Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Battaglia della Beresina

26 - 29 novembre 1812

Gli avversari

Nicolas Charles Oudinot (Bar-le-Duc, 25 aprile 1767 – Parigi, 13 settembre 1847)

Salì rapidamente agli alti gradi, distinguendosi in molte occasioni, sul Reno e in Italia, con gli eserciti repubblicani e in seguito con quelli napoleonici; in particolare, contribuì sotto A. Massena alla vittoria di Zurigo e si segnalò a Wagram (1809), ottenendo il bastone di maresciallo e il titolo di duca di Reggio (1810); comandò ancora con valore al passaggio della Beresina, a Bautzen (1813) e, nel corso della campagna di Francia, a Brienne e Bar-sur-Aube. Caduto Napoleone, fece atto di sottomissione a Luigi XVIII, che gli affidò un alto comando nella guerra di Spagna (1823); Luigi Filippo lo nominò (1842) governatore dell'hotel des Invalides.


Michail Illarionovič Kutuzov (San Pietroburgo, 16 settembre 1745 – Bolesławiec, 28 aprile 1813)

Questo generale russo si segnalò nelle campagne contro i Polacchi (1764-69), e in quelle contro i Turchi (1770 e 1784); fu quindi ambasciatore a Costantinopoli (1793), e in seguito comandante dell'Ucraina e governatore di Pietroburgo; poi (1809-12) fu a capo degli eserciti in guerra contro la Turchia con la quale concluse la pace (1812) in vista dell'invasione napoleonica. Nella grande campagna del 1812, succeduto a M. B. Barclay de Tolly nel comando in capo dell'esercito russo, affrontò i francesi nella sanguinosa battaglia di Borodino. Vinti gli invasori a Smolensk, li inseguì nella loro tragica ritirata, fin oltre la Beresina; poco dopo venne a morte. La figura di Kutuzov campeggia nel romanzo Guerra e pace di Tolstoj (1878), quasi simbolo di un eroismo semplice, naturale nella sua umanità, in contrapposto a quello tronfio e retorico di Napoleone.

La situazione

Consapevole di aver sconfitto ma non distrutto l'esercito nemico, e di aver conquistato una città come Mosca pressoché morta, che non costituiva una merce di scambio per la corte di San Pietroburgo, l'imperatore francese se ne stette ad aspettare che lo zar avanzasse proposte di pace, che sarebbe stato disposto ad accettare in qualsiasi forma pur di chiudere quella disgraziata guerra. Ma nel frattempo se ne andavano le ultime settimane disponibili per muovere ciò che gli rimaneva dell'esercito prima che l'inverno gli infliggesse il colpo di grazia. Inoltre, l'attesa per le trattative di pace diede tempo all'esercito russo di ricostruirsi e di spostare l'ago della bilancia in proprio favore.
Con l'inerzia a proprio favore lo Zar non aveva più motivo di cercare la pace e Napoleone si ritrovò nella spiacevole condizione di dover pensare solo a come limitare al minimo i danni: una situazione del tutto inedita per l'imperatore. Ormai non era solo il sopravvenente clima a condannare i francesi, ma anche i numeri, che li vedevano ormai in evidente inferiorità in ogni settore.
Lo stesso Kutuzov era riuscito a ricostituire un'armata di oltre 120.000 soldati e 620 cannoni, oltre ai reparti di partigiani che si muovevano nelle campagne. Inoltre erano arrivati ventisei reggimenti di cosacchi del Don che assicuravano al comandante in capo una netta superiorità nella cavalleria e una grande mobilità per attaccare e indebolire progressivamente l'esercito francese. L'esercito napoleonico alla vigilia dell'inverno del 1812 contava invece su 87.000 fanti, 14.750 cavalieri e 533 cannoni, ed era accompagnato da numerosi civili, donne, bambini, prigionieri e soprattutto da oltre 40.000 carrozze e carrette su cui era stato ammassato tutto il bottino raccolto nella città. Il gap numerico e di mobilità in favore dei russi era del tutto evidente.
Per Napoleone le scelte erano ormai obbligate. Una volta resosi conto che la presa di Mosca non aveva piegato i russi né fatto cedere lo zar, tutte le alternative possibili avrebbero portato a risultati assai inferiori alle attese di partenza. Il clima diveniva sempre più rigido e muovere verso San Pietroburgo sarebbe stata una follia tattica; attendere la fine dell'inverno a Mosca avrebbe salvato le residue forze francesi che però poi avrebbero dovuto affrontare le rinforzate armate russe; infine dirigersi verso le fertili pianure ucraine voleva dire affrontare il già potenziato esercito di Kutuzov posto a Kaluga. La ritirata era l'unica strada percorribile per salvare il salvabile in campo francese, ma fu tutto tranne che un successo.

