Battaglie In Sintesi
309 a.C.
Uomo politico romano e uno dei migliori generali durante la seconda guerra sannitica. Pretore nel 332 a. C., presentò la legge per il conferimento della cittadinanza senza suffragio ad Acerra. Fu cinque volte console, negli anni 326, 320, 319, 315, 313; secondo le testimonianze antiche due volte dittatore, nel 325 e nel 310, tre volte trionfatore, nel 325, nel 320, nel 310, ma i moderni ritengono falsa la seconda dittatura e mettono in dubbio i trionfi. La tradizione, che si presenta molto malsicura anche per gravi divergenze, gli attribuisce una vittoria sui Sanniti nel 325 e, cosa per niente credibile, la rivincita del disastro caudino nel 320; degna di maggior fede appare la conquista e la punizione di Satrico nel 319; certe le sue fortunate operazioni in Apulia nel 315, quando, secondo alcuni, Papirio conquistò Lucera; non del tutto improbabile la vittoria con cui nel 310 vendicò la sconfitta da C. Marcio Rutilo. Durante il consolato del 326 Papirio sarebbe stato, assieme al collega C. Petelio, autore della famosa lex Poetelia-Papiria in favore dei debitori; tale legge però è anche attribuita al dittatore Petelio, nel 313. Per le sue particolari doti Papirio può essere considerato un tipico rappresentante dei romani del buon tempo antico. L'annalistica e Livio lo esaltarono come un generale degno di stare alla pari di Alessandro Magno.
Poco tempo dopo la vittoria del Lago Vadimone, i Romani corsero un pericolo analogo, riportando però un successo altrettanto netto contro i Sanniti i quali, oltre agli altri preparativi militari, avevano fatto si che le loro armate fossero più splendenti grazie a una nuova e brillante armatura. Gli eserciti erano due: uno aveva lo scudo cesellato in oro, l'altro in argento. La forma dello scudo era questa: più largo in alto per coprire il petto e le spalle, il bordo livellato e, sul fondo, fatto a cuneo per renderlo più maneggevole. A protezione del torace avevano una corazza spugnosa, mentre per la gamba sinistra c'era uno schiniere. Gli elmi erano dotati di cresta, per accrescere l'imponenza delle persone. Le tuniche dei soldati provvisti di scudo dorato erano di varie tinte, mentre quelle dei soldati con lo scudo d'argento erano di lino bianchissimo. Ai primi venne affidata l'ala sinistra, ai secondi la destra. Ma i Romani erano già stati informati di quell'armatura splendente, e i comandanti avevano ricordato loro che il soldato deve avere un aspetto rude, non avere addosso armi cesellate d'oro e d'argento, ma confidare nella propria spada e nel proprio valore. A essere sinceri, non armi erano quelle, ma futuro bottino: brillanti prima dello scontro, segno di infamia tra il sangue e le ferite. Il valore era l'ornamento dei soldati: tutto quel prezioso splendore sarebbe stato il seguito della vittoria, e un nemico ricco era il premio del vincitore, per quanto povero questi potesse essere. Risollevati i suoi uomini con queste parole, Cursore li guidò in battaglia. Egli andò ad occupare l'ala destra, mentre alla sinistra collocò il maestro di cavalleria.
All'inizio dello scontro la lotta col nemico fu accesa, e non meno viva la competizione tra il dittatore e il maestro di cavalleria per stabilire chi avesse dato il via per primo alla vittoria. Il destino volle che Giunio fosse il primo a far indietreggiare i nemici, attaccando con l'ala sinistra il fianco destro del nemico (composto di uomini votatisi agli dei, secondo la tradizione sannita, e per questo vestiti tutti di bianco). Proclamando che avrebbe immolato i nemici all'Orco, Giunio si lanciò all'attacco e ne scompigliò le file, costringendo il fronte a indietreggiare sensibilmente dalla sua linea. Quando il dittatore se ne accorse, disse: "Allora la vittoria inizierà dall'ala sinistra, e l'ala destra, con le truppe del dittatore, starà a guardare le sorti del combattimento altrui, non farà la parte del leone nella vittoria?". Con questo intervento infiammò gli animi dei suoi soldati, e i cavalieri non furono da meno dei fanti quanto a valore dimostrato, così come i luogotenenti non lo furono rispetto ai comandanti. Marco Valerio all'ala destra, Publio Decio a sinistra (entrambi ex consoli), si lanciarono dalla parte dei cavalieri schierati alle due ali, esortandoli a conquistarsi la loro parte di gloria. Poi andarono all'assalto in diagonale contro i fianchi del nemico. Poichè questa nuova minaccia si era abbattuta sullo schieramento avversario da entrambe le parti, e la fanteria romana, vedendo i Sanniti in preda al panico, aveva di nuovo levato il grido di battaglia prendendo ad avanzare, i Sanniti cominciarono a fuggire. Le campagne già erano ingombre di cumuli di cadaveri e armi luccicanti.
In un primo momento i Sanniti, terrorizzati, si andarono a rifugiare nell'accampamento; poi però non riuscirono a tenere nemmeno questo, che prima del calar della notte venne conquistato, saccheggiato e dato alle fiamme. Su decreto del senato il dittatore ottenne il trionfo, il cui più splendido ornamento furono le armi strappate ai Sanniti. Sembrarono così straordinarie, che gli scudi dorati furono consegnati ai banchieri, affinché fungessero da addobbo per il Foro. Si dice che di lì sia nato l'uso degli edili di adornare il Foro per le processioni solenni sui carri. Mentre i Romani utilizzarono le armi dei nemici per rendere omaggio agli dei, i Campani, per sfrontatezza e risentimento verso i Sanniti, dotarono con quelle armature i gladiatori che si esibivano durante i banchetti, e diedero loro il nome di Sanniti. Nello stesso anno il console Fabio combatté contro i resti dell'esercito etrusco nei pressi di Perugia, che aveva violato la tregua, e conseguì una vittoria facile e netta. E avrebbe anche espugnato con la forza la città - alle cui mura si stava già avvicinando dopo la vittoria -, se non ne fossero usciti ambasciatori a offrire la resa. Lasciata una guarnigione armata a Perugia, il console mandò avanti in senato, a Roma, gli ambasciatori etruschi con la richiesta di un trattato di amicizia, ed entrò poi in città in trionfo, dopo aver conseguito una vittoria ancora più memorabile di quella del dittatore. A dir la verità, gran parte del merito della sconfitta inflitta ai Sanniti venne attribuito ai luogotenenti Publio Decio e Marco Valerio, i quali, nel corso delle successive elezioni, vennero nominati con ampia maggioranza console il primo e pretore il secondo.
Bibliografia:
"Ab Urbe Condita", Tito Livio, Libro IX