Battaglie In Sintesi
294 a.C.
Figlio probabilmente del console omonimo, fu eletto console nel 294 a.C. con Lucio Postumio Megello. Entrambi i consoli vennero comandati di guidare l'esercito romano nel Sannio, perché si riteneva che i Sanniti stessero armando tre eserciti: uno da inviare in Etruria, un secondo in Campania ed il terzo per la difesa del loro territorio. Giunto in territorio Sannita, l'esercito romano subì un attacco dai nemici, mentre si trovava ancora all'interno dell'accampamento; anche se con difficoltà, i romani riuscirono a respingere fuori dal castro gli attaccanti. Quando seppe che i Sanniti si erano diretti verso Luceria, Atilio vi condusse l'esercito romano, per affrontare quello Sannita. Furono due giorni di battaglia, durissima ed incerta, durante le quali il console dovette minacciare i soldati affinché combattessero. Alla fine la vittoria fu dei romani, seppure a prezzo di gravi perdite tra le loro fila. Tanto che al suo ritorno a Roma, gli fu negato il trionfo.
A Quinto Fabio e Publio Decio seguirono come consoli Lucio Postumio Megello e Marco Atilio Regolo. Vennero entrambi inviati nel Sannio, perché correva voce che i nemici avessero arruolato tre eserciti, e cioè uno per ritornare in Etruria, uno per riprendere a devastare le terre della Campania e uno per difendere il proprio territorio. Atilio, ligio alle decisioni prese dal senato, partì invece immediatamente per piegare la resistenza dei nemici prima che uscissero dal Sannio. L'imboscata sannita al campo romano nei pressi dei Monti della Meta, non fu certo privo di efficacia e ridiede coraggio ai Sanniti, che non solo impedirono ai Romani di avanzare, ma anche di andare a rifornirsi di viveri nel loro territorio: gli uomini addetti al vettovagliamento erano costretti a tornare indietro nella zona assoggettata di Sora. La notizia dell'episodio, descritto a Roma in termini più allarmanti di quanto in realtà non fosse, spinse il console Lucio Postumio appena uscito dalla malattia a partire dalla città. Comunque, prima di mettersi in marcia, dopo aver dato ordine ai soldati di concentrarsi a Sora, inaugurò il tempio della Vittoria, che aveva fatto edificare in qualità di edile curule usando il denaro ricavato dalle ammende. Ricongiuntosi poi con l'esercito a Sora, di lì raggiunse il campo del collega nel Sannio. I Sanniti allora si ritirarono, non avendo più speranze di poter fronteggiare con successo i due eserciti, e i consoli si misero in marcia in direzioni diverse con l'intento di mettere a ferro e fuoco le campagne e di attaccare i centri abitati.
Come per Lucio Postumio Megello così anche per l'altro console, Marco Atilio, la campagna non fu certo facile. Mentre era alla guida delle legioni sulla strada per Luceria - che aveva saputo attaccata dai Sanniti -, gli si parò innanzi il nemico ai confini del territorio di Luceria. Fu la rabbia a rendere pari le forze in campo: la battaglia si svolse nell'incertezza e a fasi alterne, ma il verdetto finale fu più pesante per i Romani, sia perché non erano abituati alla sconfitta, sia perché all'atto di allontanarsi dal campo, più ancora che nel pieno dello scontro, si accorsero quanto fossero numericamente superiori le loro perdite e i loro feriti. Perciò tra i soldati al rientro al campo ci fu una tale ondata di sconforto, che se solo li avesse colti nel corso della battaglia li avrebbe portati a una pesante sconfitta. La notte fu ugualmente carica di tensioni, perché i Romani erano convinti che i Sanniti attaccassero di lì a poco l'accampamento, o che altrimenti alle prime luci del giorno si dovesse ricominciare a combattere col nemico reduce dalla vittoria. Gli