Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Seconda Battaglia di Fidene

426 a.C.

Le Gens d'appartenenza del console

Emili Mamercii

I più antichi personaggi della gens Aemilia appaiono nei fasti consolari (e nella tradizione in genere) distinti col cognome di Mamerci o Mamercini, ma molto probabilmente Mamercus fu in origine usato soltanto come prenome, e soltanto dopo fu adoperato promiscuamente come prenome e come cognome. Nel V secolo a.C. lo portano come cognome Lucio Emilio Mamerco, console del 484, 478, 473 a.C. e Tiberio Emilio, console del 470, mentre come prenome lo usano i padri dei consoli del 484 e del 410; e come tale fu poi rimesso in uso dai Lepidi. I più notevoli personaggi che recarono il cognome di Mamercus o di Mamercinus furono: Lucio Emilio Mamerco, già ricordato, che, secondo la tradizione, sconfisse i Veienti, l'anno prima della strage dei Fabii; Mamerco Emilio Mamercino, dittatore nel 437, 434 e 426, che sottomise Fidene; Lucio Emilio Mamercino Privernate, il quale, console nel 341 e 329, nel primo anno costrinse i Sanniti a chieder pace e nel secondo trionfò sui Privernati, e Tiberio Emilio Mamercino, che, console nel 339, sconfisse ì Latini ai campi Fenectani.

