Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Battaglia di Cornuda

8-9 Maggio 1848

Gli avversari

Andrea Ferrari

Generale e patriota, nato a Napoli verso il 1770, morto a Terracina il 2 luglio 1849. Entrato nell'esercito napoleonico, fece le campagne d'Egitto (1800) e di Spagna (1808); militò a Napoli sotto il Murat e restò poi in servizio nell'esercito borbonico. Nel 1820 aderì ai moti rivoluzionari per cui dovette esulare. Andato in Francia, nel 1831 prese servizio nella legione straniera e partecipò alla campagna d'Algeri, guadagnandosi la promozione a tenente colonnello; e tre anni dopo si recò in Spagna, dove guerreggiò tra le file dei costituzionali, rimanendo ferito. Passato di nuovo in Francia, servì nell'esercito regolare, e vi rimase fino al suo collocamento a riposo (1844). Durante il suo soggiorno in Francia ebbe relazione con gli esuli italiani, ed ebbe pure rapporti epistolari col Mazzini. Accolse l'invito del governo pontificio, che lo incaricò di formare una divisione composta di civici e di volontari, inviata nel Veneto contro gli Austriaci, affiancata all'esercito regolare comandato dal generale Giovanni Durando. Combatté a Cornuda (8 maggio 1848) e alle Castrette, presso Treviso; ma l'azione di lui ebbe molte critiche, anche perché egli si trovò talvolta in disaccordo col Durando. Partecipò alla difesa di Venezia, con una parte dei suoi volontari, con i quali rientrò nello stato pontificio solo nel dicembre. Durante la difesa di Roma, il governo repubblicano, data l'età e lo stato di salute del Ferrari, non poté affidargli se non il comando di un corpo d'osservazione a Terracina, dove il Ferrari rimase fino alla morte.


Barone Carlo Culoz

Generale Austriaco, nato a Hartberg in Stiria nel 1785, morto l'11 novembre 1862 a Venezia, dove si era ritirato a vita privata. Iniziò la carriera militare ancora giovane, raggiunse il grado di maggiore generale e brigadiere nel 1843 e venne inviato in Italia. Allo scoppiare della guerra prese il comando della sua divisione di stanza sull'Isonzo per avanzare verso Verona. Arrivato a Cornuda ricoprì un ruolo fondamentale nel corso della battaglia dell'8 e 9 maggio e sconfisse i volontari del generale Ferrari. Il 18 luglio 1848 fu nominato Feldmaresciallo e nel 1849 ricevette la Croce di cavaliere dell'Ordine di Maria Tersa. Comando' il presidio militare di Mantova dal 1849 al 1859.

La genesi

Non si può negare che il governo pontificio avesse fatto notevoli sforzi, negli ultimi mesi del '47 e nei primi del '48, per mettere in campo una discreta forza militare. Il suo era in realtà, ormai da tre secoli, un esercito destinato al mantenimento dell'ordine interno, più che a fare la guerra grossa contro agguerriti eserciti stranieri; ma la sua cattiva fama era fin eccessiva. Certo, le forze sue migliori erano costituite dai 2 reggimenti svizzeri, di 2 battaglioni ciascuno, costituenti la brigata Estera. Aveva poi la cosiddetta brigata Indigena, costituita di elementi dello Stato pontificio e formata di un reggimento di cacciatori, un altro di granatieri e un terzo di fucilieri, tutti di 2 battaglioni, ossia 6 battaglioni complessivi. In tutto, dunque, 10 battaglioni di fanteria. L'artiglieria era costituita da una batteria estera e una batteria indigena, entrambe di 8 pezzi, e la cavalleria di 5 squadroni, 2 di cacciatori a cavallo, e 3 di dragoni. Inoltre 600 carabinieri, parte a piedi e parte a cavallo, e che a rigore non dovevano considerarsi forza combattente, e 2 compagnie del genio. Questi reparti erano per solito, salvo gli svizzeri, lungi dall'essere al completo e grande era stato, negli ultimi mesi, lo sforzo per averli in piena efficienza. Essi costituivano la divisione regolare, forte di 7000 uomini con 800 cavalieri e 16 cannoni. A questa si erano poi aggregati diversi corpi franchi, o battaglioni che dir si voglia: dell'alto Reno, del basso Reno, di Bologna, di Ravenna, di Lugo, di Pesaro, di Gubbio, la compagnia ferrarese di bersaglieri o cacciatori del Po la compagnia di Faenza e il battaglione dì Faenza. In complesso, 8 battaglioni e 2 compagnie staccate: i battaglioni al solito erano piuttosto piccoli, dai 250 ai 500 uomini, cosicché i corpi volontari sommavano a 4000 uomini al più, mediocremente armati e istruiti, ma animati da grande spirito di patria e di libertà. E c'erano a guidarli patrioti ardenti, quali lo Zambeccari, il Montanari, il Mosti, il Caldesi, il Fasi. Nell'insieme, dunque, tale divisione aveva da 10 a 11 000 uomini, e la comandava il generale Giovanni Durando, già ufficiale piemontese, esule del '31 e combattente nel Portogallo e nella Spagna.

