in difesa della costituzione e d'ordine del Bonaparte s'impossessò di quaranta cannoni. Quel giorno si decise tutto il suo avvenire. Nominato generale di brigata il 2 febbraio del 1796 e poi aiutante di campo di Napoleone, si legò strettamente a quest'ultimo sino a divenire suo fedelissimo strumento. Nella seguente campagna di Egitto si batté eroicamente nella battaglia delle Piramidi, e fu il primo a muover l'assalto contro S. Giovanni d'Acri. Poi accompagnò il suo generale in Francia; e in Parigi il 18 brumaio alla testa di poche decine di granatieri s'impose al Consiglio dei cinquecento. Poco dopo ebbe la conferma del grado di generale di divisione, ottenuto in Egitto, il comando della guardia consolare e la mano di Carolina, sorella del primo console. Seguirono sempre maggiori onori. Partecipò alla battaglia di Marengo, comandò la cavalleria di riserva, l'esercito del mezzogiorno, le truppe stanziate nella Repubblica Italiana, costrinse alla pace di Firenze re Ferdinando di Napoli, prese possesso dell'isola d'Elba, fu incaricato di missioni diplomatiche presso il papa e il re di Napoli. Ritornato in Francia, fu governatore di Parigi e non negò il suo aiuto a Napoleone nella tragica esecuzione del duca d'Enghien, ottenendo in ricompensa centomila franchi. Nelle seguenti guerre tornò a essere eroico sino alla follia sul campo di battaglia, ricoprendosi di gloria ad Austerlitz; tra i primi a essere nominato maresciallo dell'impero, il 10 febbraio del 1805 fu creato principe imperiale e grande ammiraglio, il 15 marzo del 1806 granduca di Clèves e Berg, nel 1808 luogotenente generale in Spagna, e quando su questo trono salì Giuseppe Napoleone che lasciava la corona di Napoli, ottenne questo regno (con decreto firmato da Napoleone in Baiona il 15 luglio 1808 e con decorrenza dal 1° agosto).
Nello stato affidato alle sue mani l'opera di riorganizzazione politica ed economica era stata già iniziata da Giuseppe, ma ora si trattava non solo di completare siffatta opera, sibbene ancora di applicare tutte le norme legislative per trasformare completamente la vita del Mezzogiorno d'Italia, in tutti i suoi aspetti. E si può dire che re Gioacchino pienamente assolse al compito che si era assunto, sì che l'epoca del suo governo deve essere considerata come l'età nella quale il regno di Napoli abbandonò i suoi ordinamenti medievali e li sostituì con altri che si adattavano alle mutate condizioni dell'Europa. Magnifica, e, perché condotta contro l'Inghilterra, di risonanza europea, fu la prima impresa militare del nuovo monarca, che tolse agli Anglo-Siculi l'isola di Capri, centro di riunione dei nemici del nuovo regime instaurato nel Mezzogiorno; l'anno dopo, 1809, fu respinta una nuova spedizione anglo-sicula contro il regno; e poi, spesso con implacabile severità specialmente nelle Calabrie, ove il compito fu affidato al Manhès, fu represso il brigantaggio politico-sociale, che era reazione agli ordinamenti francesi. L'applicazione della legge francese sulla coscrizione militare - legge odiata sul principio, poi tollerata - permise la creazione di un forte esercito nazionale, che, dapprima inquadrato da ufficiali francesi, ebbe poi uno scelto corpo di ufficiali napoletani, istruitisi nelle armate napoleoniche o nelle scuole militari dello stato, saggiamente riordinate. Nel campo amministrativo fu perfezionato il sistema creato da Giuseppe; e, innovazione di grande importanza e ricca di benefici risultati, fu promulgato il Codice Napoleone, e, tranne in qualche periodo e in alcune regioni, furono soppressi i tribunali straordinari, sì che la giustizia fu impartita con saggi criteri di equanime