Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Battaglia di Fidene

437 a.C.

Gli avversari

Emili Mamercii

I più antichi personaggi della gens Aemilia appaiono nei fasti consolari (e nella tradizione in genere) distinti col cognome di Mamerci o Mamercini, ma molto probabilmente Mamercus fu in origine usato soltanto come prenome, e soltanto dopo fu adoperato promiscuamente come prenome e come cognome. Nel V secolo a.C. lo portano come cognome Lucio Emilio Mamerco, console del 484, 478, 473 a.C. e Tiberio Emilio, console del 470, mentre come prenome lo usano i padri dei consoli del 484 e del 410; e come tale fu poi rimesso in uso dai Lepidi. I più notevoli personaggi che recarono il cognome di Mamercus o di Mamercinus furono: Lucio Emilio Mamerco, già ricordato, che, secondo la tradizione, sconfisse i Veienti, l'anno prima della strage dei Fabii; Mamerco Emilio Mamercino, dittatore nel 437, 434 e 426, che sottomise Fidene; Lucio Emilio Mamercino Privernate, il quale, console nel 341 e 329, nel primo anno costrinse i Sanniti a chieder pace e nel secondo trionfò sui Privernati, e Tiberio Emilio Mamercino, che, console nel 339, sconfisse ì Latini ai campi Fenectani.


Tolùmnio (lat. Lars Tolumnius)

Re dei Veienti; uccise (438 a.C.) gli ambasciatori romani a lui inviati; fu successivamente ucciso in duello dal console Aulo Cornelio Cosso, il quale ne riportò le spoglie opime e le dedicò a Giove Feretrio. Il gentilizio Tolùmnio è attestato epigraficamente a Veio, da iscrizioni votive etrusche e latine, databili tra il VI e il III secolo a.C.