La genesi

A Roma dai tribuni della plebe fu agitata la questione relativa alla nomina di tribuni militari con potere consolare, ma senza alcun successo. Furono eletti consoli Lucio Papirio Crasso e Lucio Giulio. Gli ambasciatori inviati dai Volsci al senato per chiedere un trattato d'alleanza, ricevendo in luogo del trattato una proposta di resa, chiesero e ottennero una tregua di otto anni. Oltre alla disfatta patita sull'Algido, i Volsci erano in quel momento invischiati in uno scontro senza fine tra i fautori della pace e i fautori della guerra, che provocò disordini e sedizioni: per i Romani ciò significò pace da ogni parte. I consoli, venuti a sapere, grazie alla denuncia di uno dei membri del collegio dei tribuni, che questi stavano per presentare una legge, molto gradita al popolo, sulla determinazione in denaro delle ammende, si affrettarono a proporla per primi. I consoli successivi furono Lucio Sergio Fidenate, per la seconda volta, e Ostio Lucrezio Tricipitino. Durante il loro consolato nulla accadde che sia degno di menzione. I successori furono Aulo Cornelio Cosso e Tito Quinzio Peno, al secondo mandato. I Veienti fecero delle incursioni in territorio romano. Corse voce che a quelle scorrerie avessero preso parte alcuni giovani di Fidene, e l'indagine sul fatto venne affidata a Lucio Sergio, a Quinto Servilio e a Mamerco Emilio. Alcuni Fidenati furono confinati a Ostia perché non era sufficientemente chiaro per qual motivo fossero assenti da Fidene proprio in quei giorni. Fu aumentato il numero dei coloni ai quali venne assegnata la terra dei caduti in guerra. Quell'anno la siccità creò molti disagi e non soltanto vennero a mancare le piogge, ma anche la terra, privata della sua naturale umidità, riuscì a malapena ad alimentare i fiumi perenni. In alcuni luoghi la mancanza di acqua decimò, intorno alle fonti e ai torrenti inariditi, il bestiame che moriva di sete. Altri animali furono uccisi dalla scabbia, poi le malattie contagiarono gli uomini: prima colpirono la gente di campagna e gli schiavi, poi la città ne fu piena. Non soltanto i corpi furono infettati, ma anche le menti suggestionate da riti magici di ogni genere di provenienza per lo più straniera, perché coloro che speculano sugli animi vittime della superstizione, con i loro vaticini riuscivano a introdurre nelle case strane cerimonie sacrificali; finché dello scandalo ormai pubblico non si resero conto le personalità più autorevoli della città, quando videro che in tutti i quartieri e in tutti i tempietti venivano offerti dei sacrifici espiatori, forestieri e insoliti, per implorare la benevolenza degli dei. Perciò diedero disposizione agli edili di controllare che non si venerassero divinità al di fuori di quelle romane e che i riti fossero soltanto quelli tramandati dai padri. La vendetta contro i Veienti fu rimandata all'anno successivo, in cui furono consoli Gaio Servilio Ahala e Lucio Papirio Mugillano. Ma anche allora lo scrupolo religioso impedì che si dichiarasse subito guerra e che si inviassero truppe. Si decise di mandare prima i feziali a chiedere soddisfazione. Coi Veienti ci si era scontrati poco tempo prima a Nomento e Fidene, e a quell'episodio aveva fatto seguito non la pace ma una tregua; il termine era ormai scaduto e, prima del termine, quelli avevano ripreso le ostilità. Ciononostante vennero inviati i feziali, ma quando questi, dopo aver giurato secondo il rito dei padri, chiesero soddisfazione, le loro parole non vennero nemmeno ascoltate. Si discusse allora se la guerra andava dichiarata su decisione del popolo o se bastava un decreto del senato. I tribuni, minacciando di impedire la leva, riuscirono a ottenere che il console Quinzio portasse di fronte al popolo la questione della guerra. Votarono tutte le centurie. La plebe ebbe la meglio anche su di un altro punto: ottenne che non si eleggessero consoli per l'anno successivo. Vennero così nominati quattro tribuni militari con potere consolare: Tito Quinzio Peno, già console, Gaio Furio, Marco Postumio e Aulo Cornelio Cosso. Di loro Cosso ebbe il governo della città, mentre gli altri tre, portata a compimento la leva militare, partirono alla volta di Veio e dimostrarono quanto in guerra sia dannoso dividere il comando tra più persone. Ciascuno prediligeva il proprio piano e siccome ognuno vedeva le cose in maniera