Accanto a questa, si trovava la divisione di volontari, affidata al colonnello Andrea Ferrari di Napoli. Essa aveva finito con l'esser costituita dalla la legione di Guardia Civica Mobile, formata di romani, dalla 2a e dalla 3a di romani e bolognesi, e dalla 4a, tuttora in formazione, di bolognesi: ogni legione (di fatto, un reggimento) era di 2 battaglioni, meno la 4a, pel momento di uno solo: quindi 7 battaglioni. Inoltre, il 1° reggimento volontari studenti, di 2 grossi battaglioni, il 2° e 3° reggimento volontari: in totale 6 battaglioni, e poi il battaglione studenti universitari. In complesso, dunque, 14 battaglioni di fanteria, per metà di guardie nazionali mobili, e per metà di volontari veri e propri. Inoltre, una batteria di 6 pezzi, 2 romani e 4 bolognesi, un piccolo squadrone di cavalleria e una compagnia dì treno e ambulanza. Dato però che i battaglioni, salvo quelli del reggimento volontari studenti, erano piccoli, dai 4 ai 600 uomini, la forza della divisione saliva a soli 7000 uomini, con 70 cavalieri e 6 cannoni. Il complesso del corpo d'armata pontificio dava dunque 17 o 18 000 uomini, con circa 900 cavalieri e 22 cannoni; una forza poco omogenea, di valore inuguale, ma pur animata da buon spirito e che ben utilizzata e unita ai volontari Veneti, avrebbe dovuto senz'altro bastare non solo a fermare il corpo del Nugent, ma pure a respingerlo, dato che questo doveva operare in un paese ricco di ostacoli naturali, con la popolazione nettamente ostile e con un clero tuttora animato da forte patriottismo e inneggiarne a Pio IX, che mandava il suo esercito a salvare il paese dai « barbari ». Se non che la situazione era aggravata dal costituirsi di un secondo corpo di riserva austriaco, destinato non più a soccorrere il Radetzky, ma soprattutto a completare l'assoggettamento del Veneto, sia col blocco di Palmanova e di Osoppo, sia presidiando le zone via via riconquistate e con la mira di compiere alla fine il blocco e l'assedio di Venezia. Ed esso già era forte di 3 brigate, di cui una bloccava Palmanova, un'altra presidiava Udine e curava il blocco di Osoppo; in totale disponeva di 8 battaglioni, uno squadrone di cannoni: 8000 uomini all'incarta. Cosicché si avevano nel Veneto i 16 200 uomini del I Corpo, gli 8000 del II, e i 2000 dislocati fra San Candido e Dobbiaco e ora scesi a Cortina d'Ampezzo: astraendo dalle forze del maresciallo Radetzky, già oltre 26 000 uomini.

