Battaglie In Sintesi
12 agosto 1099
Roberto II, era il figlio primogenito di Roberto I delle Fiandre e di Geltrude d'Olanda. Suo padre, sperando di attribuire la Contea delle Fiandre al ramo cadetto (la cosiddetta branca baldovinita), prese ad associarlo al governo della Contea intorno al 1077. Dal 1085 al 1091 egli fu quindi reggente della Contea mentre suo padre era lontano per un pellegrinaggio in Terrasanta. Dopo esser diventato conte delle Fiandre a pieno titolo, nel 1093, egli entrò a far parte della spedizione della prima crociata, lanciata da papa Urbano II nel 1095. Roberto, prima di avventurarsi nella crociata, istituì un consiglio di reggenza per le Fiandre e seguì poi nell'impresa Goffredo di Buglione, duca della Bassa Lorena.
Alla fine della sua gloriosa esperienza nelle crociate, nell'agosto 1099, Roberto tornò a casa, insieme a Roberto di Normandia e a Raimondo. Sulla via di ritorno Roberto, conquistò la città di Latakia, che restituì all'impero bizantino, come aveva promesso anni prima all'imperatore bizantino. Raimondo rimase lì, mentre i due Roberto proseguirono il loro viaggio verso casa, dirigendosi intanto verso Costantinopoli, Roberto, fu accolto da Alessio, che gli chiese se voleva rimanere al suo servizio, ma Roberto non accettò, perché voleva ritornare in patria ma, per la fedeltà mostrata, l'imperatore gli donò una preziosa reliquia, il braccio di San Giorgio: reliquia che fu poi collocata da Roberto nella chiesa di Anchin nelle Fiandre. Dopo esser tornato nelle sue amate Fiandre, Roberto costruì un monastero dedicato a Sant'Andrea a Betferkerke, vicino a Bruges. Gli abitanti delle Fiandre dettero due soprannomi a Roberto, uno era Roberto di Gerusalemme e l'altro Roberto il Crociato. Questi soprannomi gli furono dati a causa della sua partecipazione alle crociate e a causa del bottino portato con sé. Durante la sua assenza, l'imperatore del Sacro Romano Impero, Enrico IV aveva cercato di impossessarsi delle Fiandre. Roberto rispose alle ostilità sostenendo la rivolta del Comune di Cambrai, che era contro l'imperatore e il suo alleato, il vescovo Gaulcher, sequestrò un certo numero di castelli imperiali. La pace fu ristabilita nel 1102 e Roberto rese quindi omaggio all'imperatore ma, dopo il 1105, il nuovo imperatore, Enrico V, marciò sulle Fiandre, con l'aiuto di Baldovino III, conte di Hainaut e di un esercito olandese. Roberto fermò i suoi nemici al di fuori di Douai e riuscì così a firmare una nuova pace, in cui l'imperatore riconobbe a Roberto sia la città di Douai, sia quella di Cambrai. Nel 1103 sì alleò con il re d'Inghilterra Enrico I, offrendo 1.000 cavalieri in cambio di un tributo annuale, ma quando Enrico I si rifiutò di pagare, Roberto sì alleò con Luigi VI di Francia e attaccò insieme a lui la Normandia, che era in mano agli inglesi. Ma mentre il re francese stava attaccando gli inglesi, Tebaldo II di Champagne condusse una rivolta insieme ai baroni francesi contro Luigi VI. Roberto condusse quindi un esercito contro Meaux ma vicino alla città fu mortalmente ferito, cadde dal suo cavallo e morì annegato, il 5 ottobre 1111. Roberto II sposò Clementia di Borgogna, sorella del papa Callisto II, da questo matrimonio nacquero tre figli, ma solo il primogenito sopravvisse fino all'età adulta. Divenne conte di Fiandra col nome di Baldovino VII di Fiandra.