diversa dagli altri, finirono con l'offrire al nemico l'occasione di un colpo di mano. Infatti, mentre le truppe erano disorientate perché c'era chi ordinava di dare la carica e chi la ritirata, i Veienti li assalirono sfruttando il momento propizio. Fuggendo disordinatamente i Romani ripararono nel vicino accampamento: si patì il disonore più che la sconfitta. La città, non abituata alle sconfitte, piombò nella costernazione; si odiavano i tribuni, si chiedeva un dittatore nel quale riporre le speranze di tutto il paese. Poiché anche in quella circostanza era di ostacolo lo scrupolo religioso, non potendo il dittatore essere nominato se non dal console, si consultarono gli auguri che tolsero quello scrupolo. Aulo Cornelio nominò dittatore Mamerco Emilio che a sua volta lo scelse come maestro della cavalleria. Così, quando il paese ebbe veramente bisogno di un uomo di qualità superiori, la punizione a suo tempo inflitta dai censori non impedì che il timone dello Stato fosse affidato a una famiglia ingiustamente bollata di infamia. Trascinati dal successo, i Veienti mandarono messaggeri ai popoli dell'Etruria ad annunciare pomposamente la loro vittoria su tre comandanti romani in una sola battaglia. Pur non essendo riusciti a ottenere alcuna alleanza ufficiale dalla confederazione, tuttavia attirarono da ogni parte volontari mossi dalla speranza del bottino. Soltanto i Fidenati decisero di riaprire le ostilità e, pensando che non fosse lecito iniziare una guerra se non con un delitto, come già prima con gli ambasciatori così ora macchiarono le loro spade col sangue dei nuovi coloni. Quindi si unirono ai Veienti. E poco dopo i capi dei due popoli si consultarono per scegliere, tra Veio e Fidene, come teatro di operazioni. Parve più opportuna Fidene, e i Veienti, attraversato il Tevere, trasferirono a Fidene il loro apparato bellico. A Roma regnava la paura. Richiamato da Veio l'esercito demoralizzato per la sconfitta, si pose l'accampamento di fronte alla porta Collina, si distribuirono uomini armati sulle mura, si sospese l'attività giudiziaria nel foro e si chiusero le botteghe: cose queste che dettero a Roma l'aspetto di un campo militare più che di una città. E il dittatore, mandati i banditori in giro per i quartieri, convocò in assemblea i cittadini smarriti e li rimproverò di essersi persi d'animo per un così lieve mutamento della sorte; per aver subito un piccolo scacco, oltretutto non dovuto al valore dei nemici o all'ignavia dell'esercito romano, ma alla mancanza di intesa tra i generali, avevano timore dei Veienti, da loro in passato già sconfitti ben sei volte, e di Fidene, città più spesso espugnata che assediata. Sia i Romani che i nemici erano gli stessi da molte generazioni: stesso carattere, stessa forza fisica, stesse armi. E anche lui era lo stesso dittatore Mamerco Emilio che, poco tempo prima, aveva sbaragliato a Nomento gli eserciti di Veienti e Fidenati, ai quali si erano uniti i Falisci; come maestro della cavalleria in campo di battaglia ci sarebbe stato quello stesso Aulo Cornelio che nella guerra precedente, come tribuno militare, aveva ucciso davanti a due eserciti il re dei Veienti Larte Tolumnio, e ne aveva portato poi le spoglie opime nel tempio di Giove Feretrio. Prendessero quindi le armi, ricordandosi che dalla parte loro c'erano i trionfi, le spoglie e la vittoria, mentre da quella del nemico l'orrendo assassinio degli ambasciatori uccisi contro il diritto delle genti, il massacro in tempo di pace dei coloni di Fidene, la rottura della tregua e la settima ribellione destinata a non avere successo. Non appena i due eserciti si fossero trovati a contatto, quegli infami nemici non si sarebbero rallegrati a lungo, ne era sicuro, dell'umiliazione inflitta all'esercito romano e il popolo romano avrebbe capito quanto più meritevoli verso la repubblica fossero quelli che lo avevano nominato dittatore per la terza volta di coloro che avevano bollato di infamia la sua seconda nomina, perché aveva tolto potere ai censori. Quindi parte, dopo aver pronunciato solenni voti agli dei, e si accampa a un miglio e mezzo da Fidene, protetto dalle alture a destra e dal fiume Tevere a sinistra. Al suo luogotenente Quinzio Peno ordina di occupare i monti e di prendere posizione su di un colle situato alle spalle dei nemici e fuori dalla loro vista.

