Battaglie In Sintesi
446 a.C.
Fu eletto per la prima volta console nel 471 a.C. con il collega Appio Claudio Sabino Inregillense, quest'ultimo eletto grazie all'appoggio dei patrizi, che si opponevano alla Lex Publilia Voleronis. Durante il conflitto tra Patrizi e Plebei per l'approvazione della legge, Tito Quinzio assunse una posizione meno intransigente di quella del collega, risultando poi determinante nello stemperare le tensioni tra i due ordini, impedendo che si arrivasse ad un conflitto aperto; il suo intervento risultò altrettanto determinante a salvare il collega dalla folla inferocita, durante uno dei comizi in cui si discuteva della legge. Approvata la legge, ad Appio Claudio spettò il comando della campagna contro i Volsci e a Quinzio quella contro gli Equi; queste due popolazioni, come accadeva ogni qualvolta Roma era percorsa da tensioni e disordini sociali, ne avevano approfittato per compiere razzie e ruberie nei territori romani. Diversamente dalla campagna contro i Volsci, con gli Equi si verificò una disfatta per i romani a causa delle tensioni esistenti tra Plebei, che costituivano la fanteria, ed i Patrizi, cui appartenevano il console e gli ufficiali. Nonostante questo la campagna contro gli Equi, si risolse positivamente, anche grazie alle azioni conciliatorie poste in essere dal console.
Nel 468 a.C. venne eletto console per la seconda volta insieme a Quinto Servilio Prisco con i soli voti dei patrizi, visto che i plebei si rifiutarono di partecipare allo scrutinio. A Quinto venne affidata la campagna contro i Sabini che avevano duramente saccheggiato i territori di Crustumerium, arrivando fin sotto porta Collina, mentre al collega fu affidata la campagna contro i Volsci ed Equi, alleatisi contro Roma. Durante la campagna contro i Volsci, seppur partendo da una posizione di inferiorità numerica e di posizione, il console e il suo esercito riuscirono ad avere la meglio sul campo dei Volsci, che batterono in ritirata verso Anzio. Qui i romani posero l'assedio, riuscendo in pochi giorni a far capitolare la città, più che per l'azione militare, per la demoralizzazione che aveva colto i Volsci, dopo le sconfitte subite in campo aperto. Per questa impresa a Quinzio fu concesso il trionfo. Nel 465 a.C. venne eletto console per la terza volta, insieme a Quinto Fabio Vibulano, unico superstite della gens Fabia, al suo secondo consolato. Insieme al collega console portò due eserciti romani nel territorio degli Equi, colpevoli di non aver mantenuto la pace con i romani, danneggiandoli con frequenti razzie. La battaglia che si svolse sul Monte Algido fu favorevole ai romani, che posero l'assedio al campo nemico.
Nel 446 a.C. venne eletto console per la quarta volta, insieme a Agrippa Furio Medullino Fuso. Approfittando dei dissidi interni a Roma, tra Patrizi e Plebei, per l'ennesima volta Volsci ed Equi avevano razziato le campagne di Roma, arrivando impunemente fin sotto le mura della città. Approntato in breve tempo l'esercito, Agrippa Furio cedette il comando delle proprie legioni a Tito Quinzio per affrontare più efficacemente lo scontro, un atto non dovuto, che gli valse la stima e riconoscenza del collega. Lo scontro fu breve e cruento, e i romani vittoriosi, tornarono in città con un grande bottino. L'anno consolare fu però macchiato dalla decisione del popolo romano riunito, sobillato Publio Scapzio, di avocare a Roma la proprietà di territori contesi tra Ardea ed Ariccia, per i quali le popolazioni delle due città avevano chiesto il giudizio di Roma. Nel 444 a.C., a seguito del decreto con cui gli auguri avevano dichiarato nulla l'elezione dei primi tre tribuni consolari