Quasi nessuno al Quartier Generale piemontese voleva credere che l'Austria, con la tremenda crisi che attraversava, potesse riunire in pochi giorni 15 o 20 000 uomini sull'Isonzo! E quanto al Durando, egli aveva dapprima pensato che alla difesa del Veneto potesse bastare la divisione volontari. Quando poi ebbe contezza della gravita della situazione, ottenuto il permesso dal Quartier Generale piemontese, cercò di accorrere con grande celerità portando la divisione regolare su barconi lungo il Po, da Ostiglia a Polesella, e di lì procedendo su Rovigo e Monselice fino a Treviso, ove giungeva il 29 aprile. Subito il La Marmora e il Durando, col sottocapo di Stato Maggiore d'Azeglio, si recarono lungo il Piave. Per evitare però attriti fra i due comandanti il governo veneziano decideva di lasciare al Durando il compito delle operazioni contro il Nugent, mentre il La Marmora era richiamato a Venezia per curare la ricostituzione delle forze venete. Dal canto suo, il Durando decise di aspettare l'arrivo della divisione Ferrari, prima d'intraprendere azioni offensive. Dalla parte opposta, il compito del Nugent si faceva molto più arduo: dietro il Piave non c'erano solo poche centinaia di volontari, come dietro il Tagliamento, ma il Durando col corpo d'armata pontificio. E allora quella che doveva essere una semplice azione di copertura alla sua destra per collegarsi coi 2 battaglioni di Cortina d'Ampezzo, assunse l'aspetto ben diverso d'azione principale per giungere sul fianco e alle spalle delle forze pontificie. Come si è visto, un distaccamento austriaco, forte di 4 compagnie, era stato avviato al passo del Fadalto. Questo era occupato dai crociati bellunesi, reduci da Palmanova e dallo scontro di Visco, dove si erano battuti da prodi. Ricevuti rinforzi salivano ora a 500 uomini, e avevano ottenuto 2 cannoni da Venezia. Anche la resistenza fu lieve: se un primo attacco fu respinto la sera del 3 maggio, il giorno dopo gli austriaci potevano senza troppa fatica impadronirsi del passo e spingersi a Capo di Ponte dove però i volontari in ritirata incendiavano l'alto ponte sul Piave. Ma l'altra colonna, pure di 4 compagnie, che aveva proceduto per il passo di Sant'Ubaldo in direzione di Trichiana, giungeva di fronte a Belluno. Il Comitato bellunese voleva resistere; con l'aiuto degli agordini si avevano 600 armati contro i 1300 austriaci. Parve tuttavia opportuno, dato che ormai il Durando era sul Piave, non disperdere le forze in piccoli vani conati di resistenza: la città sarebbe stata presto rioccupata dai pontificii perciò i volontari ripiegavano su Feltre per unirsi alle schiere del Durando, e il 5 maggio gli austriaci entravano in Belluno. Essi erano del resto stati subito rinforzati dall'intera brigata Culoz, alla quale una seconda brigata teneva dietro. E