avversari avevano subito perdite minori, anche se non potevano contare su un morale più alto. Non appena fu giorno, volevano andarsene senza combattere, ma c'era una sola strada e passava proprio vicino al nemico. Così, essendosi messi in marcia attraverso quella via, diedero ai Romani l'impressione di essere diretti ad attaccare l'accampamento. Il console diede disposizione agli uomini di armarsi e di seguirlo al di là della trincea, e ordinò ai luogotenenti, ai tribuni e ai prefetti alleati ciò che ciascuno di essi avrebbe dovuto fare. Tutti si dissero pronti a eseguire ogni ordine, ma rilevarono che i soldati erano demoralizzati, dopo aver passato una notte insonne tra le ferite e i lamenti dei moribondi. Se i nemici si fossero avvicinati all'accampamento romano prima del sorgere del sole, la paura sarebbe stata così grande da far abbandonare agli uomini i posti di combattimento. Al momento a trattenerli dalla fuga era solo la vergogna, ma per il resto erano come degli sconfitti. Quando il console udì queste parole, decise di andare in giro di persona a parlare ai soldati, e appena arrivava presso i vari reparti rimproverava subito quelli che indugiavano a vestire le armi, e domandava quale fosse il motivo di tutti quei tentennamenti e quelle esitazioni. Diceva che i nemici sarebbero entrati nell'accampamento, se essi non ne fossero usciti, e che si sarebbero trovati a combattere di fronte alle proprie tende, se non volevano andare a combattere al di là della trincea: la vittoria - ricordava - è si incerta per chi prende le armi e va a combattere, ma quelli che attendono il nemico disarmati e senza difendersi sono destinati alla schiavitù o alla morte. Di fronte a queste aspre rampogne, gli uomini replicavano di essere stremati per la battaglia del giorno prima, di non avere più a disposizione né forze né sangue, e di aver l'impressione che il numero dei nemici fosse ancora superiore rispetto alla giornata precedente. Nel frattempo l'esercito nemico si stava avvicinando, e quando lo si poté distinguere per il diminuire della distanza, gli uomini cominciarono a dire che i Sanniti avevano con sé i paletti per la trincea, e che avrebbero certamente circondato l'accampamento con una palizzata. Allora il console gridò che era indegno accettare una simile vergognosa umiliazione da un nemico vile più di ogni altro, e aggiunse: "Dunque ci lasceremo assediare anche all'interno dell'accampamento, e moriremo di fame con ignominia, piuttosto che valorosamente - se sarà necessario - a colpi di spada?". Ciascuno si regolasse nel modo che gli sembrava più degno di se (e che gli dei lo aiutassero): il console Marco Atilio, se nessun altro lo voleva seguire, avrebbe marciato contro il nemico anche da solo cadendo in mezzo alle insegne dei Sanniti, piuttosto che vedere l'accampamento romano circondato da una palizzata. I luogotenenti, i tribuni, tutti gli squadroni di cavalleria e i centurioni dei reparti scelti salutarono con un applauso le parole del console. Allora i soldati, toccati nell'onore, si armarono contro voglia, uscirono contro voglia dal campo schierati in una fila lunga e rarefatta, e con l'aria di chi era già battuto marciarono contro il nemico che non aveva certo né il morale più alto né maggiori speranze di vittoria. E così, non appena i Sanniti videro le insegne romane, dalle prime file alle ultime cominciò subito a correre voce che i Romani - come essi temevano - stavano uscendo dall'accampamento per impedire loro il passaggio. Quindi non c'era più alcuno sbocco aperto nemmeno per la fuga, ed era inevitabile cadere lì o uscire vivi passando sui corpi dei nemici stesi a terra.