eletti per quell'anno, Tito Quinzio fu nominato Interrex dai patrizi. «L'interregno durò parecchi giorni, perché non si riusciva a decidere se si dovessero nominare i consoli o i tribuni militari» (Tito Livio, "Ab Urbe Condita", IV, 7). Alla fine i patrizi ebbero le meglio sui plebei, e Tito nominò Lucio Sempronio Atratino e Lucio Papirio Mugillano consoli per il resto dell'anno. Fu eletto al quinto consolato nel 443 a.C., insieme a Marco Geganio Macerino, al suo secondo consolato[26]. In quell'anno fu istituita la magistratura del censore, soprattutto per alleviare i consoli dai compiti del censimento. Mentre a Marco Geganio fu affidato il compito di ristabilire l'ordine ad Ardea, alleata di Roma, dove i plebei ardeatini assediavano i patrizi, asserragliati sulla rocca cittadina, Tito rimase a Roma per amministrare la città, riuscendo a garantire i diritti dei patrizi e della plebe, senza che per quell'anno si registrassero scontri tra i due ordini. Fu eletto al sesto consolato nel 439 a.C., insieme a Agrippa Menenio Lanato. Lucio Minucio, eletto prefetto all'Annona anche per quell'anno, accusò Spurio Melio di complottare per restaurare la monarchia. Tito Quinzio, accusato dal Senato di non essersi adoperato abbastanza per scongiurare il complotto, propone di conferire a Cincinnato la dittatura, in modo che potesse agire con i pieni poteri della carica. Scongiurato il complotto con l'uccisione di Spurio Melio ad opera di Gaio Servilio Strutto Ahala, sostenuto nel suo operato dal dittatore, i senatori dovettero però cedere alle pressioni dei tribuni della plebe, che per l'anno successivo il governo di Roma fosse retto dai tribuni consolari. Il suo ultimo ruolo fu quello di legato sotto il dittatore Mamerco Emilio Mamercino, a cui era stata affidata la conduzione della campagna militare contro Fidene nel 437 a.C.
Vennero eletti consoli Tito Quinzio Capitolino, per la quarta volta, e Agrippa Furio. A costoro non toccarono né disordini interni né conflitti all'esterno, benché sia gli uni, sia gli altri incombessero. Infatti non era più possibile contenere la discordia civile, visto il risentimento nutrito da plebe e tribuni nei confronti degli aristocratici, e in considerazione del fatto che i processi a carico di questo o di quell'altro nobile provocavano sempre nuovi disordini che turbavano le assemblee. Non appena si verificarono i primi contrasti, come se fossero stati un segnale, Volsci ed Equi presero le armi; i loro comandanti, avidi di bottino, li avevano persuasi che a Roma nel biennio precedente non era stato possibile indire la leva perché la plebe rifiutava ormai ogni tipo di disciplina: per quel motivo non era stato inviato alcun esercito contro di loro. La dissolutezza aveva ormai sbriciolato ogni tradizione militare, e Roma non era più la patria comune. Tutta la rabbia e il rancore che un tempo avevano nei riguardi degli stranieri, ora li riversavano su se stessi. Quella era l'occasione per sterminare quei lupi accecati da una rabbia che li spingeva l'uno contro l'altro. Così, dopo aver unito i propri eserciti, Volsci ed Equi cominciarono col devastare le campagne latine. Poi, quando videro che nessuno accorreva in aiuto di quelle popolazioni, fra l'esultanza di quanti avevano fomentato la guerra, di razzia in razzia, arrivarono fin sotto le mura di Roma in direzione della porta Esquilina, e qui cominciarono a sbeffeggiare gli abitanti indicando loro le campagne devastate. Dopo che si furono ritirati impuniti procedendo a passo di marcia in direzione di Corbione e con il bottino bene in vista alla testa dello schieramento, il console Quinzio convocò l'assemblea del popolo.