senz'altro il giorno 6, il Culoz si portava a Feltre. Le operazioni austriache si erano fin qui svolte con grande successo. Erano fallite invece quelle tendenti ad aprire la strada d'Alemagna da Cortina d'Ampezzo a Capo di Ponte: i 2 battaglioni procedenti da Cortina erano stati fermati il 2 maggio al confine del Cadore, presso Chiappuzza, e vigorosamente respinti, mentre 6 compagnie mandate da Belluno erano nettamente rigettate nella stretta oltre Longarone e un nuovo tentativo delle forze di Cortina era frustrato alla chiusa di Venàs; cosicché il II Corpo d'armata di riserva doveva preparare una serie d'operazioni coordinate e concentriche contro il Cadore e le sue fiere popolazioni. Ma l'occupazione di Feltre era ben lungi dal significare la piena riuscita dell'ardita manovra. Da questa città si dipartivano due strade: una che, seguendo il corso del Piave, veniva a sboccare in pianura a Cornuda; e un'altra che, seguendo più a occidente il corso del Brenta, giungeva a Bassano; ambedue percorrendo valli strette e facilmente difendibili. Con la prima si poteva, però, in caso fortunato, compiere un aggiramento subito alle spalle della difesa del Piave; e coll'altra un aggiramento a raggio assai più ampio, col vantaggio di poter senz'altro proseguire su Vicenza e Verona. A rigore, anzi, da Feltre si poteva, per la Valsugana, giungere a Trento e quindi a Verona; ma il Nugent perseguiva l'ambizioso disegno di sottomettere prima il Veneto. Quanto al Durando, che già si vedeva minacciato alla sua sinistra, la possibilità che il nemico sboccasse a Cornuda o a Bassano, creava una pericolosa incertezza, qualora non avesse voluto suddividere le forze a protezione della sua sinistra in due nuclei. Gli austriaci mostravano intanto di voler forzare il Piave anche in pianura, lungo la strada da Oderzo a Treviso, oltre che al ponte della Priula; ma il 6 maggio il patriota bellunese Jacopo Tasso e il Palatini, comandante del corpo franco agordino, avvertivano il Durando di quanto era avvenuto nella media valle del Piave, esortandolo a sbarrare la stretta valle a Castelnuovo, a nord di Quero. Altre notizie davano che metà delle forze di Conegliano erano pure partite per Belluno. Decideva allora di avviarsi verso Quero colla brigata Estera, i 2 battaglioni Cacciatori Indigeni, alcuni squadroni e 8 cannoni, illudendosi che Feltre ancora non fosse occupata e di poter quindi sbarrare al nemico entrambi gli accessi alla pianura. Ma giunto a Quero, sapeva che la città era stata occupata e truppe austriache erano oltre Feltre, sulla strada di Quero. Il Nugent sarebbe sboccato al piano lungo il Piave o lungo il Brenta? Il Durando ritenne che avrebbe cercato di scendere verso Bassano, facendo una semplice finta dal lato di Quero e rimase ostinatamente, fatalmente in questa opinione.