Inizia la ritirata

L'armata si mise in marcia il 19 ottobre ma già dal 23 le avanguardie russe constatarono la presenza dell'esercito francese e il generale Dmitrij Dochturov riuscì con una marcia notturna a raggiungere l'importante villaggio di Malojaroslavec dove il 24 ottobre si combatté una sanguinosa battaglia; le truppe del IV corpo del principe Eugenio, in cui si distinsero i reparti italiani del generale Domenico Pino, riuscirono a respingere i russi e a conquistare la cittadina e il ponte sul fiume Luža; i russi persero oltre 7.000 uomini ma nonostante la sconfitta ripiegarono solo di un chilometro lungo la strada mentre le perdite francesi furono di sette generali e 4000 italiani. Come se non bastasse, Napoleone rischiò di essere catturato da un reparto di cosacchi che si era lanciato contro i due squadroni di cacciatori della sua guardia che lo scortavano in ricognizione; l'azione degli audaci cavalieri delle steppe arrivò fino a una trentina di metri da lui. I due episodi minarono non poco la già traballante sicurezza dell'imperatore che, da allora, prese l'abitudine di portare al collo una boccetta con del veleno; ma la conseguenza più importante dei suoi timori fu che decise improvvisamente di tornare indietro a fare a ritroso la stessa strada con cui era giunto a Mosca.
Era una decisione disastrosa, sia perché faceva perdere un'altra settimana di tempo prezioso all'armata, sia perché annullava il vantaggio conseguito sgombrando la strada migliore, per giunta a prezzo di cospicue perdite; in pratica, pur avendo ottenuto lo scopo prefissato con la manovra verso sud, i timori di un Napoleone irriconoscibile, debole e incerto, avevano fatto sì che gli effetti di quella vittoria fossero equivalenti a quelli di una sconfitta. Fu una colonna lunga ben 80 chilometri quella che ripassò, a distanza di due mesi, da Borodino, dove testimoni oculari riferiscono di essere passati in mezzo a terreni arati dalle palle di cannone, con resti di elmi e corazze, ruote e uniformi, e con 30.000 cadaveri in parte divorati dai lupi.
In questa fase della ritirata il generale Kutuzov, che aveva accolto con enorme sollievo la notizia del ritorno dei francesi sulla strada di Možajsk, si limitò a seguire cautamente la colonna nemica marciando con il suo esercito lungo la strada meridionale che da Medyn' conduceva a Smolensk. Il generale russo continuò ad adottare una strategia di attesa contando di logorare progressivamente i francesi durante la ritirata, grazie al concorso dell'inverno russo e dei partigiani, senza necessità di una grande battaglia campale. Egli continuava ad esaltare nei suoi proclami il carattere patriottico e religioso della guerra contro l'invasore, ma per il momento marciava sulla strada parallela senza ricercare uno scontro diretto. La sua condotta, lodata da Lev Tolstoj nella sua opera "Guerra e pace", era invece severamente criticata dai suoi consiglieri stranieri ed anche da alcuni generali russi; essi consideravano il comandante in capo, vecchio, stanco e debole, e reclamavano un grande attacco risolutivo. Lo zar, che peraltro non interveniva nella condotta delle operazioni, consigliava di coordinare i movimenti con le armate del generale Wittgenstein e dell'ammiraglio Cicagov per bloccare la ritirata nemica.
In risposta alle critiche presso Vjazma, il 2 novembre, Kutuzov tentò di isolare la retroguardia francese, costituita dal I corpo di Davout, il quale se la cavò, pur con gravi perdite, grazie all'aiuto di Eugenio e Ney; ma erano sempre di più gli uomini che morivano di fame e di freddo, o che si consegnavano per la disperazione ai nemici, come scrisse Eugenio a Napoleone: dal 3 novembre, infatti, aveva iniziato a nevicare, e quando l'esercito, il 9 seguente, dopo 570 chilometri di marcia, arrivò all'agognata Smolensk, c'erano -12°. Ma l'irrigidimento del clima non fu l'unica brutta notizia che accolse i pochi disperati che erano ancora con Napoleone: non solo, infatti, si seppe che l'attesa divisione di rinforzo al comando di Baraguey d'Hilliers si era dovuta arrendere ai russi, ma si scoprì anche che in città erano rimasti viveri per sole due settimane. Napoleone si risolse così a puntare immediatamente sui depositi di Vitebsk o Minsk, per sfamare i 41.500 spettri che gli erano rimasti. La partenza da Smolensk ebbe luogo il 12, ma solo cinque giorni dopo lo sgombero fu completato con la retroguardia di Ney, proprio mentre l'avanguardia si trovava la strada ostruita dalle forze di Kutuzov all'altezza di Krasnoe; stavolta Napoleone non esitò a impiegare la guardia, il cui impeto sorprese i russi costringendo il feldmaresciallo a ripiegare verso sud. Tra il 16 ed il 17 di novembre arrivò l'ennesima brutta notizia per i francesi: la città e il ponte di Borisov sulla Beresina, passaggio obbligato verso ovest che Napoleone aveva ordinato a Dombrowski, Victor e Oudinot di presidiare, erano caduti nelle mani dei russi di Cicagov, mentre Wittgenstein si avvicinava da nord; se aggiungiamo che Kutuzov seguiva da presso e che i francesi non disponevano più di materiale per costruire ponti di barche (la Beresina non era ancora del tutto ghiacciata), la situazione dei transalpini appariva veramente disperata.
La situazione della Grande Armata non migliorò quando Oudinot riuscì a riprendere Borisov, perché Cicagov, nel ritirarsi, aveva distrutto tutti i ponti. Le prospettive erano terrificanti: lo zar, una volta bloccata la ritirata verso ovest, aveva previsto di far convergere sui fianchi dell'armata francese le forze di Wittgenstein e di Cicagov, che assommavano a 64.000 uomini, per completare l'accerchiamento con gli 80.000 di Kutuzov che avanzavano da est e da sud, e distruggere una volta per tutte la potenza napoleonica. Ma tutti e tre i generali incaricati di infliggere il colpo definitivo a Napoleone se la presero comoda, in parte anche timorosi di dover affrontare un'armata, comandata dall'imperatore in persona, che nonostante le pessime condizioni in cui versava, era riuscita a rimanere imbattuta anche sulla via del ritorno. Gli effettivi di Napoleone rimanevano molto al di sotto di quelli nemici: in tutto poteva trattarsi di 49.000 uomini - sbandati a parte - e 250/300 cannoni, suddivisi in 5500 cavalleggeri ancora dotati di cavalcatura, 8500 effettivi della guardia, 3000 del I corpo di Davout, 11.000 del II di Oudinot, 3000 del III di Ney, 2000 del IV di Eugenio, 1500 del V di Poniatowski e dell'VIII di Junot, 13.500 del IX di Victor e 2500 dei reparti addetti al comando.