Nacque a San Giovanni d'Acri, figlio di al-Badr al-Jamali, governatore armeno di Acri, che era stato il potente visir dei califfi fatimidi, al Cairo, dal 1074 fino alla sua morte nel 1094, quando al-Afdal ne fu nominato successore dall'Imam/Califfo al-Mustansir che, a sua volta, morì poco tempo dopo. Erede designato dell'Imam/Califfo era il suo figlio maggiore Nizar, un cinquantenne. Piuttosto che rischiare di dover condividere con lui il potere, al-Afdal però preferì sostenere il figlio cadetto ventenne, che mise sul trono califfale con il titolo di al-Musta'li. La corte, i notabili del Cairo e la missione (da'wa) ismailita riconobbero al-Musta'li come nuovo califfo ed imam ismailita. La voce che al-Mustansir avesse cambiato parere in merito al nome del suo successore e la testimonianza della sorella del califfo sostennero questa operazione. Al-Afdal attaccò poi Alessandria, dove Nizar aveva trovato rifugio ed appoggio; inizialmente fallì e fu respinto fino alla periferia del Cairo, ma alla fine del 1095 al-Afdal tornò, pose sotto assedio Alessandria e questa volta riuscì a catturare Nizar, che condusse al Cairo, dove fu murato vivo per ordine di suo fratello al-Musta'li; Nizar morì nella sua prigione nel 1097. Contemporaneamente fu ucciso anche suo figlio Nizar ibn Ali al-Hadi. Solo il figlio minore di Nizar scampò alla morte grazie a servitori fedeli che lo condussero in Persia dove si rifugiò ad Alamut, ospite di Hasan-i Sabbah, che ne ebbe cura e lo crebbe in gran segreto, perpetuando così la linea successoria dell'Ismailismo nizarita.
Scegliendo al-Musta'li al posto di Nizar, al-Afdal divise, e quindi indebolì, la comunità ismailita. Gli Ismailiti d'Egitto, Yemen e dell'India occidentale riconobbero al-Musta'li, quelli siriani invece si divisero, andando a formare l'Ismailismo musta'liano. Al contrario, in Persia, sotto l'influenza di Hasan-i Sabbah insediato ad Alamut, fu Nizar che venne considerato come il solo imam legittimo. Hasan-i Sabbah teorizzò l'Ismailismo nizarita. All'epoca il potere fatimide in Palestina era stato ridotto dall'arrivo dei Turchi selgiuchidi, ma nel 1097 al-Afdal conquistò Tiro togliendola ai Selgiuchidi. Nel 1098, approfittando delle difficoltà dei Selgiuchidi, alle prese con la Prima crociata, al-Afdal Shahanshah attaccò la Palestina e, nel luglio 1098, mise sotto assedio Gerusalemme, che suo padre aveva perduto nel 1078 cercando vanamente di piegare i Selgiuchidi guidati da Tutush. Quest'ultimo aveva affidato il governatorato della città ad Artuq (fondatore della dinastia degli Artuqidi) e poi ai suoi figli Soqman ed Il Ghazi che, il 26 agosto 1098, furono costretti a capitolare e a consegnare la città. Al-Afdal espulse gli Artuqidi, ai quali fu permesso di raggiungere liberamente Damasco, e affidò la città ad uno dei suoi ufficiali, Iftikhar al-Dawla; così riportò la maggior parte della Palestina sotto il controllo dei Fatimidi, anche se per breve tempo. Al-Afdal, malgrado le sconfitte subite, rimase il vero arbitro del regime fatimide durante il tutto il regno di al-Musta'li, fino al 1101.
