Battaglie In Sintesi
20 Marzo 1849
Partecipò giovanissimo alle campagne napoleoniche d'Austria (1809) e di Russia (1812); durante i Cento giorni fu ufficiale d'ordinanza di Napoleone. Tornato in Piemonte, partecipò ai moti del 1821 e durante la repressione riparò prima in Francia poi in Polonia, dove collaborò coi rivoluzionari (1830-31). Fu tra i comandanti della spedizione mazziniana in Savoia (1834), ma la sua condotta militare fu ritenuta una delle cause del fallimento dell'impresa. Dopo l'armistizio Salasco offrì la sua collaborazione all'esercito sabaudo e gli venne affidato, dal generale W. Chrzanowski, il comando della 5a divisione piemontese in Lomellina. Accusato di aver disatteso gli ordini ricevuti, per aver abbandonato la postazione affidatagli, fu ritenuto uno dei responsabili della sconfitta di Novara. In seguito a questa accusa fu sottoposto a consiglio di guerra e, riconosciuto colpevole di disobbedienza di fronte al nemico, fu condannato a morte e giustiziato.
Generale austriaco (Feldzeugmeister), nato a Sopron (Ödenburg) in Ungheria il 14 luglio 1804. Ufficiale a 18 anni, già colonnello a 36, si specializzò nella conoscenza dello scacchiere di guerra italiano, dove prese parte alle campagne del 1848, 1849 e 1859. In quest'ultima si trovò il 24 giugno alla testa dell'8° corpo d'armata austriaco all'estrema destra dello schieramento degli imperiali, il quale si svolgeva lungo le alture moreniche della riva occidentale del Mincio. Difese brillantemente la posizione di S. Martino di fronte ai replicati attacchi dei Piemontesi e il suo corpo d'armata fu l'ultimo a ritirarsi dalla linea della perduta battaglia. Nominato dopo il 1859 comandante generale delle truppe austriache del Veneto, occupava ancora questa carica quando scoppiò la guerra del 1866; ma, anziché essere lasciato al comando dell'esercito austriaco d'Italia, fu destinato a quello dell'armata del nord. Il Benedek fu scontento della nomina, perché conosceva poco lo scacchiere in cui era chiamato ad operare, e questa sfiducia non fu certamente estranea all'infelice prova data da lui in Boemia. Dopo la sconfitta lo stato maggiore austriaco si accanì contro il vinto di Sadova. Ma l'intervento personale di Francesco Giuseppe troncò l'iniziato procedimento di un consiglio di guerra. Il Benedek visse gli ultimi anni oscuramente e morì a Graz il 27 aprile 1881.
Fin dal 17 febbraio 1849 il Consiglio dei ministri, data la relativa solidità dell'esercito piemontese con truppe nuove e poco istruite, ad una strategia logoratrice, senza arrischiare tutto in una sola grande battaglia optò per la guerra rapida, fulminea, risolutiva, «risquant le tout pour le tout». La cosa era logica: si trattava pur sempre di una guerra rivoluzionaria che avrebbe dovuto essere accompagnata da una nuova insurrezione del Lombardo-Veneto, e sostenuta dalle forze militari dì Firenze, di Roma, di Venezia. Il governo di Vienna era seriamente impegnato contro la rivolta ungherese e doveva tenere a freno i boemi e gli stessi suoi viennesi. Un successo iniziale avrebbe potuto provocare grandi diserzioni nell'esercito austriaco; e poi le giovani truppe piemontesi erano meglio adoperabili nell'offensiva, e infine le finanze erano agli estremi. Una simile strategia, non provocata dalla convinzione della propria intrinseca superiorità, ma da cause contingenti, porta seco in germe gli elementi della sconfitta, pronti a manifestarsi alla prima infelice circostanza; ma più che mai è vano chiedere una strategia annientatrice a un capo che non la senta, che non vi sia portato per temperamento. E questo è il caso dello Chrzanowski: egli rimane incerto fino all'ultimo, convinto dell'inferiorità dello strumento di guerra che ha fra le mani e deciso a subordinare le proprie mosse a quelle dell'avversario. Sembra però persuadersi che gli