La genesi

La plebe, benché in quell'anno fosse stata agitata da molti e vari disordini, non elesse più di tre tribuni militari con potere consolare. Tra questi c'era anche Lucio Quinzio, figlio di Cincinnato, all'odiata dittatura del quale si faceva risalire la causa dei disordini. Quinzio fu preceduto per numero di voti da Mamerco Emilio, un uomo di grande prestigio. Terzo fu eletto Lucio Giulio. Durante la loro magistratura, la colonia romana di Fidene passò a Lars Tolumnio re dei Veienti. Ma alla defezione si aggiunse un delitto ancora peggiore: infatti, su ordine di Tolumnio, furono uccisi gli inviati romani Gaio Fulcino, Clelio Tullo, Spurio Aurio e Lucio Roscio, venuti a chiedere il motivo di quella strana decisione. Alcuni autori cercano di attenuare la responsabilità del re, dicendo che una frase ambigua, da lui pronunciata dopo un colpo di dadi fortunato, venne interpretata dai Fidenati come l'ordine di ucciderli: questa sarebbe stata la causa della morte degli inviati. Ma sembra piuttosto improbabile che all'arrivo dei Fidenati, i suoi nuovi alleati venuti a chiedergli lumi su un assassinio destinato a infrangere il diritto delle genti, il re non abbia distolto l'attenzione dal gioco, e che in seguito non abbia attribuito il delitto a un malinteso. È più facile credere che Tolumnio volesse coinvolgere i Fidenati nella responsabilità di un crimine tanto atroce in modo che non avessero più alcuna speranza di riconciliazione con i Romani. In memoria degli inviati uccisi a Fidene lo Stato fece collocare a sue spese delle statue nei rostri. Con Veienti e Fidenati, non solo per la vicinanza geografica a Roma, ma anche per l'atto esecrabile con il quale avevano scatenato la guerra, si annunciava uno scontro durissimo. Di conseguenza, poichè nell'interesse generale plebe e tribuni rimasero tranquilli, non si ebbe alcuna opposizione all'elezione dei consoli Marco Geganio Macrino, al suo terzo mandato, e Lucio Sergio Fidenate. Questi fu così soprannominato, credo, dalla guerra che in seguito condusse. Fu infatti lui il primo a combattere con successo, al di qua dell'Aniene, contro il re dei Veienti, ma si trattò di una vittoria cruenta. Così fu più grande il dolore per i cittadini caduti che la gioia per i nemici vinti e il senato, com'è normale in circostanze difficili, ordinò che Mamerco Emilio fosse nominato dittatore. E quest'ultimo nominò maestro della cavalleria Lucio Quinzio Cincinnato, giovane degno del padre, che l'anno precedente era stato suo collega in qualità di tribuno militare con potere consolare. Alle truppe arruolate dai consoli furono aggiunti dei centurioni che erano veterani di grande esperienza militare, e furono colmati i vuoti aperti dall'ultima battaglia. Il dittatore ordinò a Tito Quinzio Capitolino e a Marco Fabio Vibulano di seguirlo in qualità di luogotenenti. Il maggiore potere e il prestigio dell'uomo che lo deteneva indussero i nemici a ritirarsi dalla campagna romana, al di là dell'Aniene; essi trasferirono il campo sulle colline tra Fidene e l'Aniene, e di là non scesero a valle prima che arrivassero le legioni inviate in loro aiuto dai Falisci. Soltanto allora gli Etruschi si accamparono di fronte alle mura di Fidene. Anche il dittatore romano si accampò nelle immediate vicinanze, sulle rive dove i due fiumi confluiscono, in quel punto dove la modesta distanza tra i due fiumi gli permise di costruire una fortificazione tra sé e il nemico. Il giorno successivo schierò l'esercito in ordine di battaglia. Tra i nemici c'erano punti di vista molto diversi. I Falisci volevano subito lo scontro perché avevano fiducia in se stessi e mal sopportavano di combattere lontano da casa. I Veienti e i Fidenati riponevano invece maggiori speranze in un prolungamento della guerra. Tolumnio, pur condividendo il parere dei suoi uomini, per evitare che i Falisci dovessero sobbarcarsi a operazioni destinate ad andare per le lunghe, annunciò che avrebbe affrontato il nemico il giorno successivo. Intanto era cresciuto il coraggio nel dittatore e nei Romani perché il nemico evitava lo scontro. Il giorno dopo, quando i soldati sdegnati già minacciavano di assalire l'accampamento e la città se non si offriva occasione per battersi, entrambi gli eserciti avanzarono nello spazio di terra compreso tra i due accampamenti. Siccome il capo dei Veienti disponeva di molti uomini, mandò delle truppe ad aggirare le alture perché, nel corso della lotta, prendessero alle spalle il campo romano. L'esercito dei tre popoli nemici era schierato in modo che i Veienti tenessero l'ala destra, i Falisci la sinistra e i Fidenati il centro. Il dittatore mosse sulla destra contro i Falisci, Quinzio Capitolino sulla sinistra contro i Veienti. Il maestro della cavalleria si dispose con i suoi cavalieri all'attacco del centro.