Il piano Napoleonico per la Beresina

La sera del 24 novembre l'imperatore venne informato della presenza di un possibile punto di passaggio sulla Beresina non occupato dai russi a nord di Borisov, nel villaggio di Studienka; egli decise quindi di attraversare in quel punto il fiume.
I soldati del II corpo del maresciallo Oudinot occuparono subito Studjenka e il generale del genio Jean Baptiste Eblé venne inviato sul posto per costruire i ponti necessari alle truppe. I 30.000 uomini del generale Wittgenstein erano a 20 chilometri di distanza a nord; il grosso dell'esercito del generale Kutuzov era ancora sul Dniepr a oltre 150 chilometri dalla Beresina, mentre l'ammiraglio Cicagov aveva disseminato le sue truppe lungo la riva occidentale. Napoleone, dopo il rinforzo del II e del IX corpo, disponeva di circa 40.000 soldati efficienti e di un numero molto elevato di sbandati; i piani dell'imperatore prevedevano di ingannare l'ammiraglio Cicagov con una serie di finte a Borisov e quindi attraversare di sorpresa a Studienka; il maresciallo Victor avrebbe dovuto trattenere le truppe del generale Wittgenstein, mentre il maresciallo Davout avrebbe controllato un eventuale avanzata del generale Kutuzov da est.