La battaglia

Il mattino dopo, quando gli Etruschi avanzarono in ordine di battaglia, resi euforici dal successo del giorno precedente, dovuto più alla fortuna che al valore, il dittatore temporeggiò fino a quando le vedette gli riferirono che Quinzio aveva raggiunto la sommità del colle vicino alla cittadella di Fidene. Allora diede ordine di muoversi, guidando lui stesso a passo di carica la fanteria in assetto di guerra contro il nemico. Al maestro della cavalleria diede disposizione di combattere solo al suo comando: quando avesse avuto bisogno dell'intervento della cavalleria avrebbe dato un segnale; allora si Aulo Cornelio avrebbe dovuto dimostrare sul campo di non aver dimenticato la vittoria sul re etrusco, il dono opimo, Romolo e Giove Feretrio! Lo scontro tra le due armate fu tremendo. Infiammati dall'odio, i Romani chiamano traditori i Fidenati e predoni i Veienti; dicono che sono violatori di tregue, macchiati del barbaro assassinio degli ambasciatori e con le mani ancora sporche del sangue dei loro stessi coloni, alleati infidi e nemici imbelli. Così, con i fatti e con le parole, saziano il loro odio. Avevano fatto vacillare la resistenza dei nemici già al primo urto, quando all'improvviso si spalancarono le porte di Fidene e dalla città fuoriuscì uno strano esercito, inaudito e inusitato fino a quel momento; un'immensa moltitudine armata di fuochi, tutta sfavillante di torce ardenti che, lanciata in una corsa folle, si riversò sul nemico. Per un momento quell'insolito modo di combattere sbigotti i Romani. Allora il dittatore chiamò a sé il maestro della cavalleria coi suoi uomini e Quinzio dalle alture. Quindi, ravvivando egli stesso la battaglia, si precipitò all'ala sinistra che, come se si fosse trovata nel mezzo di un incendio più che in un combattimento, aveva cominciato a ripiegare terrorizzata dalle fiamme, e gridò: "Vinti dal fumo come uno sciame di api, cacciati dalla vostra posizione, cederete a un nemico senz'armi? Non volete spegnere il fuoco con la spada? Se c'è da combattere col fuoco e non con le armi, perché non andate a strappare tutte quelle torce e non attaccate il nemico con le sue stesse armi? Avanti! Memori del nome di Roma e del coraggio dei vostri padri e vostro: deviate quest'incendio sulla città nemica e distruggete con le sue stesse fiamme Fidene, che con i vostri benefici non siete riusciti a placare! Vi spingono a farlo il sangue dei vostri ambasciatori e dei coloni e la vostra terra messa a ferro e fuoco!" Tutto l'esercito si mise in moto agli ordini del dittatore. Raccolsero le torce che erano state lanciate, altre le strapparono con la forza ai nemici, così ora entrambi gli eserciti erano armati di fuoco. Il maestro della cavalleria da parte sua escogita un nuovo tipo di battaglia equestre. Ordina di togliere il morso ai cavalli, e per primo, dato di sprone, a briglia sciolta si getta in mezzo alle fiamme; e gli altri cavalli, spronati a correre senza più alcun impedimento, trascinano i cavalieri contro il nemico. La polvere che si alza, mista al fumo delle torce, offusca la vista a uomini e cavalli. Ma lo spettacolo inatteso che poco prima aveva atterrito i soldati non atterrì i cavalli, così i cavalieri seminarono morte e devastazione dovunque passavano. Si udì un nuovo clamore di guerra che attirò l'attenzione di entrambi gli eserciti. E il dittatore gridò allora che il luogotenente Quinzio aveva attaccato il nemico alle spalle. Poi, lui stesso, ripetuto l'urlo di guerra, si butta all'assalto con più accanimento. Due eserciti, con due diversi modi di combattere, incalzavano e circondavano, di fronte e alle spalle, gli Etruschi, che non avevano alcuna possibilità di ritirarsi nell'accampamento o sulle alture, dove era spuntato a frapporsi un nuovo contingente nemico. Mentre i cavalli, non più trattenuti dal morso, avevano trascinato da ogni parte i cavalieri, la maggior parte dei Veienti disordinatamente si dirige verso il Tevere, e i Fidenati superstiti cercano di raggiungere la città di Fidene. La fuga porta quegli uomini terrorizzati incontro alla morte: alcuni cadono trucidati sulle rive del fiume, altri, costretti a buttarsi in acqua, vengono travolti dalla corrente. Anche gli esperti nuotatori sono sopraffatti dallo sfinimento, dalle ferite e dalla paura. Fra tanti solo pochi riescono a raggiungere a nuoto la riva opposta. L'altra parte dell'esercito ripara in città passando attraverso l'accampamento. Trascinati dall'impeto, anche i Romani si buttano in quella direzione, specialmente Quinzio e i soldati che, appena scesi con lui dalle alture, sono più freschi e pronti alle fatiche, perché giunti alla fine dello scontro. Entrati in città mescolati ai nemici, gli uomini di Quinzio salgono sulle mura da dove danno ai compagni il segnale che la città è stata presa. Appena il dittatore lo vide - era anche lui già penetrato nell'accampamento deserto dei nemici -, conduce verso la porta i soldati impazienti di precipitarsi sul bottino, facendo loro balenare la speranza di ottenerne molto di più in città. E, accolto all'interno delle mura, marcia senza indugi in direzione della cittadella, dove vedeva riversarsi la massa scomposta dei fuggitivi. In città il massacro non fu certo minore che in battaglia; infine i nemici, gettate le armi, si consegnano al dittatore, chiedendo soltanto di aver salva la vita. Città e accampamento vengono messi a sacco.

Le conseguenze

Il giorno dopo, tra cavalieri e centurioni venne sorteggiato un prigioniero a testa. Due ne toccarono a quanti avevano dato prova di grandissimo valore. Il resto dei nemici venne venduto all'asta e il dittatore ricondusse in trionfo a Roma l'esercito vincitore e coperto di prede. Dopo aver ordinato al maestro della cavalleria di dimettersi dalla carica, abdicò anche lui, restituendo dopo quindici giorni in pace, quel potere che aveva accettato in guerra, quando la situazione era critica. Alcuni nei loro annali hanno riportato che presso Fidene ci fu anche una battaglia navale coi Veienti. La cosa è però assai improbabile perché neppure oggi il fiume è sufficientemente largo, e allora - come ci informano gli antichi - era assai più stretto. A meno che, come spesso succede, lo scontro fortuito di alcune navi che cercavano di impedire il guado del fiume, non sia stato esagerato per attribuirsi il vanto, ingiustificato, di una vittoria navale.