La battaglia

Per qualche tempo vi fu silenzio e quiete perché da una parte gli Etruschi non avevano intenzione di lanciarsi nella battaglia, se non vi erano costretti, e dall'altra il dittatore romano fissava con insistenza la cittadella, da dove gli auguri dovevano inviare il segnale convenuto, non appena i presagi fossero stati propizi. Come vide il segnale, levato il grido di guerra, lanciò contro il nemico però primi i cavalieri, seguiti dalla schiera dei fanti che combatté con grande vigore. In nessuna parte le legioni etrusche riuscirono a reggere l'urto romano: i loro cavalieri offrivano la resistenza più tenace e il re in persona - il più forte, in assoluto, di tutti i cavalieri - prolungava la lotta avventandosi contro i Romani, mentre questi ultimi si sparpagliavano nella foga dell'inseguimento. Vi era allora, tra le fila dei cavalieri, il tribuno militare Aulo Cornelio Cosso; la sua straordinaria bellezza era pari al coraggio e alla forza. Orgoglioso del nome della sua stirpe, che aveva ereditato già insigne, fece in modo che diventasse per i suoi discendenti ancora più nobile e glorioso. Essendosi reso conto che Tolumnio, dovunque si buttasse all'assalto, seminava lo scompiglio tra gli squadroni romani, e avendolo riconosciuto mentre galoppava col suo abito regale su e giù per la linea di battaglia, urlò: è lui che ha violato il patto stipulato tra gli uomini e infranto il diritto delle genti? Allora, se gli dei vogliono che su questa terra ci sia ancora qualcosa di sacro, io lo offro come vittima sacrificale ai Mani degli ambasciatori uccisi!? E, spronato il cavallo, si buttò, lancia in resta, contro quel solo nemico. Dopo averlo colpito e disarcionato, facendo leva sulla lancia, scese anch'egli da cavallo. E mentre il re cercava di rialzarsi, Cosso lo gettò di nuovo a terra con lo scudo e poi, colpendolo ripetutamente, lo inchiodò al suolo con la lancia. Allora, trionfante, mostrando le armi tolte al cadavere e la testa mozzata infissa sulla punta dell'asta, volse in fuga i nemici, terrorizzati dall'uccisione del re. Così anche la cavalleria, che da sola aveva reso incerte le sorti dello scontro, fu disfatta. Il dittatore si buttò all'inseguimento delle legioni in fuga e, dopo averle spinte verso l'accampamento, le massacrò. La maggior parte dei Fidenati, conoscendo i luoghi, riuscì a fuggire sulle montagne. Cosso attraversò il Tevere con la cavalleria, riportando a Roma un ingente bottino razziato nel territorio di Veio. Mentre la battaglia era in pieno svolgimento, si combatté anche nei pressi dell'accampamento romano, dove ci fu lo scontro con le truppe inviate, come già detto, da Tolumnio proprio in quella direzione. Fabio Vibulano in un primo tempo difese la trincea disponendo gli uomini a semicerchio. Poi, mentre i nemici erano concentrati sul vallo, fece una sortita dalla porta principale sulla destra con i triarii e assalì gli avversari all'improvviso. Il panico che s'impossessò di loro provocò una strage minore che nella battaglia vera e propria perché erano in pochi, ma la fuga non fu meno precipitosa. Siccome l'impresa aveva avuto pieno successo, per decreto del senato e per volontà del popolo, il dittatore poté tornare a Roma in trionfo. Ma nel trionfo lo spettacolo più grande fu la vista di Cosso che avanzava reggendo le spoglie del re ucciso; in onore di Cosso i soldati cantavano rozzi inni nei quali lo paragonavano a Romolo. Egli, con la dedica rituale, appese in dono le spoglie nel tempio di Giove Feretrio, accanto a quelle conquistate da Romolo, che erano state le prime, e fino a quel momento le uniche, ad essere chiamate opime. Cosso si attirò gli sguardi dei cittadini distogliendoli dal cocchio del dittatore, così che la gloria di quel giorno fu quasi tutta sua. Per volontà del popolo, il dittatore offrì in dono a Giove sul Campidoglio, a spese dello Stato, una corona d'oro del peso di una libbra. Seguendo tutti gli scrittori che mi hanno preceduto, ho narrato come Aulo Cornelio Cosso abbia portato le seconde spoglie opime nel tempio di Giove Feretrio avendo il grado di tribuno militare. Ma, al di là del fatto che opime sono per tradizione soltanto le spoglie strappate da un comandante a un altro comandante e che il solo che noi riconosciamo come comandante è quello sotto i cui auspici viene condotta una guerra, l'iscrizione stessa posta su quelle spoglie confuta la tesi degli altri e la mia, dimostrando che Cosso quando le strappò era console.

