Battaglie In Sintesi
315 a.C.
Uomo politico e generale dell'età delle guerre sannitiche. Figlio di M. Fabio Ambusto, nel 325 magister equitum del dittatore Lucio Papirio Cursore, contro gli ordini di questo avrebbe attaccato battaglia e vinto i Sanniti, per cui sarebbe stato condannato a morte e poi perdonato. Nel 322 fu console e trionfò sui Sanniti; dittatore nel 315, fu vinto dai Sanniti al passo di Lautule presso Terracina; console ancora nel 310, sconfisse gli Etruschi presso Perugia; console nel 308, avrebbe combattuto in Etruria, nel Sannio e in Campania; censore nel 304, avrebbe limitato la riforma con cui Appio Claudio Cieco aveva iscritto in tutte le tribù i cittadini senza proprietà fondiaria; fu ancora console nel 297 e nel 295, anno in cui vinse, presso Sentino, Sanniti, Galli ed Etruschi.
In seguito il teatro delle operazioni cambiò: dal Sannio e dall'Apulia gli eserciti vennero trasferiti a Sora, città passata ai Sanniti dopo che i coloni romani ivi residenti erano stati uccisi. Siccome l'esercito romano vi era arrivato per primo a marce forzate nell'intento di vendicare l'uccisione dei concittadini e riappropriarsi della colonia, gli osservatori disseminati lungo le strade tornarono uno dopo l'altro riferendo che le truppe sannite seguivano da presso e si trovavano ormai non troppo lontane. I Romani andarono allora incontro al nemico, e a Lautule si combatté una battaglia dall'esito incerto. A separare i contendenti non furono né le perdite patite, né la fuga di una delle parti in causa, quanto piuttosto la notte, che lasciò gli uni e gli altri nel dubbio di essere vincitori o vinti. Presso alcuni autori Tito Livio riscontrò che l'esito di quella battaglia fu sfavorevole ai Romani e che in essa perse la vita il maestro di cavalleria Quinto Aulio. Per rimpiazzare il defunto, da Roma giunse con un nuovo esercito il maestro di cavalleria Gaio Fabio, il quale mandò avanti messaggeri per chiedere al dittatore un consiglio sul luogo appropriato per fermarsi, nonché sul momento e sulla direzione dalla quale il nemico avrebbe dovuto essere attaccato. Ottenute tutte le informazioni sul piano di battaglia, si attestò in un punto nascosto.
Il dittatore, dopo aver trattenuto per alcuni giorni dopo la battaglia i suoi uomini all'interno della trincea (così da farli sembrare più assediati che assedianti), diede all'improvviso il segnale di battaglia, e pensando che il più grosso stimolo per gli animi di uomini valorosi fosse riporre ogni speranza esclusivamente in se stessi, non rivelò loro l'arrivo imminente del maestro di cavalleria insieme al nuovo esercito. Come se quella sortita fosse l'unica speranza di salvezza, disse: "O soldati, siamo intrappolati in un luogo chiuso, e non abbiamo altra via d'uscita se non quella che ci potremo aprire con la vittoria. Il nostro accampamento è ben protetto dalle fortificazioni, ma esposto alla mancanza di viveri: infatti tutti i paesi dei dintorni che ci potevano far pervenire dei rifornimenti si sono ribellati, e se anche potessimo trovare aiuto negli esseri umani, a esserci avversi sono i luoghi. Per questo io non ho alcuna intenzione di ingannarvi lasciando l'accampamento qui, dove vi potreste rifugiare nel caso non vi dovesse arridere la vittoria, come successo nei giorni scorsi. Le fortificazioni devono essere protette dalle armi, e non le armi dalle fortificazioni. Un accampamento lo tengano e vi cerchino scampo quelli che hanno interesse a tirare la guerra per le lunghe: noi non dobbiamo considerare altro scampo se non nella vittoria. Gettatevi all'assalto del nemico: quando le truppe avranno superato la trincea, diano fuoco alle strutture quelli cui sarà stato dato ordine di farlo. Soldati, il danno che subirete sarà ricompensato dal bottino strappato a tutte le popolazioni dei dintorni che ci hanno tradito". I soldati si lanciarono contro i nemici infiammati dal discorso del dittatore, che aveva segnalato la gravità estrema del frangente; e anche lo scorgere dietro le spalle gli accampamenti in fiamme (benché per ordine del dittatore il fuoco fosse stato appiccato soltanto alle tende più vicine) fu motivo di forte incitamento. Lanciatisi in avanti come forsennati, travolsero al primo urto le file nemiche, e al momento opportuno il maestro di cavalleria, quando vide da lontano levarsi le fiamme dall'accampamento (era questo il segnale convenuto), assalì il nemico alle spalle. Così, presi tra due fronti, i Sanniti si diedero alla fuga sparpagliandosi dove meglio ciascuno riusciva, in tutte le direzioni. Una grande quantità di nemici, che in preda al terrore si erano asserragliati in cerchio e nella calca generale si intralciavano a vicenda nei movimenti, venne fatta a pezzi sul posto.
L'accampamento nemico venne preso e saccheggiato. Il dittatore riportò nel campo romano i soldati carichi di bottino, felici sia per la vittoria conseguita sia per aver ritrovato intatte le tende contro ogni speranza (fatta eccezione per una piccola area danneggiata dall'incendio). Pochi giorni dopo iniziò l'assedio romano alla città di Sora.
Bibliografia:
"Ab Urbe Condita", Tito Livio, Libro IX