Il 12 agosto, i Crociati al comando di Goffredo di Buglione sorpresero al-Afdal alla Battaglia di Ascalona e gli inflissero una sonora sconfitta. Al-Afdal poté riaffermare il controllo fatimide su Ascalona, poiché i Crociati non tentarono di tenerla, e la utilizzò come base logistica per i successivi attacchi agli Stati crociati. Al-Afdal mosse ogni anno contro il nascente Regno di Gerusalemme. Nel 1103 ottiene un primo successo contro Baldovino; nel 1105 tentò di instaurare una cooperazione con l'atabeg di Damasco ma senza risultato, fu sconfitto di nuovo a Ramla. Al-Afdal e il suo esercito conseguirono effimeri successi fintanto che nessuna flotta europea interferì, poi non colsero altre vittorie. Anche se egli mandò a combattere le sue truppe migliori perse gradualmente il controllo delle fortezze costiere e le città della Palestina caddero una dopo l'altra nelle mani dei Crociati. Nel 1109 Tripoli fu conquistata, nonostante la flotta e i rifornimenti inviate da al-Afdal, e divenne il centro di un'importante contea crociata. Nel 1110 il governatore di Ascalona, Shams al-Khilafa, si ribellò contro al-Afdal con l'intenzione di consegnare la città a Gerusalemme in cambio di un grosso compenso, ma le sue stesse truppe berbere lo assassinarono e mandarono la sua testa ad al-Afdal. Baldovino arrivò a spingersi nello stesso Egitto, dove razziò Pelusium, ma morì durante la ritirata (1118). In seguito i Crociati presero Tiro come pure San Giovanni d'Acri e rimasero a Gerusalemme per decadi, fino all'arrivo di Saladino. Al-Afdal introdusse in Egitto l'iqta (una concessione fondiaria vitalizia), nonché una riforma fiscale che rimase immutata fino all'ascesa al potere di Saladino. Fu soprannominato Jalal al-Islam (gloria dell'Islam) e Nasir al-Din (Protettore della Religione). Nel dicembre 1121, durante la Id al-adha, al-Afdal fu aggredito per strada da tre nizariti venuti da Aleppo e morì poco dopo per le ferite. La vera causa fu il risentimento per il potere di al-Afdal covato dal figlio dell'Imam/Califfo al-Musta'li, che alla morte di quest'ultimo nel 1101, al-Afdal aveva messo sul trono, quando aveva solo cinque anni, con il titolo di al-Amir bi-ahkam Allah e che, divenuto adulto aveva deciso di sbarazzarsi del suo ingombrante visir. Ibn al-Qalanisi afferma che: «tutti gli occhi piansero e tutti i cuori si rattristarono per lui; il tempo non ha prodotto un suo simile dopo di lui, dopo la sua perdita il governo cadde in discredito». Gli succedette come visir al-Ma'mun al-Bata'ihi.
La fama della ricuperata Gerusalemme erasi divulgata nelle più lontane nazioni. In tutte le chiese che i Crociati sul cammino loro avevano restituite, rendevansi grazie a Dio, per la vittoria che instaurava nell'Oriente le leggi e il culto di Gesù Cristo. Accorrevano a Gerusalemme i Cristiani di Antiochia, di Edessa, di Tarso, di Cilicia, di Cappadocia, di Siria e di Mesopotamia: alcuni per istabilirvisi, altri per visitare i santi luoghi. Rallegravansi adunque i Cristiani, disperavansi i Mussulmani, de' quali, i fuggitivi da Gerusalemme, portavano ovunque la costernazione. Come si sentisse a Bagdad si grande calamità, lo narrano gli storici Moghir'Ed-din, Elmacino e Ahulfeda. Zeineddino, Cadi di Damasco si strappò la barba davanti al Califfo: tutto il Divano pianse sull'infortunio di Gerusalemme; furono comandati digiuni e preci per placare la collera divina: gli Imani e i Poeti deplorarono poeticamente la sciagura de' Mussulmani divenuti schiavi de' Cristiani, e leggonsi nelle loro elegie simili parole: «Oh quanto sangue sparso, oh che calamitadi hanno oppresso i veri credenti. Le donne dovettero fuggire celandosi il volta. I fanciulli caddero sotto i ferri del vincitore; e i nostri fratelli poco fa padroni della Siria, non hanno ormai più altro asilo che i dorsi dei loro cammelli o le viscere degli avvoltoi». È più sopra riferito come, avanti la espugnazione di Gerusalemme, fosse guerra tra i Turchi di Siria e di Persia con quelli d'Egitto, cagionata dalle discordie che insorgono sempre nella estinzione degli Imperi. Ma la prosperità de' Cristiani e l'oltraggio fatto alla religione di Maometto, ebbero subito potere di riunirli. Gli abitatori di Damasco e di Bagdad, che avevano fino allora esecrato il califfo del Cairo come nimico del Santo Profeta, presero in lui la loro ultima speranza; e da tutte le contrade mussulmane intrepidi guerrieri accorrevano in gran numero a congiungersi all'esercito egizio che si appropinquava ad Ascalona.