Là - almeno a quanto ho trovato io - parlò in questi termini: «Benché io sia conscio di non aver alcuna colpa, o Quiriti, ciononostante è con estrema vergogna ch'io mi presento al cospetto di questa assemblea. Voi sapete, e un giorno verrà tramandato ai posteri, che, durante il quarto consolato di Tito Quinzio, Volsci ed Equi - un tempo appena all'altezza degli Ernici - sono giunti impunemente fin sotto le mura di Roma con le armi in pugno. Benché ormai da tempo la situazione sia tale da non lasciar presagire nulla di buono, ciononostante, se solo avessi saputo che l'anno ci riservava un episodio così funesto, avrei evitato questa ignominia, anche a costo di andare in esilio o di togliermi la vita, ove non mi restassero altri mezzi per sottrarmi a questa carica. Se fossero stati uomini degni di questo nome quelli che si sono presentati con le armi in pugno di fronte alle nostre porte, Roma avrebbe potuto esser presa sotto il mio consolato! Avevo avuto onori a sufficienza e vita a sufficienza, anzi fin troppo lunga: avrei dovuto morire durante il mio terzo consolato. Ma a chi hanno riservato il loro disprezzo i nostri più vili nemici? A noi consoli, oppure a voi, o Quiriti? Se la colpa è nostra, allora privateci di un'autorità della quale non siamo degni. E se poi questo non basta, aggiungete anche una punizione. Se invece la responsabilità ricade su di voi, l'augurio è che né gli dei né gli uomini vi facciano pagare i vostri errori, ma siate soltanto voi stessi a pentirvene. I nemici non hanno disprezzato la codardia che è in voi, ma nemmeno riposto eccessiva fiducia nel proprio coraggio. A dir la verità è toccato loro molte volte di essere sbaragliati e messi in fuga, privati dell'accampamento e di parte del territorio, nonché di passare sotto il giogo, e conoscono voi e se stessi! No, sono la discordia delle classi e gli eterni contrasti - vero veleno di questa città - tra patrizi e plebei, che hanno risollevato il loro animo, perché noi non moderiamo il nostro potere e voi la vostra libertà, voi siete insofferenti nei confronti dei patrizi e noi nei confronti delle magistrature plebee. Ma in nome degli dei, cosa volete? Morivate dalla voglia di avere dei tribuni della plebe, in nome della concordia sociale ve li abbiamo concessi. Desideravate i decemviri: ne abbiamo autorizzato l'elezione. Vi siete stancati dei decemviri, li abbiamo costretti ad abbandonare la carica. Continuavate a odiarli anche quando erano ormai tornati dei privati cittadini, abbiamo tollerato che uomini molto nobili e onorati venissero condannati a morte e all'esilio. Poi vi è di nuovo venuta la voglia di eleggere dei tribuni, li avete eletti, e di nominare consoli dei membri della vostra parte e noi, pur sembrandoci ingiusto nei confronti dell'aristocrazia, siamo arrivati al punto di vedere quella grande magistratura patrizia offerta in dono alla plebe. L'intromissione dei tribuni, l'appello di fronte al popolo, i decreti approvati dalla plebe e imposti al patriziato, i nostri diritti calpestati in nome dell'eguaglianza delle leggi, tutto abbiamo sopportato e sopportiamo. In che modo potranno mai avere fine i contrasti? Verrà mai il giorno in cui sarà possibile avere una sola città unita e considerarla la patria comune? Noi, che ne usciamo sconfitti, accettiamo la situazione con animo più sereno di quanto non facciate voi, che pure siete i vincitori. Non vi basta che noi dobbiamo temervi? Contro di noi è stato preso l'Aventino, contro di noi è stato occupato il monte Sacro. Abbiamo visto l'Esquilino quasi preso dal nemico e i Volsci apprestarsi a scalare le mura di Roma: nessuno ha avuto il coraggio di andarli a ricacciare indietro. Solo contro di noi voi siete dei veri uomini, solo contro di noi impugnate le armi».