austriaci non vorranno fare una guerra offensiva, colla minaccia di un'insurrezione alle spalle, e che si ritireranno almeno dietro l'Adda (si parla infatti d'un campo trincerato a Crema) o forse addirittura nel Quadrilatero. Solo lasceranno una grossa retroguardia sul Ticino; e ciò potrebbe permettere ai piemontesi un primo brillante successo e al re un'entrata trionfale in Milano, tale da cancellare la memoria dei tristi episodi dello scorso agosto. Nei giorni che precedono l'inizio delle operazioni, il generai maggiore mostra di ammettere, sia pure come semplice eventualità, che il nemico possa invece prendere l'offensiva sboccando da Pavia e mirando a Mortara. La divisione lombarda presso la Cava dovrà soprattutto avvertirlo, col tuono dei suoi 16 pezzi d'artiglieria, e poi congiungersi al grosso con ampio giro. Egli il mattino del 20 marzo avrà 3 divisioni in prima linea, fra Galliate e Casalnuovo, e 2 fra Novara e Vespolate, ossia sulle due strade parallele Galliate-Vigevano e Novara-Mortara. In tale caso potrà, dopo un'ora, mettere in moto le divisioni: non dovranno fare che un «fianco destr» e marciare rispettivamente su Vigevano e Mortara; la mattina dopo, riposate e rifocillate, potranno trattenere frontalmente il nemico davanti a Mortara e prenderlo di fianco dal lato dì Vigevano: si avrà con questa strategia difensiva-controffensiva la battaglia decisiva che le condizioni generali esigono; il Radetzky sarà tagliato fuori dalla sua linea d'operazione o comunque obbligato a retrocedere in tutta fretta su Pavia. Dato che le operazioni avranno principio soltanto il 20 a mezzogiorno, in una stagione colle giornate ancora corte, lo Chrzanowski non ritiene possibile nulla di decisivo nelle sei ore di luce disponibili: la vera marcia in avanti del maresciallo non potrà aver luogo che il 21 ( La direttrice strategica Novara-Milano col concentramento del grosso dell'esercito tra Novara e il Ticino era fuori delle norme della strategia ufficiale, perché scopriva la naturale linea d'operazione Alessandria-Pavia e anche l'altra complementare Alessandria-Piacenza. Per la seconda volta, dunque, il re Carlo Alberto abbandonava, come già nell'agosto 1848, le norme della strategia ufficiale; allora per tentare un'ultima energica resistenza davanti a Milano, ora perchè in una relazione del generale polacco Chrzanowski del 3 ottobre 1848, venivano esposti due piani di difensiva-controffensiva, da Alessandria-Casale e da Novara; in questo caso si prevede che concentrato l'esercito piemontese in Novara, l'esercito austriaco debba attaccarlo frontalmente, lungo la direttrice della strada Milano-Novara; l'offensiva nemica dalla Cava non è nemmeno contemplata: i lavori di rafforzamento davanti a Novara sono previsti soltanto dalla parte del Ticino, Nessun piano dunque di contromanovra).
Certo le prime disposizioni del generale polacco lasciano l'esercito molto sparpagliato: il grosso, le 5 vecchie divisioni, attorno a Novara; a sinistra, dove cessa il lago Maggiore e ricomincia il Ticino, la III brigata mista o brigata Solaroli (5000 uomini in tutto), collegata col grosso da 4 battaglioni di reclute; a destra, fra Alessandria e Voghera, la divisione lombarda (6500 uomini con 6 squadroni e 16 pezzi), collegata al grosso da altri 4 battaglioni di reclute; ancor più a destra, verso Piacenza, la brigata d'avanguardia (i 3 battaglioni del 18° fanteria Acqui, 2 battaglioni di bersaglieri, una batteria, 3600 uomini); più a destra ancora, a Sarzana pel momento, ma poi a Parma, la 6a divisione condotta da Alfonso La Marmora (12 battaglioni della riserva, 2 squadroni, 2 batterie). Oltre il grosso dell'esercito, vi sono dunque ben altri quattro nuclei minori; sopra 73 000 uomini (78 000 aggiungendo gli 8 battaglioni di reclute e il parco d'artiglieria), ben 26 000 si trovano disseminati