Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Battaglia di Carpi

9 -10 aprile 1815

Gli avversari

Guglielmo Pepe

Generale e patriota, fratello di Florestano, nato a Squillace, in Calabria, il 13 febbraio 1783, morto presso Torino l'8 agosto 1855. Quattordicenne, fu mandato a Napoli, dove frequentò la scuola militare, e, uscitone nel 1799, s'iscrisse nella milizia della Repubblica Napoletana, combattendo agli ordini del generale Matera contro le orde del cardinale Ruffo, quindi al Ponte della Maddalena (13 giugno 1799), dove, dopo aver dato prove d'indomito coraggio, fu ferito e fatto prigioniero. Fu presente agli orrori della feroce reazione, poi, perché minorenne, liberato e cacciato in esilio. Da Marsiglia, dove sbarcò, si avviò a Digione e si arruolò nella legione italiana, la quale si unì all'esercito del Primo console, che per il San Bernardo si accingeva alla riconquista d'Italia, e, semplice soldato, combatté a Marengo (14 giugno 1800). Andato in Toscana, partecipò alla lotta contro i ribelli a Siena e ad Arezzo, quindi si portò a Milano e di là a Napoli, dove congiurò contro i Borboni, recandosi in Calabria, al fine di sollevarla. Arrestato e rinchiuso nell'orrido carcere di Maretimo, vi rimase tre ami, fino a quando (1806), impadronitisi i Francesi del regno di Napoli, fu liberato, dal re Giuseppe nominato maggiore nel nuovo esercito e inviato in Calabria agli ordini del Masséna per sedarvi l'insurrezione. Succeduto sul trono di Napoli al fratello di Napoleone I il Murat, il Pepe fu mandato a combattere in Spagna al comando d'un reggimento (9 novembre 1811) col grado di colonnello; e tornato a Napoli, fu promosso maresciallo di campo. Fece la campagna d'Italia col Murat contro il viceré d'Italia, segnalandosi al ponte sull'Enza e alla Secchia e in quella contro gli Austriaci, quando il Murat innalzò il vessillo dell'indipendenza italiana, conclusa tragicamente a Tolentino (16 aprile 1815). Tornati i Borboni sul trono di Napoli, il Pepe ottenne il comando della terza divisione militare (6 ottobre 1818). Due anni dopo (2 luglio), a Nola gli ufficiali Morelli e Silvati iniziarono la rivoluzione al grido di "viva la Costituzione", e il Pepe fu mandato a sedarla, ma alla notizia che il re prometteva una libera costituzione, entrò trionfalmente in Napoli alla testa delle schiere costituzionali e fu creato comandante supremo dell'esercito; ma si trovò in contrasto col Carascosa, ministro della Guerra. Sopraggiunta l'invasione austriaca (8 gennaio 1821), il Pepe comandò una parte dell'esercito napoletano che il vicario del regno inviò contro gli Austriaci, ma la rotta di Rieti sbandì ogni velleità da parte dei liberali e il Pepe, costretto all'esilio (21 marzo), prese imbarco su una nave spagnola. Sceso in Inghilterra, iniziò colà il lungo esilio durato fino al 1848. A Londra ebbe onorevoli accoglienze - particolarmente ambita fu dal Pepe l'amicizia del Foscolo - e diede alla luce (Parigi 1822) una narrazione degli avvenimenti napoletani del 1820-21 (tradotta in francese, in spagnolo e in inglese), per cui ebbe a sostenere un duello con il Carascosa. Nel 1830 andò a Parigi sperando salute all'Italia dalla rivoluzione di luglio; e quando ebbe notizia di quella dell'Italia centrale del febbraio 1831, corse a Marsiglia, poi a Lione, dove apprese il fallimento di quel moto. Tornato a Parigi, si dedicò a studi storici, e coltivò estese conoscenze con gli esuli del '31 e con gli uomini politici francesi più in vista. Nel 1833 pubblicò una Memoria sui mezzi che menano all'italiana indipendenza, con prefazione di A. Carrel; nel 1836 l'Italia militare, con prefazione del Thibaudeau; nel 1839 l'Italia politica, e nel 1846, in due volumi, le Memorie intorno alla sua vita e ai recenti casi d'Italia. Nel marzo del 1848 le vicende italiane lo decisero a tornare in patria. Il 29 di quel mese entrò in Napoli, dove fu accolto in trionfo e dal re Ferdinando II riconfermato nel grado di generale ed ebbe affidato il comando dell'esercito spedito nel Veneto contro gli Austriaci. Partì il 3 maggio; e sbarcato ad Ancona cinque giorni dopo, vi assunse il comando delle truppe che man mano, con studiata lentezza, erano giunte o giungevano dal regno. Andato a Bologna, ebbe notizia dei tragici fatti del 15 maggio a Napoli e del richiamo delle truppe napoletane. Indotto dalle esortazioni del popolo bolognese, il 22 maggio il Pepe scrisse a Ferdinando II che la sua coscienza di soldato non gli permetteva di ubbidirgli; e mentre la maggior parte dell'esercito prendeva la via del ritorno, egli, alla testa di quanti avevano approvato la sua decisione, varcò il Po a Ferrara (10 giugno), e di là per Rovigo, accettato l'invito del Manin, entrò il 13 giugno in Venezia, dove il governo di quella repubblica lo nominò generale in capo dell'esercito (16 giugno). La sua azione, specialmente negli ultimi giorni della storica difesa, fu argomento di aspre critiche. Caduta la città (23 agosto 1849), il Pepe si avviò di nuovo in esilio. Giunto a Corfù (29 agosto), s'imbarcò per Genova (8 ottobre) e alla fine di novembre raggiunse Parigi. Colà attese a stendere le sue memorie sui Casi d'Italia negli anni 1847, '48, '49, date alla luce a Torino nel 1850, e subito dopo il colpo di stato del 2 dicembre partì per il Piemonte e a Torino trascorse gli ultimi suoi anni.