«Forza dunque: visto che siete riusciti ad assediare la curia, a trasformare il foro in una tana di insidie e a riempire le patrie prigioni di uomini eminenti, dimostrate la stessa audacia, uscite dalla porta Esquilina. Ma se non siete neppure all'altezza di un gesto del genere, allora andate a vedere dall'alto delle mura i vostri campi messi a ferro e fuoco, le vostre cose portate via e il fumo degli incendi che sale qua e là nel cielo dalle case in fiamme. Ma voi potreste obiettare che chi sta peggio è lo Stato, con le campagne che bruciano, la città assediata e la gloria militare lasciata solo ai nemici. E con questo? Credete che i vostri interessi privati non si trovino nella stessa situazione? Presto dalla campagna arriverà a ciascuno di voi la notizia delle perdite subite. Che cosa c'è qui in patria, in grado di risarcirle? Ci penseranno i tribuni a restituirvi quel che avete perduto? Vi prodigheranno a sazietà parole e chiacchiere, accuse contro cittadini in vista, leggi su leggi e concioni. Ma da quelle concioni nessuno di voi è mai tornato a casa più ricco di beni e di denaro. O c'è mai stato qualcuno che abbia riportato a moglie e figli altro che risentimento, antipatie e gelosie pubbliche e private dalle quali siete stati protetti non certo per il vostro valore e la vostra integrità, ma per l'aiuto ricevuto da altri? Ma, per Ercole, quando eravate al servizio di noi consoli e non dei tribuni, e nell'accampamento invece che nel Foro, quando il vostro urlo spaventava il nemico in battaglia e non i senatori romani in assemblea, dopo aver fatto bottino e dopo aver conquistato terre al nemico, tornavate a casa, ai vostri Penati, carichi di preda, coperti di gloria e di successi conquistati per la patria e per voi stessi! Ora invece permettete che i nemici se ne vadano carichi delle vostre ricchezze. Tenetevele strette le vostre assemblee e continuate pure a vivere nel Foro: ma la necessità di prendere le armi - da cui rifuggite - vi incalza. Vi pesava marciare contro Equi e Volsci? Ora la guerra è alle porte. Se non si riuscirà ad allontanarla, presto si trasferirà all'interno delle mura e salirà fino alla rocca del Campidoglio, perseguitandovi anche dentro le case. Due anni or sono il senato bandì una leva militare e poi diede ordine di condurre le truppe sull'Algido: noi ora ce ne stiamo qui oziosi, litigando come donnicciole, contenti della pace del momento e incapaci di prevedere che da questo breve periodo di tregua la guerra risorgerà mille volte più grande. So benissimo che ci sono cose molto più piacevoli a dirsi. Ma a parlare di cose vere anziché di gradite, anche se non mi ci inducesse il mio carattere, mi obbliga la necessità. Vorrei davvero piacervi, o Quiriti, ma preferisco di gran lunga vedervi sani e salvi, qualunque sia il sentimento che nutrirete in futuro nei miei confronti. Dalla natura è stato disposto così: chi parla in pubblico per interesse personale è più gradito di chi ha invece al vertice dei suoi pensieri solo l'interesse dell'intera comunità; a meno che per caso non crediate che tutti questi adulatori del popolo e questi demagoghi che oggi non vi permettono né di combattere né di starvene tranquilli vi incitino e vi stimolino nel vostro interesse. La vostra agitazione è per loro titolo di merito o ragione di profitto; e siccome quando regna la concordia tra le classi essi sanno di non essere nulla, preferiscono mettersi a capo di tumulti e sedizioni, preferiscono fare azioni malvage piuttosto che nulla. Se esiste una possibilità che alla fine tutto ciò arrivi a disgustarvi e che vogliate tornare alle vostre abitudini di un tempo e a quelle dei vostri antenati, rinunciando alle funeste innovazioni, vi autorizzo a punirmi se nel giro di pochi giorni non sarò riuscito a sbaragliare questi devastatori delle nostre campagne dopo averli sradicati dall'accampamento, e a trasferire da sotto le nostre mura alle loro città questa paura di un conflitto che ora vi paralizza?»