La battaglia

Il 25 iniziarono i finti movimenti a sud, presso Ucolodi, ad opera dei corazzieri di Oudinot e di un contingente di fanteria, con alcuni cannoni e molti sbandati che, se non altro, facevano chiasso e massa. Cicagov non ebbe alcun dubbio: i francesi stavano tentando di costruire un ponte a sud di Borisov, e non esitò a spostare tutte le truppe che aveva tra Studienka e Borisov in quella zona, lasciando agli avversari tutto l'agio per predisporre il guado. Corbineau procedette subito con 400 uomini all'occupazione dell'altra sponda, liberandosi di qualche cosacco rimasto nei pressi, per poi trasportarvi 44 cannoni. Ora toccava a Eblé, che aveva senz'altro il compito più delicato. L'imperatore si aspettava da lui la costruzione di tre ponti nel minor tempo possibile. I suoi 400 uomini misero a disposizione dell'armata il primo ponte per l'una del pomeriggio del 26, e di esso si valsero immediatamente gli uomini di Oudinot, mentre le artiglierie del maresciallo attraversarono insieme alla guardia sul secondo ponte, i cui lavori terminarono due ore dopo. Il terzo ponte non fu mai costruito: le opere di manutenzione rapida sugli altri due impegnavano in maniera troppo assidua i genieri.
Ancora per la giornata del 27 nessuno venne a molestare il passaggio delle truppe francesi: Cicagov si era reso conto del suo errore la sera del 26 e aveva fatto marcia indietro, ma le truppe di Oudinot ebbero buon gioco nel coprire il fianco meridionale dei francesi, respingendo ogni attacco e arrivando perfino a contrattaccare avanzando le proprie posizioni; Wittgenstein si manteneva a debita distanza, per poi avanzare non su Studienka ma su Borisov, dove fu tenuto a bada da Victor; Kutuzov, infine, si era colpevolmente mosso dalle sue posizioni sul Dnepr solo il giorno prima, e non sarebbe arrivato in tempo, nonostante una marcia alla media di 35 chilometri al giorno. La cavalleria di Oudinot trovò perfino sgombri strada e ponti di legno verso Minsk e Vilna, e questo fu un errore talmente pacchiano da parte dei russi da lasciar pensare a un deliberato proposito di Kutuzov di lasciar andare via Napoleone. L'unico problema si presentò alle quattro del pomeriggio, dopo che, tre ore prima, l'imperatore aveva trasferito il proprio quartier generale sulla sponda occidentale; allora, tre piloni del secondo ponte si spezzarono, e la truppa si fece prendere dal panico, accorrendo istericamente verso il ponte ancora funzionante, dove si venne a creare un ammassamento selvaggio nel quale morirono a centinaia. Per permettere il passaggio serale dei due corpi residui, quelli di Davout ed Eugenio - a parte Victor, che rimase a contrastare Wittgenstein -, gli uomini dell'eroico Eblé dovettero sgombrare gli accessi a entrambi i ponti da cumuli di relitti e cadaveri.
Durante la notte, una divisione del corpo di Victor, che assommava a 4000 fanti, 500 cavalieri e quattro cannoni, al comando del generale Partonneaux, nel corso del suo trasferimento da Borisov a Studienka per congiungersi al resto delle forze del duca di Belluno, sbagliò strada e finì addosso al corpo di Wittgenstein; il generale avanzò per orizzontarsi con un drappello di uomini ma fu fatto prigioniero, tuttavia la sua divisione, ormai accerchiata, seguitò a combattere fino all'alba, prima di arrendersi a sua volta. Lo sfortunato episodio privò Victor di una consistente parte del proprio esercito quando, in mattinata, fu costretto ad affrontare il combattimento con le forze nemiche; attestatosi tra l'argine della Beresina e Studienka, non fu in grado però di chiudere col proprio schieramento il terreno fino al fiume, e una volta che gli uomini di Wittgenstein gli furono addosso, si trovò nella necessità di evitare un aggiramento sul fianco sinistro. Napoleone gli mandò in soccorso la brigata Baden, ed i tedeschi risultarono determinanti nel permettere a Victor di resistere ancora un po', anche se i loro cannoni rimasero sulla sponda occidentale del fiume.