sopra un'estensione di settanta chilometri e più, calcolando il solo corso del Ticino, di oltre duecento volendo considerare anche la brigata d'avanguardia e la 6a divisione. L'usufruire di linee d'operazione multiple, con colonne convergenti, non potrebbe considerarsi errore qualora esse fossero costituite da truppe molto solide e ben inquadrate, potessero appoggiarsi lungo il percorso a forti ostacoli naturali o potessero contare sopra una rapida e violenta insurrezione; e qualora il nemico fosse debole e poco manovriero. In caso contrario è cosa rischiosa: fraziona la propria massa, mentre porta quella avversaria a riunirsi e ad agire per linee interne. Anche qui ci par di notare, come nell'esiziale prolungamento del fronte nel luglio 1848, la brama di occupare i Ducati, la mania dell'ufi possidetis; mentre la vittoria decisiva in un punto solo porterebbe con sé l'abbandono da parte nemica di tutte le fronti strategiche secondarie. Intanto il maresciallo Radetzky ha emanato fin dal 12 marzo gli ordini d'operazione, in base ai quali la sera del 18 marzo l'esercito austriaco viene a trovarsi riunito nel trapezio Binasco-Corteolona-Codogno-Melegnano, a sud di Milano, tra il Ticino, l'Adda e il Po. Una brigata di copertura dovrà restare nel basso Varesotto, e due altre a Pavia e lungo il Ticino. Queste disposizioni possono preludere a tre operazioni ben differenti: a una ritirata dietro il basso Adda; a un forzamento del Po fra Pavia e Piacenza; a uno sbocco da Pavia oltre il Ticino, grazie alla testa di ponte del Gravellone. La massa è riunita, i vari corpi possono sempre in tutti e tre i casi appoggiarsi a vicenda; e viceversa l'avversario rimane incerto di fronte alle tre eventualità. Il 18 mattina il maresciallo lascia Milano dirigendosi verso Lodi: vari uffici del Comando supremo sono già in marcia oltre l'Adda. Giunto però a Melegnano, il Radetzky abbandona la strada di Lodi e piega a destra e il mattino del 19 si trova a Torre Bianca, a sei chilometri a oriente di Pavia. E già nella notte sono stati diramati gli ordini per il concentramento di tutto l'esercito a Pavia. Anche le 3 brigate di copertura dovranno concentrarsi a Pavia; cosicché lungo il Ticino non resteranno che un battaglione di cacciatori e 2 squadroni di cavalleria. Il 20 al mattino l'esercito austriaco è dislocato col II Corpo a Pavia e gli altri 3 corpi in arco di cerchio a nord e a est della città. La dislocazione mantiene più che mai riunita la massa. Cosicché se è evidente che l'esercito non si ritira dietro l'Adda, può ancora rimanere il dubbio se esso intenda sboccare da Pavia in Piemonte o forzare il Po fra il confluente del Ticino e Stradella, coprendosi da un attacco piemontese dal lato di Pavia: i reparti sono in grado infatti di darsi anche ora reciproco appoggio. Il 20 marzo a mezzogiorno la 4a divisione (duca di Genova) è al ponte sul Ticino, sulla strada Novara-Milano, col re e collo Chrzanowski; la 3a (Perrone) ha l'ordine di tenersi pronta a rincalzarla, la 2a (Bes) più a sud, a destra, deve esplorare con piccole ricognizioni la riva destra del fiume. Scocca il mezzogiorno: è la guerra! Ma le truppe restano immobili; nessun cenno d'attività nemica sull'opposta sponda e nessun rombo di cannone dal lato di Pavia. Dopo un'ora e mezzo, il capo ordina d'iniziare la predisposta ricognizione oltre il Ticino: prima il re, colla compagnia bersaglieri divisionale, tocca la sponda lombarda! Avanza poscia la brigata Piemonte, poi il resto della 4a divisione, e la ricognizione si spinge fino a Magenta. Ma qui si ferma, senza mandare avanti in esplorazione neppure qualche pattuglia di cavalleria. La sera a buio il re e il general maggiore tornano a Trecate: il nemico si sta ritirando dietro l'Adda o si prepara a sboccare da Pavia? L'intero pomeriggio è passato in vana angosciosa incertezza.