Raramente, in altre occasioni, il discorso di un tribuno popolare ebbe presso la plebe un'accoglienza più entusiastica di quella toccata allora alla durissima requisitoria del console. Perfino i giovani, che in situazioni così critiche avevano di solito nella renitenza alla leva l'arma più affilata contro il patriziato, guardavano invece con impazienza alle armi e alla guerra. E siccome i contadini fuggiti dopo essere stati depredati e feriti mentre si trovavano nella campagna riferivano di atrocità ben più gravi di quelle che erano sotto gli occhi, un'ondata di sdegno travolse l'intera città. Quando si riunì il senato, a dir la verità tutti si voltarono verso Quinzio, guardandolo come il solo vendicatore della maestà di Roma. I senatori più autorevoli dichiararono che il suo discorso era stato all'altezza dell'autorità consolare, degno cioè dei molti consolati detenuti in passato e dell'intera sua vita, che era stata piena di riconoscimenti a lui spesso tributati e anche più spesso da lui meritati. Altri consoli avevano in passato o adulato la plebe tradendo la dignità dei senatori oppure, insistendo in un'accanita difesa dei diritti della loro classe, avevano esasperato la massa cercando a tutti i costi di soggiogarla; nel suo discorso Tito Quinzio aveva tenuto conto della dignità dei senatori, della concordia tra le classi e - soprattutto - della situazione di fatto. Implorarono lui e il suo collega di prendere in mano le redini dello Stato e pregarono i tribuni di predisporsi ad agire di conserva con i consoli, nel tentativo di allontanare la guerra dalle mura di Roma, supplicandoli anche di fare in modo che in circostanze così allarmanti la plebe accettasse di obbedire ai senatori. Dissero inoltre che la patria comune, vedendo le devastazioni nelle campagne e la città quasi stretta d'assedio, si rivolgeva ai tribuni invocandone l'aiuto. All'unanimità venne quindi decretata e subito messa in pratica la leva militare. Di fronte all'assemblea i consoli proclamarono che non c'era tempo per valutare i motivi per esentare dal servizio, e dunque i più giovani - nessuno escluso - dovevano presentarsi in campo Marzio all'alba del giorno successivo; solo a guerra finita si sarebbe trovato il tempo di valutare la giustificazione di chi non era andato ad arruolarsi; e quanti avessero addotto delle motivazioni poi giudicate non sufficientemente valide avrebbero ricevuto il trattamento riservato ai disertori. Il giorno successivo tutti i giovani si presentarono. Ciascuna coorte si scelse autonomamente i propri centurioni e due senatori vennero posti al comando di ognuna di esse. Ho trovato che questi preparativi furono portati a termine così rapidamente che, nel corso di quella stessa giornata, le insegne furono prelevate dai questori nell'erario, trasferite in Campo Marzio e di lì, alla quarta ora del giorno si misero in movimento. E il nuovo esercito, scortato volontariamente da poche coorti di veterani, alla sera si accampò a dieci miglia da Roma. Il giorno successivo venne avvistato il nemico, e gli accampamenti vennero a trovarsi uno a ridosso dell'altro, nei pressi di Corbione. Il terzo giorno, dato che i Romani erano in preda alla rabbia e gli altri - che si erano già più volte ribellati - consci delle proprie colpe e disperati, nessuno tentò di ritardare in alcun modo la battaglia.