Dall'altra parte, i combattimenti tra Oudinot e Cicagov iniziati il giorno precedente aumentarono d'intensità, ma le forze del maresciallo si erano talmente assottigliate che Napoleone decise di mandargli in soccorso la vecchia guardia, ovvero la riserva delle riserve, i fedelissimi che non impiegava mai. Tuttavia Oudinot riuscì a guidare un'ultima difesa contro un attacco nemico, prima di venire gravemente ferito e cedere il comando al vicino Ney; partì subito dopo una carica di corazzieri che inflisse in un sol colpo 2000 perdite ai russi e li costrinse ad arretrare a sud, convincendo l'irresoluto Cicagov a rinunciare a ulteriori azioni per la giornata.
Torniamo alla sponda orientale. Victor non riuscì a impedire l'aggiramento sul fianco sinistro ancora a lungo, e verso mezzogiorno i russi erano riusciti ad appostarsi lungo la riva e a piazzare i loro cannoni. Il loro obiettivo divennero gli sbandati, che costituivano una massa lunga almeno un chilometro e larga duecento metri a ridosso dei ponti. Già al primo colpo di cannone ci fu il panico, e i carri partirono all'impazzata travolgendo e calpestando quanti si trovavano sulla loro strada; la fiumana di gente si accalcò sui ponti e al loro imbocco, e tra spinte e cadute molti si ritrovarono nell'acqua gelida. Ma il caos scoppiò quando il secondo ponte cedette ancora una volta: quanti erano nei pressi della rottura si arrestarono, ma furono sospinti in acqua dalla massa di gente che accorreva da dietro senza aver visto nulla. Altri disastri si verificarono sull'unico ponte rimasto integro, prima che Napoleone facesse piazzare una batteria i cui colpi indussero i russi a ritirarsi dalla riva destra; ciò permise a Victor di riprendere la posizione e di mantenerla saldamente fino alle nove, quando ebbe finalmente l'ordine di raggiungere il resto dell'esercito, valendosi dell'impagabile opera di sgombero degli ostacoli da parte dei genieri.
All'alba anche la retroguardia di Victor era sull'altra sponda, e neanche un combattente era a portata di Wittgenstein; erano rimasti, in compenso, sbandati a migliaia, che ancora una volta non avevano osato attraversare il ponte di notte, nonostante le esortazioni di Eblé. Così alle nove il generale del genio dovette a malincuore eseguire l'ordine di incendiare i ponti, e solo allora i relitti umani che vegetavano presso Studienka da giorni si destarono dal loro torpore e tentarono un passaggio in extremis; il risultato fu che molti perirono tra le fiamme, e ancor di più nell'acqua quando i manufatti si sgretolarono, e risulta che il fiume si sia bloccato per settimane a causa dei tanti corpi congelati che ne ostruivano la corrente. Quelli che rimasero sulla riva finirono nelle mani dei russi per morire di stenti entro pochi giorni, e forse solo un quarto del totale di quella massa miserabile trovò scampo sulla riva occidentale, dove ormai quanto rimaneva dell'esercito francese si trovava la strada aperta per Vilna.