Le conseguenze

Durante il consolato di Marco Cornelio Maluginense e Lucio Papirio Crasso, gli eserciti romani furono condotti nelle campagne dei Veienti e dei Falisci, riportandone un consistente bottino di uomini e di bestiame. In quelle zone non riuscirono mai a imbattersi nei nemici e non ci furono occasioni di venire alle armi. Tuttavia i centri abitati non vennero assediati perché una pestilenza si abbattè sulla popolazione. E poi a Roma erano scoppiati dei disordini, privi però di conseguenze: il tribuno della plebe Spurio Melio, il quale, per la popolarità del suo nome, pensava di poter suscitare sommosse, aveva citato in giudizio Minucio e proposto la confisca dei beni di Servilio Aala, sostenendo che Melio era stato vittima delle false accuse di Minucio e incolpando Servilio dell'uccisione di un cittadino non ancora condannato. Queste accuse ebbero presso il popolo minor credito dell'uomo che le lanciava. Erano motivo di ben più grande preoccupazione il progressivo aggravarsi dell'epidemia, e alcuni inquietanti prodigi, soprattutto perché circolava notizia di case crollate nelle campagne per continue scosse di terremoto. Per queste ragioni il popolo rivolse una supplica agli dei secondo la formula suggerita dai duumviri. L'anno successivo, sotto il consolato di Gaio Giulio, al suo secondo mandato, e di Lucio Verginio, la pestilenza si aggravò; tanto fu il terrore dello spopolamento da essa creato a Roma e nelle campagne che nessuno usciva al di fuori del territorio romano per compiere razzie; né patrizi né plebei pensavano a muovere guerre; inoltre, come se non bastasse, i Fidenati, rimasti fino a quel momento o sulle montagne o all'interno delle loro città fortificate, scesero a saccheggiare il territorio romano. Dopo aver fatto venire un esercito da Veio - i Falisci non si lasciarono convincere a riprendere le ostilità né dalle calamità dei Romani, né dalle pressioni degli alleati -, i due popoli attraversarono l'Aniene, avanzando fin quasi sotto la porta Collina. In città non meno che nelle campagne fu subito il panico. Mentre il console Giulio dispone i suoi uomini sulla cinta muraria e sul terrapieno, Verginio consulta il senato nel tempio di Quirino. Si decide di nominare dittatore Quinto Servilio, che alcuni sostengono fosse soprannominato Prisco e altri Strutto. Verginio prese tempo per consultarsi col collega, e, ottenutone il consenso, ratificò nella notte la nomina del dittatore. Questi nominò maestro della cavalleria Postumio Ebuzio Elva. Il dittatore ordinò a tutti di trovarsi fuori dalla porta Collina alle prime luci del giorno. Quelli che avevano forze sufficienti per portare armi si misero tutti a disposizione. Le insegne vennero prese dall'erario e consegnate al dittatore. Mentre si svolgevano tali preparativi, i nemici si ritirarono su posizioni più elevate. Il dittatore puntò contro di loro con le truppe pronte a dare battaglia e non lontano da Nomento si scontrò con le legioni etrusche mettendole in fuga. Di là le costrinse a riparare nella città di Fidene che circondò con un vallo. Ma la città, alta e ben fortificata, non poteva essere presa nemmeno con l'uso di scale, e l'assedio non serviva a nulla perché il frumento precedentemente raccolto non solo bastava alle necessità interne, ma avanzava. Perduta così ogni speranza sia di espugnare la città, sia di costringerla alla resa, il dittatore - che conosceva benissimo quella zona per la sua vicinanza a Roma - ordinò di scavare una galleria verso la cittadella, partendo dalla parte opposta della città, che risultava essere la meno vigilata essendo già ben protetta dalla sua stessa configurazione naturale. Poi, avanzando contro la città da punti diversissimi, dopo aver diviso in quattro gruppi le forze a disposizione - in maniera tale che ciascuno di essi potesse avvicendare l'altro durante la battaglia -, combattendo ininterrottamente giorno e notte il dittatore riuscì a distrarre l'attenzione dei nemici dallo scavo. Finché, scavato tutto il monte, fu aperto un passaggio dal campo alla cittadella. E mentre gli Etruschi continuavano a concentrarsi su vane minacce, senza rendersi conto del vero pericolo, l'urlo dei nemici sopra le loro teste fece loro capire che la città era stata presa. Quell'anno i censori Gaio Furio Paculo e Marco Geganio Macerino collaudarono in Campo Marzio un edificio pubblico nel quale ebbe luogo per la prima volta il censimento della popolazione.