Johann Maria, Frimont, conte di Palota e principe di Antrodoco - Generale austriaco (Finstingen 1759-Vienna 1831).

Partecipò alle guerre contro Napoleone. Nel 1821 comandò l'esercito che vinse i costituzionali di Napoli e ristabilì sul trono Ferdinando I; ebbe il titolo di principe di Antrodoco e una dotazione. Successe (1825) al Bubna nelle funzioni di governatore generale del Lombardo-Veneto; fu (1831) presidente del Consiglio supremo di guerra dell'impero austroungarico.

La genesi

Dopo la sconfitta di Occhiobello e la minaccia Inglese che dalla neutralità andava schierandosi apertamente in favore austriaco, il Murat, combattutto da pensieri diversi, si trovava incapace di guidare con fermo proposito nei modi di guerra, un esercito alle battaglie, e deliberò retrocedere verso le frontiere del regno, in quella che sul Po più che sul Tronto l'arte consigliava prendere le difese. Le soldatesche ripiegando senza esser vinte, però che ad Occhiobello rinnovandosi la battaglia con nuove schiere poteva non esser dubbia la vittoria, disperavano. Ritornarono meste ma deliberate a salvare l'onore delle armi. E mentre agli austriaci stanno giungendo rinforzi, le popolazioni italiane rimangono più che mai inerti (di fronte ai 3 o 400 italiani accorsi presso Gioacchino stanno 3000 italiani nell'esercito austriaco, e accanto a questo sono le truppe estensi e toscane); così come le forze del generale Suchet in Francia non si muovevano. Per smuovere italiani o altri potenziali alleati nel breve sarebbe stato necessario un clamoroso successo. Ma il 10 aprile gli austriaci già passano alla controffensiva, e attaccano Carpi.