moderazione. I lavori pubblici ebbero grande impulso con la costruzione di tutto un complesso di strade e di opere di notevole utilità. La rigida applicazione della legge sulla feudalità permise lo sfruttamento di vaste estensioni di terre sino allora incolte; e l'agricoltura ebbe maggiore sviluppo con la creazione di società agricole in tutte le provincie. Anche il sistema tributario fu riordinato, migliorata l'amministrazione del tesoro, creato con il Banco di Napoli un solido istituto di credito, data una nuova organizzazione alle opere di pubblica beneficenza. E finalmente molte cure furono rivolte all'istruzione, specialmente media ed elementare. In pochi anni la vita economica e morale del Mezzogiorno fu profondamente rinnovata. Gli ordinamenti militari diedero una disciplina del tutto nuova alla gioventù; e reggimenti napoletani si batterono con bravura non inferiore a quella degli alleati nelle guerre di Spagna e di Germania, accanto ai reparti italiani e francesi. L'eversione della feudalità e la quotizzazione delle terre portarono alla formazione del ceto medio, ché risale appunto a questo tempo e all'opera di Gioacchino l'origine della borghesia terriera nel Mezzogiorno, la quale ben presto divenne la vera dominatrice della vita del paese. E dalla borghesia uscì fuori una folta schiera di politici e di militari, direttamente interessati alla conservazione dei nuovi ordinamenti: profondi conoscitori, i primi, di questi ultimi, che essi stessi avevano creato, e desiderosi di perfezionarli; bramosi, i secondi, di accrescere sempre più le glorie belliche e le possibilità militari della giovane monarchia. Poi, con l'andar del tempo il loro programma politico si perfezionò, anche per effetto della propaganda antifrancese degli Anglo-Siculi, che diffondevano ideali d'indipendenza e di unità italiani e, attraverso le sette carbonare, ora sorte e creatrici di moti rivoluzionari nelle Calabrie e negli Abruzzi, ideali democratici. Tali ideali finirono con l'essere accarezzati anche dai sostenitori del regime murattiano, desiderosi di liberare il regno dall'influsso francese, di sostituire i funzionari e i militari non nazionali, di attuare riforme sempre più liberali, di ottenere anche istituzioni parlamentari, che lo statuto di Baiona, mai applicato, invano aveva concesso. Ma allora il Murat non seppe regolare lo sviluppo di questi sentimenti.
Napoleone aveva sempre avuto scarsa fiducia nei talenti politici del cognato e già prima che questi salisse sul trono di Napoli era spesso venuto in dissidio con lui. Poi tali dissensi divennero sempre più gravi dopo il 1808. Re Gioacchino rivelò subito il suo desiderio di rendersi indipendente dalla tutela francese, mentre per Napoleone lo stato napoletano doveva essere strumento della sua politica e doveva subordinare la propria vita alle esigenze della vita dell'impero. Così si oppose alle murattiane mire di espansione nel vicino regno di Sicilia (e la spedizione tentata nel 1810 contro i Borboni dell'opposta sponda dello Stretto di Messina ebbe infelice risultato); non volle diminuire i tributi imposti allo stato come partecipazione di un governo dipendente alle spese generali del governo dominatore; non volle permettere che il regno murattiano avesse una sua propria politica estera; negò il permesso di sostituire funzionari e ufficiali indigeni ai Francesi che occupavano le cariche più importanti. Sul principio il re dovette cedere. Ma le incertezze del suo governo, dibattuto fra opposti desideri e necessità, poiché rinfocolavano le passioni della nazione senza appagarle, non erano le più opportune a fissare su chiare basi la natura dei suoi