Intanto, era giunta a Treviso la divisione Ferrari, o meglio i primi 7 battaglioni, mentre il resto era in movimento da Padova. Il governo provvisorio di questa città aveva anzi invitato, il 6 maggio, il Ferrari a risalire il Canale di Brenta fino a Primolano per sbarrare il passo agli austriaci; ma questi, chiamato a Treviso dal Durando, aveva dovuto rinunziarvi. Era però arrivato in Padova il generale Antonini, piemontese, veterano napoleonico, affiliato alla Giovine Italia, con un battaglione cosmopolita, da lui riunito in Francia e messo a disposizione del governo di Milano, che a sua volta l'aveva ceduto a quello di Venezia. Il Ferrari lo incaricava allora di compiere la ricognizione fino a Primolano; ma il governo veneziano lo chiamava presso di sé. A Primolano restarono 400 guardie civiche con 2 cannoni, e i crociati di Bassano e altri di Vicenza. Cominciava la serie degli ordini, dei contrordini, degli equivoci dannosi in qualsiasi esercito, più che mai nocivi in questa mescolanza di regolari pontifici e volontari romani e veneti! Il Ferrari, giunto a Treviso il 6 nel pomeriggio, non vi trovò il Durando, partito in direzione di Feltre; lo cercò il mattino del 7 a Montebelluna; ma anche da li', il Durando era partito. Allora di sua iniziativa conduceva a Montebelluna, dietro il Montello, a uguale distanza all'incirca da Cornuda e dal ponte della Priula, 7 dei suoi battaglioni. Ma ora gli giungevano due lettere del Durando. Questi si mostrava sempre piu' persuaso che il Nugent volesse sboccare a Bassano, facendo una semplice finta lungo il Canai di Piave; di conseguenza, comunicava che avrebbe portato la divisione regolare a Bassano, e gli ordinava di portarsi a Montebelluna, così da poter osservare il ponte della Priula e il Canai dì Piave, mandando da questo lato un piccolo corpo d'osservazione fino a Pederobba. Con una terza lettera, infine, confermava la sua partenza per Bassano e il Canai di Brenta, ordinando al Ferrari di restare a Montebelluna, mandando un'avanguardia verso Feltre. Metteva a sua disposizione 5 cannoni e 100 dragoni. Alla mezzanotte del 7 maggio, il Ferrari riusciva finalmente a vedere il Durando: entrambi avrebbero dovuto sostenersi a vicenda, agendo offensivamente appena si presentasse l'occasione. La mattina dell'8 il Durando era a Bassano e seppe che i crociati bassanesi s'erano urtati con gli austriaci. Era stata, in realtà, una piccola azione vittoriosa contro una cinquantina di croati in esplorazione da Feltre verso il Canai di Brenta (scontro di Fastro). Eppure esso valse a confermare il Durando nella persuasione che il Nugent tendesse a sboccare per la valle del Brenta. E poche ore dopo l'entrata del Durando in Bassano, l'avanguardia del Nugent urtava invece contro gli elementi avanzati della divisione Ferrari! Questa si trovava ancora in fase d'assestamento sulle posizioni che veniva occupando al piano e al margine della montagna. A Montebelluna stavano 3800 uomini con una avanguardia a Onigo, fra Cornuda e Pederobba, formata dai bersaglieri del Po, dai crociati bellunesi e da un centinaio di cavalieri, con 2 piccoli cannoni. Sul Piave, da Breda a Maserada, in posizione centrale fra Ponte dì Piave e il ponte della Priula erano altri 2500 o 3000 uomini, agli ordini del generale Guidotti, che aveva sostituito il La Marmora nella difesa del basso Piave, insieme di elementi disparatissimi: 2 battaglioni di granatieri pontifici, un battaglione di civici mobili bolognesi, i battaglioni volontari romagnoli, gli avanzi dei corpi veneti, 2 compagnie di volontari napoletani e siciliani. Ancora in marcia su Treviso, dove giungevano soltanto il 9, erano il 1° e 2° reggimento volontari. Dunque, il nucleo maggiore dei pontifici era a Bassano col generale Durando, un altro nucleo era a Montebelluna, a ventisette chilometri di distanza, col generale Ferrari, e un terzo minore ad altri ventidue chilometri di distanza, fra Breda e Maserada, a una decina di chilometri da Treviso. Questo mentre il Nugent aveva in val di Piave i tre quarti delle sue forze!