La battaglia

Gli Austriaci allora incominciarono ad offendere con buona fortuna. Il 9 Aprile mossero in avanti contro Carpi tenuta dal generale Guglielmo Pepe con quattro battaglioni, uno squadrone di lancieri, e due cannoni, in tutto 2500 uomini contro 10,000, che avanzavano col duca di Modena e il generale Frimont. I nostri attaccati respinsero Je prime colonne, che ritornarono più forti , e superarono la intrepida resistenza del secondo leggiero, il quale in bell'ordine retrocedendo si afforzò in Carpi. Quivi unito alle altre truppe tenne in rispetto l'inimico tutta la giornata , per la qual cosa sopraggiunta la notte potè ordinatamente ritirarsi verso Modena. Il resto dell'esercito ripassò il Panaro, la divisione D'Ambrosio movendo da Occhiobello si volse a Malalbergo , la divisione Lecchi a Cento , la divisione . Carascosa a Sant'Ambrogio. Il 1° reggimento fu a guardia del passo di Spilimberto, il 2° leggiero della strada maestra. Un incidente deplorabile turbò le disposizioni di questa ritirata, il 1° reggimento al bivacquo sulle sponde del fiume coi fucili al fascio d'arme, venne d'improvviso, sorpreso da gagliardo fuoco di artiglieria , il grido si salvi chi può scompone in un baleno le truppe che disordinate vengono a Sant'Ambrogio. Ma quivi raccozzatesi chiesero a gran voce ritornare alla riscossa. Uniti al 2° leggiero vanno, e combattono valorosamente lavando la macchia del giorno innanzi.

Le conseguenze

La controffensiva austriaca, condotta con forze non adeguate, è riuscita solo in parte grazie alla resistenza del Pepe. Ma il Murat, senza soccorsi e circondato da nemici, comprende l'impossibilità di mantenersi sopra una linea così estesa e debole dappertutto: il 15 aprile la 1a divisione doveva traghettare il Reno confluente del Po, e per non lasciarsi sorprendere dal nemico, fu munito di serragli ed altre fortificazioni un ponte di pietra alle falde del Poggio, dato in guardia al capo battaglione Riario Sforza. Sulla sinistra del fiume fu appostato un battaglione comandato da Astuti; Pepe che aveva preso il comando della divisione essendosi Garascosa recato a Bologna, tenne la dritta con le altre milizie. Sulle undici del mattino si presentarono gli Austriaci in poderose colonne d'attacco; il 1a di linea che già aveva combattuto a Spilimberto, chiese anche una volta combatterò , e slanciatosi alla baionetta con immenso ardore, tre volte ributtò l'inimico , tre volte rinnovando gli assalti. Pepe lo sostenne col 2° leggiero, il combattimento fu asprissimo , però che il nemico indarno raddoppiava gli attacchi, indarno fulminavano le sue artiglierie e si serravano a furia i cavalieri ungheresi su quelle schiere italiane. In sul far della sera, sopraggiunto il colonnello de Gennaro con alcuni battaglioni, decise pei nostri la vittoria. Tremila italiani avevano rintuzzato l'impeto di ottomila tedeschi. In questo combattimento si covrirono di gloria i colonnelli Palma e Tschudy, e il capo battaglione Astuti; Pepe fu nominato aiutante di Campo del re, ma la vittoria non giovava. La divisione sul campo stesso del suo trionfo riceveva ordine ripiegare a Bologna, d'onde unita al resto dell'esercito mosse verso i confini del Tronto. Gli austriaci avanzando lentamente divisavano attaccare gl'italiani, di fronte per la via delle Marche, e di fianco per la via della Toscana, così che potessero sopravvanzandoli chiuder loro la ritirata. La brevissima speranza offerta dall'impresa del Generale Pepe non era stata sfruttata; la strada verso Tolentino, e per la disfatta, si va pericolosamente intravedendo per l'armata di Murat.



Bibliografia:
"Storia militare del Risorgimento", Piero Pieri, Torino, Einaudi, 1962
"Tradizioni Militari Italiane", Aurelio Romano, Napoli, 1867