Le perdite

"La battaglia della Beresina riuscì sanguinosissima; ma le perdite dei Francesi, costretti, in ritirandosi , ad abbandonare i loro feriti ed una parte dei loro bagagli, furono più gravi; quivi ebbero termine i destini di quel grande esercito che avea fatto tremare l'Europa; esso cessò di esistere sotto l'aspetto militare, né gli restò altro scampo che la fuga.
Lo stesso Napoleone sembrava aver disperato della sua salvézza alla Beresina; né egli fece, giusta il parere dell'Autore, quegli sforzi personali che sarebbero stati necessari per infiammare guerrieri meno devoti. La sua condotta a Krasnoi era al contrario stata segnata dall'intrepidezza e dall'abilità; egli si era accorto di aver perso lungo tempo facendo l'imperatore; ed era di nuovo divenuto generale e soldato. Quale spettacolo era il mirarlo mentre marciava sulla strada principale con un bastone di betulla in mano per sostenersi sul ghiaccio.
Tre giorni dopo il passaggio della Beresina, l'esercito non noverava che 7000 fanti e 1800 cavalli. Un freddo eccessivo, formidabile anche pei natii, colpiva come la folgore quegli infelici residui della più grande possanza militare. Non giunsero che 4000 uomini a Wilna. Gli immensi magazzini di viveri, raunati in questa città, non servirono che ai vincitori.
"

Queste le somme stilate da Davide Bertolotti appena 12 anni dopo la battaglia di Beresina. In realtà il prezzo pagato per quella che si può considerare una vittoria strategica di Napoleone in condizioni al limite dell'impossibile era comunque altissimo: Victor e Oudinot avevano visto i loro rispettivi corpi dimezzarsi, dei genieri di Eblé ne sopravvissero in 40 e lo stesso generale sarebbe morto poco dopo; il totale dei morti francesi in quei quattro giorni è stato stimato nell'ordine delle 20/30.000 unità, a fronte di 10.000 caduti russi. Tuttavia, il successo dell'imperatore va onestamente ridimensionato, se si considerano le manchevolezze russe, talmente lampanti da poter essere considerate volontarie: se Kutuzov fosse arrivato in tempo sulla Beresina - e avrebbe avuto tutte le possibilità per farlo - con i suoi 80.000 uomini, e se Cicagov avesse bloccato la strada per Vilna con un contingente appena consistente, nessuna tattica avrebbe potuto salvare l'imperatore dalla distruzione totale, e l'avventura napoleonica sarebbe finita con tre anni di anticipo sulla data sancita dalla Storia.