rapporti con l'impero e a formare la coscienza politica del paese, sì da adattare quest'ultimo alle esigenze della vita dell'Europa, nella quale lo stato napoletano non poteva non essere considerato vassallo della Francia. E quando cominciarono i tristi giorni dell'impero, e, spinto dagli entusiasmi dei suoi sudditi e dalle tendenze stesse dell'animo, il re pensò di secondare i loro desideri e, anche nella speranza di salvarsi dal crollo dello stato napoleonico, volle atteggiarsi a sovrano indipendente e concesse le desiderate riforme liberali e rese nazionale il governo, apparve chiaro l'equivoco sul quale poggiava tutta la vita politica del Mezzogiorno, nell'impossibilità materiale di assicurarsi con le proprie armi quell'autonomia che bramava e che re Gioacchino gli aveva fatto sperare con troppa leggerezza, mentre era effettivamente legato con la fortuna e con la disgrazia di Napoleone. Molto probabilmente lo stato murattiano non si sarebbe potuto salvare nel mutato clima storico dell'Europa; ma la sua caduta poté essere attribuita agli errori politici del suo sovrano, il quale si alienò le simpatie degli amici e dei nemici e rivelò la sua incapacità a creare e a seguire una linea di condotta che conciliasse i suoi doveri di monarca devoto a chi tale lo aveva creato e di principe intelligente e accorto, sostenitore degl'interessi dei suoi sudditi. E del Murat non rimase intatta che la gloria conquistata sui campi di battaglia, e l'ultima impresa della sua vita - la spedizione nelle Calabrie - fu degna conclusione dell'esistenza di un uomo che tutti avevano unicamente considerato come guerriero nato e nella sua fine rivelò tutta la profonda debolezza del governo murattiano. Re Gioacchino si distaccò da Napoleone durante la triste ritirata che tenne dietro alla campagna di Russia, alla quale egli aveva partecipato dando nuova prova del suo meraviglioso ardimento: incaricato di assumere il comando delle truppe disperse, mentre l'imperatore si recava a Parigi, abbandonò al viceré Eugenio la direzione dell'impresa e si ritirò a Napoli. Seguirono le trattative con l'Austria e con l'Inghilterra, nelle quali il re si mostrò preoccupato unicamente di assicurarsi il possesso del proprio stato, mentre l'imperatore compiva gli ultimi tentativi per salvarsi dal disastro: ma la sua incerta condotta non era la più opportuna a persuadere gli alleati della lealtà della sua politica, ché ad essi non dava effettivi aiuti, non avendo il coraggio di prendere le armi contro Napoleone, mentre alla sua causa arrecava gravi danni. Poi a Vienna invano cercò di ottenere la conferma del suo titolo regio; e allora tentò la sorte delle armi, ancora una volta in tempo poco opportuno, ché non si preoccupò di mettersi d'accordo con Napoleone, il quale all'Elba già meditava la sua ultima impresa. Le sue forze, rivelatasi vana la speranza di ottenere l'aiuto di tutta l'Italia chiamata alle armi in nome della sua unità politica, si rivelarono impari ad affrontare gli Austriaci; dovette abbandonare lo stato. Seguirono giorni amarissimi, ché non poté trovare asilo in Francia: poi in Corsica preparò la spedizione armata nelle Calabrie, che avrebbe dovuto ridargli il possesso del regno, ma che si chiuse tristamente al Pizzo (13 ottobre 1815), con la sua fucilazione.
Nel 1813 batté i francesi presso Trieste; nel 1815 partecipò alla campagna contro G. Murat, quindi (1817-20) fu capitano generale del re di Napoli e ministro della Guerra. Tornato in Austria, nel 1848 coadiuvò J. Radetzky contro i piemontesi, poi, come comandante in capo, diresse le operazioni contro gli ungheresi; il successo gli valse la nomina a maresciallo.