Accatastati i bagagli nel mezzo, si armarono e si disposero in ordine di battaglia nei rispettivi reparti. Lo spazio tra i due eserciti era ormai molto ridotto, ed entrambi erano fermi nell'attesa che i nemici levassero il grido di battaglia e si lanciassero all'assalto. Ma da una parte e dall'altra non c'era alcuna inclinazione allo scontro, e si sarebbero allontanati in direzioni opposte intatti e illesi, se solo non avessero temuto che il nemico si avventasse su quanti si stavano ritirando. Fra quei soldati poco ispirati e incerti la battaglia iniziò meccanicamente e in sordina, con un grido né unanime né convinto, e con nessuno che si muovesse dal proprio posto. Allora il console romano, per suscitare le energie, spedì fuori dalle file alcuni squadroni di cavalleria. Ma poiché buona parte di essi vennero sbalzati da cavallo e altri gettati nello scompiglio, dallo schieramento sannita ci fu chi accorse per finire i cavalieri caduti, e dalla parte romana intervennero in aiuto dei compagni. La battaglia prese allora vigore. Ma i Sanniti erano accorsi più numerosi e con maggiore determinazione, e i cavalieri romani trascinati dai cavalli imbizzarriti calpestavano quegli stessi compagni arrivati in loro soccorso. Da quel momento cominciò la fuga, che coinvolse l'intero schieramento romano. E i Sanniti stavano già attaccando alle spalle i fuggitivi, quando il console andò a cavallo di fronte alla porta dell'accampamento, vi lasciò una guarnigione di cavalieri cui diede il compito di trattare da nemici chiunque - romano o sannita - si fosse avvicinato alla trincea, e quindi andò anch'egli a sbarrare la strada ai suoi uomini che stavano cercando di raggiungere disordinatamente l'accampamento, rivolgendo loro parole minacciose: "Dove andate, soldati? Anche là vi troverete di fronte armi e uomini, e finché il vostro console sarà vivo, non entrerete nell'accampamento se non da vincitori: scegliete se preferite scontrarvi con dei concittadini o con dei nemici". Mentre il console pronunciava queste parole, i cavalieri circondarono i fanti brandendo le lance, e ingiunsero loro di tornare a combattere. A venire in aiuto non fu solo il valore del console, ma anche il destino, perché i nemici non affondarono l'inseguimento, e ci fu così il tempo per voltare le insegne e per rivolgere il fronte dall'accampamento al nemico. I Romani si misero allora a incitarsi l'uno con l'altro e a rigettarsi nella mischia: i centurioni strappavano le insegne agli alfieri e le portavano avanti, gridando ai compagni che i nemici erano pochi e venivano allo sbaraglio con i reparti allo sbando. Nel frattempo il console, levando le mani al cielo e alzando la voce in modo che tutti lo potessero sentire, promise in voto un tempio a Giove Statore, se l'esercito romano avesse smesso di fuggire e si fosse lanciato nella mischia travolgendo le legioni sannite. In ogni parte dello schieramento tutti fecero quanto era nelle loro possibilità per riequilibrare le sorti della battaglia - comandanti, soldati semplici, fanti e cavalieri. Si ebbe l'impressione che a fianco dei Romani intervenisse anche una volontà divina, tanto facilmente venne capovolta la situazione: i nemici furono allontanati dall'accampamento e immediatamente risospinti verso il punto in cui la battaglia era iniziata. Là furono costretti a fermarsi perché la strada era sbarrata dai bagagli accatastati nel mezzo: allora, per impedire che i Romani vi mettessero mano, formarono un cerchio di uomini armati intorno ai bagagli stessi. Ma davanti erano pressati dalla fanteria, e alle spalle avevano i cavalieri. Così, presi nel mezzo, furono uccisi o fatti prigionieri. I prigionieri ammontarono a 7.800, che vennero spogliati dal primo all'ultimo e fatti passare sotto il giogo. I caduti toccarono il numero di 4.800. Ma anche per i Romani quella vittoria non fu una festa: quando infatti il console fece contare i soldati che mancavano all'appello dopo quei due giorni di scontri, gli venne riferito che le perdite raggiungevano le 7.800 unità.
Mentre in Apulia si verificavano questi eventi, l'altro esercito dei Sanniti tentò di conquistare Interamna, una colonia romana situata sulla via Latina, ma non riuscì nell'impresa. Allora il nemico mise a ferro e fuoco le campagne. Mentre però i Sanniti stavano trascinando via gli uomini - tra i quali c'erano dei coloni fatti prigionieri - e le bestie rastrellate, si imbatterono nel console che tornava vincitore da Luceria, e non si limitarono a perdere il bottino, ma finirono per essere massacrati perché procedevano in una formazione lunga e sfilacciata. Il console fece proclamare un bando col quale venivano convocati a Interamna i legittimi proprietari per riconoscere e riprendersi le rispettive cose, e lasciando lì l'esercito si spostò a Roma per presiedere le elezioni. Richiese il trionfo ma non gli fu accordato, perché aveva perduto tutte quelle migliaia di uomini, e perché aveva fatto passare i prigionieri sotto il giogo, senza però porre delle condizioni.
Bibliografia:
"Ab Urbe Condita", Tito Livio, Libro X