Intanto il Radetzky è sboccato dalla testa di ponte di Pavia in Piemonte. Alla Cava non si trova la divisione lombarda, ma scarsi elementi di questa: i tre battaglioni del 21° fanteria (1000 uomini scarsi) e il battaglione bersaglieri Manara (circa 700); il reggimento cavalleggeri lombardo (450 cavalli), che avrebbe dovuto trovarsi a Zinasco, a nove chilometri dalla Cava, sulla strada di San Nazzaro parallela al Po, è ancora arretrato. La divisione lombarda, dislocata inizialmente fra Alessandria, Tortona e Vogherà agli ordini del generale Ramorino, il 16 ha ricevuto un ordine esplicito: prendere «una forte posizione alla Cava e dintorni», sorvegliando l'ultimo tratto del Ticino da Bereguardo al confluente col Po, una ventina di chilometri in linea d'aria, collegandosi a sinistra colla 23 divisione Bes a Vigevano. Nello stesso giorno lo Chrzanowski ha chiarito verbalmente in Alessandria al Ramorino, al suo capo di Stato Maggiore, colonnello Berchet, e al generale Fanti, comandante della I brigata della divisione, che questa, se soverchiata, potrà ritirarsi con ampio giro per San Nazzaro su Mortara, e solo in caso di necessità su Mezzana Corti presso il Po; e il 17 il capo ha fatto scrivere al Ramorino di provvedere a rendere impraticabile il ponte di barche di Mezzana Corti, Questo implicitamente significa che la divisione non dovrà più ripiegare dietro il Po, ma solo su San Nazzaro cercando di raggiungere Mortara. Come mai dunque il Ramorino non s'è attenuto alle prescrizioni? Il Ramorino s'è più che mai posto in mente che il nemico voglia passare il Po di fronte a Stradella, per puntare su Alessandria, e che il forzamento del Gravellone a Pavia non debba essere che una finta. D'altra parte, il Comando supremo non s'è curato di controllare l'esecuzione degli ordini fra il 16 marzo e il 20. Alle nove di sera del 19, il Ramorino scrive però allo Chrzanowski, per far noto e spiegare il suo operato, chiedendo ulteriori ordini, ma la lettera consegnata al maggiore Bariola non giunge a destinazione che alle dieci di sera del 20. Il Ramorino, dunque, il 20 ha la divisione fra Casteggio, Barbianello e il Po, in posizione da far fronte a un forzamento del fiume tanto verso Stradella che verso Mezzana Corti; egli ritiene più probabile il forzamento presso la prima località, ma non esclude che gli austriaci compiano un'azione complementare dal Gravellone in direzione sud, per forzare il fiume anche a Mezzana Corti; perciò la debole difesa posta alla Cava, affidata al generale Giannotti, comandante della II brigata, dovrà secondo i suoi ordini ripiegare non verso San Nazzaro e Mortara, ma direttamente dietro il Po. Del resto, è bene notarlo, la posizione della Cava non sbarra la strada verso Mortara, ma costituisce una difesa avanzata del Po: essa è formata da un terrazzo che degrada lentamente a sinistra dal lato di Mortara.
A mezzogiorno del 20 gli austriaci varcano il Gravellone, ramo secondario del Ticino. La divisione arciduca Alberto del II Corpo deve coi suoi 9 grossi battaglioni aprire la strada a tutto l'esercito: l'operazione non è appoggiata dal fuoco d'artiglieria, per non svelare la sorpresa. Muovono d'avanguardia 2 battaglioni ungheresi, condotti dal colonnello Benedek: da rilevarsi che le prime truppe di rottura sono formate da elementi ungheresi e boemi, quasi a mostrare la vana illusione di chi sperava nella diserzione di tali truppe. Contro i 2 battaglioni si trovano 2 compagnie di Luciano Manara, che subito si è recato sul posto, e per un'ora i nemici sono trattenuti; ma 2 altri battaglioni avanzano a destra e a sinistra, e il Manara deve retrocedere al villaggio della Cava. Qui l'intero battaglione continua la resistenza per un'altra ora i è sul posto anche il generale Giannotti. Ma altri 2 battaglioni nemici si aggiungono e alla fine di fronte al pericolo manifesto d'un duplice avvolgimento, i bersaglieri lombardi retrocedono presso Mezzana Corti, dove, sostenuti da 2 piccoli battaglioni del 21° fanteria e da uno smilzo battaglione di studenti, giunto allora, si difendono fino circa alle sei pomeridiane, contro altri 5 battaglioni austriaci del IV Corpo; quindi il Giannotti, in base agli ordini precedenti del Ramorino, ripiega dietro il Po, il cui ponte non era stato ancora interrotto. Ma in realtà, già dopo la prima ora di combattimento, gli austriaci hanno avuto aperta la via verso Mortara e Vigevano e solo hanno dovuto porre una copertura al loro fianco sinistro. L'altro piccolo battaglione del 21° fanteria lasciato presso il Ticino, s'era ritirato in fretta fin dagli inizi sullo stradone di Mortara e quivi, molto diminuito, raggiungeva il giorno dopo la divisione Durando.
Questa l'azione della Cava, svoltasi con una certa intensità solo nella sua primissima fase presso il ponte del Gravellone. Le perdite furono scarsissime dalle due parti: 4 morti e 15 feriti da parte italiana, 9 feriti e 12 prigionieri o dispersi da parte austriaca. In realtà gli austriaci non dovettero agire energicamente che nella primissima fase, poi si limitarono a sfruttare la loro enorme superiorità numerica con azioni avvolgenti. Comunque, il terreno fu difeso per sei ore.
Tratto da: "Storia militare del Risorgimento", Piero Pieri, Torino, Einaudi, 1962