I nuovi piani del generale Bianchi, pur dopo il rischio corso di essere battuto separatamente dalle forze riunite del Murat, mostrano più che mai la fiducia in sé e nello strumento che ha nelle mani, e la convinzione che le forze avversarie siano ormai in grave crisi e il regno prossimo alla rivolta. Lungi dal trovare nel regno le migliori linee di difesa, unite al valido concorso della popolazione, il re trova popolazioni di cui si teme l'insurrezione, milizie territoriali pronte a sbandarsi, comandanti e funzionari sfiduciati; il princìpio che il Clausewitz avrebbe enunciato dì li a pochi anni, proprio in seguito all'esperienza di oltre un ventennio di guerre, che l'attacco si esaurisce progredendo e che l'offensiva, spinta imprudentemente troppo avanti, può doversi limitare alla fine ad una difficile difensiva, sembra trovare l'eccezione proprio nelle particolari condizioni del regno! Il quale, invero, presentava un confine militarmente tutt'altro che debole. Ma le più forti posizioni cadono una dietro l'altra! Il 6 maggio l'esercito napoletano passa il Tronto e rientra nel regno; ma i vìveri anche ora scarseggiano più che mai, nuova gente si perde nel traversare il Vomano e altri torrenti in piena; per di più Murat è informato che anche la stretta di Popoli è stata abbandonata dal Montigny! Si affretta verso Pescara e vi giunge l'8. E qui viene a sapere che la stretta è stata ripresa con un'azione di sorpresa da un reparto di corazzieri della Guardia, inviato da Napoli. Allora si riconforta: l'esercito è dimezzato, ma la cavalleria è ancora in discrete condizioni, l'artiglieria si è salvata quasi tutta; la fanterìa della Guardia, già duramente provata il 3 maggio, è ormai ridotta a 800 uomini, e la 2a divisione a 1800, ma la divisione retrostante (Lechi) e specialmente quella di Carascosa si sono mantenute salde, e comunque la dispersione sembra arrestata: le forze superstiti della Guardia e della 2a divisione rappresentano veramente il fior fiore dell'esercito. E contro il Nugent si trova il generale Manhès, già tanto energico in Calabria, con la 4a divisione di nuova formazione, che da Napoli si cerca di rafforzare. Queste forze, appoggiate a forti posizioni, potranno ancora essere il fulcro d'una valida resistenza, tanto più se aiutate dalle popolazioni. A questo scopo, il re manda a Napoli il testo della costituzione, già tanto bramata da carbonari e liberali, specialmente in Calabria e negli Abruzzi, perché sia pubblicata: essa dovrebbe determinare una levata in massa! Illusione! È troppo tardiva e appare a tutti come la confessione d'una situazione disperata! L'intendente dell'Aquila, col Montigny, ha già abbandonato il suo posto, quello di Chieti esorta il sovrano a contentarsi se gli abitanti non gli si sollevano contro in massa! E tosto al Murat giunge una tremenda notizia: la divisione Lechi, in gran parte d'abruzzesi, si è disciolta e i soldati se ne sono tornati alle loro case! Privo della 3a divisione, il re decide allora la ritirata su Capua, abbandonando gran parte delle artiglierie. Risalendo la Pescara, traversa il 10 maggio la gola di Popoli, ma non già per puntare verso l'Aquila e impadronirsi nuovamente della stretta d'Antrodoco, bensì per volgere a sud verso Sulmona e Castel di Sangro. Quello stesso giorno giunge all'Aquila, coi suoi 5000 uomini, il generale Eckhardt, capo della colonna centrale austriaca, e subito è raggiunto dal Bianchi, con la maggiore colonna di destra.
Il giorno dopo queste forze si riuniscono, nei pressi di Popoli, con la colonna di sinistra del Mohr, che, giunta a Pescara dietro il Murat, ha anch'essa risalito il fiume. La grande manovra a tenaglia del generalissimo austriaco è fallita per la seconda volta. Ma ormai Gioacchino deve contentarsi di sfuggire alla stretta e cercar di difendere la linea del Garigliano o del Volturno! A Sulmona il Bianchi proclama il ritorno di Ferdinando IV di Borbone sul trono di Napoli. Da Castel di Sangro l'esercito napoletano prosegue la ritirata verso Isernia. Si stanno per abbandonare posizioni fortissime, fra il bacino del Sangro e quello del Volturno; e appena fuori di Castel dì Sangro il Carascosa, di retroguardia, vuole, per l'onore delle sue truppe, misurarsi ancora una volta cogli austrìaci. La cavalleria nemica è bravamente fermata dalla fanteria, e poi caricata dalla cavalleria napoletana, che a sua volta viene respinta. Comunque, il nemico è fermato; la brigata del Pepe già si dispone, dai poggi sovrastanti, a prendere di fianco le forze austriache, quando giunge l'ordine di ripiegare. La ritirata prosegue indisturbata per Isernia e Venafro, e Gioacchino pone il suo quartier generale a Teano. Intanto il generale Manhès, dopo essere penetrato nello Stato pontificio e aver messo a sacco Ceprano, che ha opposto resistenza, è ripiegato su San Germano, mentre alla sua sinistra un reggimento, difesa bravamente la stretta di Itri, è retrocesso su Gaeta. Ma allora, ritenendosi minacciato sul proprio fianco, il Manhès ha abbandonato San Germano; così la linea del Garigliano è perduta. Da Napoli la regina, che in queste dolorose e diffìcili contingenze mostra fermezza di carattere ed energia, manda il generale Macdonald, con alcune altre forze racimolate alla meglio, ad assumere il comando delle schiere impegnate contro il Nugent; e questi rioccupa San Germano e respinge le avanguardie nemiche oltre la Melfa. Ma ora Gioacchino gli ordina di ripiegare su Mignano a protezione dello schieramento dell'esercito sopra Capua, dietro il corso inferiore del Volturno. Alla stretta di Mignano si pone dunque il Macdonald il 16 maggio, in attesa di ripiegare anch'egli su Capua la mattina dopo.