Le conseguenze

Con la strada per Zembin del tutto sgombra, le prime forze francesi, costituite da Davout e da Eugenio, iniziarono a marciare verso ovest fin dalla giornata del 28, mentre gli altri erano ancora impegnati nei combattimenti. All'alba del 29 si avviarono anche l'imperatore e la guardia, seguiti poi da Victor e Ney, con le forze di Cicagov che li seguivano da presso provocando aspri scontri nei giorni seguenti: in una circostanza Oudinot, che marciava lentamente a causa della ferita, rischiò la cattura, ma la sua gagliarda difesa asserragliato in un casolare con altri quindici uomini gli valse la salvezza.
Wittgenstein, da parte sua, marciava lungo vie parallele a quelle dei resti della Grande Armata, ma senza attaccarla, nonostante che nell'esercito francese, il 2 dicembre, risultassero solo 13.000 gli uomini in grado di combattere: lo stesso Ney, che subentrò a Victor nel comando della retroguardia, vide il suo corpo d'armata ridotto a sole cento unità.
A Smorgon, poco a est di Vilna, il 5 dicembre Napoleone convocò tutti i suoi marescialli, ovvero Murai, Eugenio, Berthier, Lefebvre, Bessières, Mortier, Ney e Davout per comunicargli che aveva deciso di rientrare a Parigi lasciando l'esercito nelle loro mani, sotto il comando generale del re di Napoli. Da parte sua, avrebbe viaggiato in incognito su una carrozza con accetta, accompagnato solo da tre carri e due calessi, con una piccola scorta di cavalleria napoletana, i suoi segretari, il cameriere e un interprete polacco. Fu una decisione che nessuno osò mettere in discussione, e che si rendeva necessaria per anticipare la fuga di notizie sul disastro che aveva colpito la Grande Armata, fugare ogni dubbio sulla sua salute, scongiurare qualsiasi tentativo di sovvertimento istituzionale e dissuadere gli incerti alleati prussiani e austriaci dall'abbandonare la causa francese. Il suo viaggio alla volta della capitale francese fu rapido: il 10 era già a Varsavia, otto giorni dopo a Parigi; la sua presenza restituì stabilità al suo potere, ma stavolta l'imperatore non poté nascondere la portata della disfatta cui era andato contro: i suoi sforzi si limitarono ad attribuirne tutta la colpa al gelo che, invece, aveva colpito l'esercito solo oltre la Beresina, quando era stato già ampiamente decimato dal caldo dei mesi estivi, dall'inedia, dagli avversari, dalle malattie, dagli incidenti e dalle diserzioni.
Come descritto dal Bertolotti, il freddo divenne una variabile a favore russo addirittura dopo il passaggio della Beresina:

"Riflettendo, su questi avvenimenti messi insieme, noi veggiamo che non è già il freddo del 14, del 15 e del 16 novembre che solo abbia distrutto l'esercito di Mosca. Ascoltiamo l'Autore «Non fu il freddo solo che sterminò e disfece l'esercito di Mosca, giacché il secondo e il nono corpo aveano conservato un ordine perfetto, benché avessero sofferto: lo stesso freddo. Il freddo asciutto ma sopportabile che si sentì dopo la partenza dà Mosca fino al cader della neve, fu vantaggioso anziché nocivo. Le principali cagioni dei disastri dell'esercito furono a prima giunta la carestia, poscia le marcie e l'alloggiare incessante sotto le tende: finalmente il freddo divenuto troppo, rigido od umido. Quanto ai cavalli, essi sopportano benissimo il freddo , sia pur esso rigoroso, quando sono ben nutriti; quind'essi non perirono che di fottìe e di disagi». Gli effetti mortali di un freddo eccessivo non furono che gli estremi sintomi della spaventósa agonia dell'esercito di Mosca.
Un chirurgo maggiore, il signor Renato Bourgeois, ne diede una minuta descrizione, nell'opera intitolata: Quadro della Campagna della Russia: ecco ciò che egli dice dello stato dell'esercito dopo il passaggio della Beresina. «In capo ad alcuni giorni di marcia l'esercito offriva un aspetto più che mai squallido. La stagione diveniva sempre più rigida; e noi eravamo privi di tutto ciò che pòtea renderne meno aspri gli incomodi. Si mancava specialmente di scarpe, che abbruciate dalle nevi, in mezzo alle quali si camminava sempre, furono bentosto consumate all'intuito. Bisognava ravvolgere i piedi nei cenci, in brani di coperte di lana e di pelli d'animali, che si legavano colla paglia o collo spago. Ma tutti questi mezzi, suggeriti dalla necessità, erano ben lontani dal tener luogo di stivali e di scarpe; essi all'incontro rendevano lentissimo ed assai penoso l'andare, e non difendevano che debolmente dalla impressione del freddo.
"

Il risultato della campagna di Russia metteva così a nudo la fragilità del sistema napoleonico, le sue contraddizioni e, se vogliamo, la sua decadenza, tanto da indurre i suoi alleati a chiedersi per quanto tempo ancora avrebbero dovuto fornire contingenti da mandare al macello, solo per assecondare improbabili progetti di dominio mondiale.