Benché nell'esercito romano i due consoli avessero la stessa autorità, tuttavia in quell'occasione Agrippa lasciò il comando supremo al collega, il che è molto utile quando si devono prendere decisioni di estrema importanza. E il prescelto Tito Quinzio ricambiò il generoso gesto comunicando al collega, che si era posto volontariamente in sottordine, i propri piani, e condividendone i meriti, e considerandolo a lui pari ancorché ormai inferiore di grado. Nello schieramento sul campo Quinzio tenne l'ala destra e Agrippa la sinistra. Al luogotenente Spurio Postumio Albo fu affidato il centro, a capo della cavalleria fu posto Publio Sulpicio, l'altro luogotenente. All'ala destra la fanteria si batté con estremo accanimento, ma la resistenza dei Volsci non fu da meno. Publio Sulpicio fece breccia con la cavalleria nel centro dello schieramento nemico. Avrebbe potuto rientrare nei ranghi dalla stessa parte e prima che il nemico avesse avuto il tempo di riformare le linee sconvolte: invece ritenne più opportuno prendere i Volsci alle spalle. Caricandoli da dietro avrebbe disperso in un attimo i nemici atterriti da due attacchi simultanei se i cavalieri dei Volsci e degli Equi, impegnandolo separatamente, non lo avessero contenuto per un po'. Ma in quell'istante Sulpicio gridò che non c'era più tempo da perdere e che sarebbero stati circondati e tagliati fuori dal resto dei compagni, se con tutte le loro forze non avessero concluso quello scontro tra cavallerie. Non sarebbe stato sufficiente mettere in fuga i nemici permettendo che ne uscissero incolumi: dovevano distruggere uomini e cavalli, in maniera tale che nessuno potesse rituffarsi nello scontro e dare nuovo vigore alla battaglia. I nemici non potevano certo tener loro testa, se prima la schiera compatta dei fanti aveva dovuto cedere al loro sfondamento. Non aveva parlato a sordi. Con un'unica carica i Romani sbaragliarono l'intera cavalleria nemica: dopo avere disarcionato moltissimi cavalieri, li trafissero insieme ai cavalli, servendosi delle lance. Fu questa la conclusione della battaglia equestre. Dopo essersi subito buttati all'assalto della fanteria, mandarono dei messaggeri ai consoli per riferir loro del successo ottenuto, mentre il fronte nemico già stava per cedere. La notizia aumentò l'ardire dei Romani che stavano avendo la meglio, e seminò lo scompiglio tra le fila degli Equi in ritirata. La loro rotta cominciò nel centro dello schieramento, nel punto in cui l'irruzione della cavalleria aveva sconvolto le linee. Poi però anche l'ala sinistra cominciò a cedere di fronte al console Quinzio. Sul versante destro lo sforzo fu tremendo. Qui il giovane e prestante Agrippa, vedendo che la battaglia ovunque aveva esiti migliori che dalla sua parte, strappò le insegne ai vessilliferi e cominciò a brandirle lui stesso, gettandone anche qualcuna tra le linee compatte dei nemici. Allora i suoi uomini, spinti dal timore della vergogna, si rovesciarono sugli avversari, e così la vittoria fu uguale in ogni settore. In quel momento arrivò da Quinzio la notizia che egli, ormai vincitore, stava già minacciando l'accampamento nemico, ma non voleva assaltarlo prima di aver ricevuto la notizia che anche all'ala sinistra le cose erano finite per il meglio. Se Agrippa aveva già sbaragliato i nemici, allora che andasse ad unire le truppe alle sue, perché nel medesimo momento l'intero esercito potesse mettere le mani sul bottino. E il vittorioso Agrippa raggiunse il collega vittorioso di fronte all'accampamento nemico e là ci fu uno scambio di congratulazioni. Messi in fuga in un baleno i pochi rimasti a presidiare il campo, i due consoli senza far uso delle armi irrompono nelle trincee e riconducono in patria l'esercito carico di un ingente bottino, e che inoltre aveva recuperato i propri beni andati perduti durante il saccheggio delle campagne. Da quanto sono riuscito ad appurare, né i consoli richiesero il trionfo né il senato lo decretò; non ci viene tramandato il motivo per il quale un simile riconoscimento fu dai vincitori disdegnato o non sperato. Per quanto si può arguire, dopo così tanto tempo, siccome il trionfo era stato negato dal senato ai consoli Valerio e Orazio i quali, oltre ad aver sconfitto Volsci ed Equi, si erano coperti di gloria anche nella guerra contro i Sabini, Agrippa e Quinzio si vergognarono di chiederlo per un'impresa ch'era metà di quella; se lo avessero ottenuto, poteva sembrare che si fosse tenuto conto più degli uomini che dei meriti.
L'onorevole vittoria conseguita sui nemici fu inquinata a Roma da un'infame sentenza del popolo in merito ai territori degli alleati. I cittadini di Ardea e di Aricia erano spesso giunti allo scontro per una fascia di terra la cui appartenenza era controversa; stanchi delle molte reciproche sconfitte, scelsero quale giudice il popolo romano.