Al di 16, il reggimento de' granatieri della Guardia accampava in Sessa, la quarta legione in Mignano, la prima a Venafro; le altre squadre, spicciolate, entravano nella fortezza. Ma in quella notte è assalito il campo di Mignano, dove la quarta legione, mal guardandosi, aveva le ordinanze più di cammino che di battaglia. Di fianco investita da sopra i monti di San Pietro, infine il retroguardo si scompigliò, e disordinatamente ritiravasi. Il generale la soccorse di un reggimento di cavalleria, che, offeso dall'alto, dove i cavalli non giungevano, retrocedè a briglia sciolta ; e le schiere accampate in Mignano, al calpestio crescente e vicino, sbalordite dalla notte, da' fuggiaschi e dalle passate avversità, travedendo nemici nei compagni, tirarono ciecamente sopra loro. E quegli alle offese rendevano offesa, non per inganno nè per vendetta , ma perchè, raddoppiato il pericolo, volevano far libera la fuga. Confusione orrenda , irreparabile: la voce dei capi non intesa, non viste le bandiere, non obbedito il comando. Chi si crede sorpreso e chi tradito, s'intrigano le schiere, ogni ordine si scompone, abbandonano il campo e fuggono. Il reggimento ch'era in retroguardia, incalzato alle spalle dal nemico, sentendo innanzi romor di guerra, camminava sospettoso e guardingo, e però, giuuto dove già stava il campo, vistolo deserto e con segni di recente guerra e di fuga , si scompose anch'esso e fuggì. Della intera legione (seimila uomini) pochi restarono, e cosi alla notte del Ronco contrappose la notte di Mignano la fortuna, che ogni parzialità o conforto negava alle armi di Napoli.
Quest'ultimo increscioso episodio persuade il re che tutto è finito: la sola divisione Carascosa, o meglio i suoi 8 battaglioni, rimane compatta a Sparanise, per quanto con forze ormai alquanto ridotte. E il Carascosa è alla fine investito da Murat del comando supremo dell'esercito e incaricato di trattare col vincitore. Recatosi dal Bianchi, può discutere con lui i punti principali di quella che il 20 fu la convenzione di Casalanza, plenipotenziari il generale Neipperg da parte austriaca e il generale Colletta da parte napoletana. Il giorno dopo Gioacchino Murat, conosciuta la convenzione militare, lascia Napoli, e dopo aver tentato invano di recarsi a Gaeta, fa vela verso la Corsica. La sua fortuna è tramontata, ma i patti onorevoli ottenuti, ad onta della finale dissoluzione dell'esercito, mostrano pure, da parte del vincitore, il riconoscimento del valore sfortunato da esso mostrato nell'ardua e impari lotta. La difesa di Gaeta, protrattasi, sotto la guida del generale Beganì, fino all'8 agosto, chiude nobilmente la serie delle gloriose gesta.
Bibliografia:
"Storia militare del Risorgimento", Piero Pieri, Torino, Einaudi, 1962
"Gioachino Murat, o storia del reame di Napoli dal 1800 al 1815", Leonar Gallois, Presso la ditta Angelo Bonfanti, Milano, 1839