La battaglia

Nel pomeriggio dell'8 maggio, l'avanguardia austriaca, forte di 6 compagnie, urtava negli avamposti del Ferrari a Onigo: 1000 austriaci e un plotone di ulani (cavalleria leggera, armata di lancia, sciabola e pistola, molto simile ai lancieri) contro 300 volontari e 100 cavalieri. I volontari resistettero bravamente e da Montebelluna il Ferrari inviava 2 battaglioni di guardia mobile romana e uno di guardia mobile romagnola, il battaglione universitario, 2 cannoni, 40 carabinieri e lo squadrone di dragoni pontifici. Rinforzi giungevano pure agli austriaci e il Ferrari arretrava un pò la difesa sul poggio di Cornuda, coll'antìstante fiumicello Nassone, ultimo ostacolo naturale al nemico mirante a sboccare in pianura. La sera alle dieci, con due lettere successive, il Ferrari avvertiva il Durando della situazione, ma non chiamava a Cornuda altre truppe né da Montebelluna né dal Piave, che pure era in piena e non presentava pericolo di passaggio da parte del nemico. La mattina del 9 maggio cominciava lo scambio delle fucilate. Il generale Culoz portava in linea 13 compagnie, ossia circa 2200 uomini, più 6 cannoni e 4 racchette. Verso le 8 al Ferrari giunge una lettera del Durando da Bassano: ha mandato avanti un battaglione di cacciatori e spinta la brigata Estera a Crespano, in direzione di Valdobbiadene, mentre lui si prepara a porre il Quartier Generale ad Asolo. Ma alle undici arrivava un'altra lettera: sono state date le disposizioni per la marcia delle truppe, ma lui, Durando, nella sera tornerà per provvedere alla difesa di Primolano, e il battaglione cacciatori non giungerà che a sera. Il Ferrari si fa rispondere che urgono pronti soccorsi, le truppe sono da sei ore al fuoco; mezz'ora dopo mezzogiorno arriva un biglietto del Durando da Crespano: «Vengo correndo». Intanto gli austriaci erano rinforzati da un nuovo battaglione e il Ferrari, per poter resistere fino all'arrivo dei rinforzi del Durando, chiamava un battaglione romano di guardia mobile da Montebelluna, mentre, per guadagnar tempo, ordinava ai dragoni di caricare lungo la strada: a tale carica sarebbe seguito un attacco dei suoi granatieri, cacciatori e bersaglieri. I dragoni caricavano con mirabile slancio e il loro sacrificio valeva a fermare il nemico soverchiante; ma dì 50 non ne tornavano che 10. Alle tre, altri 2 battaglioni austriaci giungevano da Feltre e iniziavano un'azione avvolgente da Levada verso Cornuda: 6000 austriaci con 6 cannoni e varie racchette incalzavano i 2000 uomini del Ferrari, ormai stanchissimi, che correvano il rischio d'essere avviluppati e tagliati fuori. E allora, alle cinque pomeridiane, dopo che il combattimento si trascinava da ben dodici ore, il generale Ferrari si decideva, visto che nessun rinforzo appariva, a ordinare la ritirata. Il battaglione mobile chiamato da Cornuda incontrava per strada le truppe ormai in ritirata, stanchissime e esasperate per non aver visto in tante ore giungere nessun soccorso. All'avvicinarsi a Montebelluna comincia a spargersi la voce di tradimento, le file si sciolgono e la massa, anziché fermarsi, prosegue per Treviso. E finivano col retrocedere su Treviso anche le truppe che erano a guardia del Piave e gran parte di quelle rimaste a Montebelluna. In questo modo gli austriaci avevano ormai via libera oltre il Piave. Però si trovavano a dover passare fra Treviso, ove avevano finito col riunirsi tutti i volontari, e Bassano, ove si trovava il Durando. La loro situazione avrebbe potuto non essere lieta. Ma il combattimento di Cornuda aveva mostrato le grandi deficienze di comando da parte del Ferrari e del Durando: il primo, di 3800 uomini che aveva a Montebelluna, non ne aveva impegnati che 2000 o 2500 al massimo, e il secondo, fisso nell'idea della calata austriaca per Canai di Brenta, per tutta la giornata non aveva mandato un solo uomo. Lievi nell'insieme le perdite dalle due parti; gli austriaci confessarono 7 morti e 25 feriti e attribuirono agli italiani 30 morti e 150 feriti. In realtà, da parte italiana si conobbero esattamente solo quelle dei dragoni pontifici: 40 fra morti e feriti (80 per cento!)

Le conseguenze

Comunque non potevano essere 100 o 150 morti e feriti un grande fattore di scoraggiamento; lo era invece il convincimento ormai diffuso d'essere malissimo guidati. Specialmente milizie volontarie, mediocremente inquadrate e armate, avrebbero avuto bisogno di qualche successo iniziale che alimentasse o almeno non lasciasse spegnere il loro primitivo entusiasmo, e valesse a rinvigorire la disciplina. Invece i volontari avevano l'impressione d'essere stati abbandonati, oltre che mal guidati, e in elementi eterogenei certi errori, a prima vista mal spiegabili, si mutavano in sospetto e in accusa addirittura di tradimento. E le accuse dal Durando e dal Ferrari sì estendevano ai bellunesi e ai feltrini, che non avevano resistito almeno qualche giorno, allo scarso numero dì volontari veneti, al nessun aiuto da parte dei piemontesi e via di seguito.



Tratto da: "Storia militare del Risorgimento", Piero Pieri, Torino, Einaudi, 1962