Pervenuta ai Crociati la novella di questo movimento, Goffredo spedì Tancredi, il conte di Fiandra, ed Eustachio da Boulogna a occupare il paese di Naplusio e l'antico territorio di Gabaone, ordinando loro che appropinquandosi al mare, procurassero di aver conoscenza delle forze e delle intenzioni del nemico. Costoro, poco dopo la partenza, spedirono un messaggio al re, annunziandoli che il Visir Afdal, che aveva prima tolta Gerusalemme ai Turchi, aveva passato il territorio di Gaza con grandissimo esercito e che in pochi giorni sarebbe in Galilea, sotto la stessa città. Il qual messaggio, giunto a sera fu a chiarore di faci e a suono di trombe pubblicato in tutti i quartieri della città, invitando tutti i guerrieri ad assembrarsi per il di' vegnente nella Chiesa del Santo Sepolcro per indi muoversi a combattere i nimici di Dio e a santificare le loro armi con la preghiera. Vivevansi i Crociati in tanta sicurezza ed erano in tal modo confidenti della vittoria, che l'annunzio del soprastante pericolo, non commosse per niente gli animi, né il riposo della notte fu turbato, se non per l'impazienza ed il generale desiderio di trovarsi in nuovi cimenti. Spuntata l'aurora le campane chiamarono i fedeli ai divini offici ove fu loro participata la parola dell'Evangelio e la santa Eucarestia, si che, esciti dalla chiesa pieni dello spirito di Dio, vestironsi le armi, e dalla porta occidentale mossero contro gli Egizi. Goffredo li conduceva, e il patriarca Arnoldo portava in fronte dell'esercito il Legno della vera Croce. Le donne, i fanciulli, i malati, e una parte del clero, sotto il governo dell'Eremita Piero, rimasersi in Gerusalemme, facendo delle processioni ai luoghi santi, e pregando giorno e notte Dio, per ottenere dalla sua misericordia l'ultimo trionfo dei soldati Cristiani e la distruzione dei nimici di Cristo. Ma il conte di Tolosa e il duca di Normandia non volevano seguitare l'esercito, allegando questo di aver compito il suo voto, e Raimondo che era stato costretto di dare al re la fortezza di Davide, ricusava di militare per lui e fingeva non credere alla venuta degli Egizi. Tante però furono le istanze e le preghiere de' compagni e quelle del popolo che finalmente s'arresero al comune desiderio.
L'esercito, assembrato a Ramla, lasciavasi a manca le montagne di Giudea e procedeva fino al torrente di Sorrec che mette nel mare, una ora e mezzo distante dal mezzogiorno d'Ibelino, oggi detto Ibna. Sulle sponde di questo torrente che gli Arabi chiamano Suckrec, trovarono i Crociati grandi mandrie di buffali, d'asini, di muli e di cammelli; sicché per la solita loro avidità della preda furono per disordinarsi; ma Goffredo suspicando di strattagemma del nimico, vietò ad ognuno che escisse degli ordini, sotto pena del taglio del naso e delle orecchie; alla qual pena il patriarca aggiunse le ecclesiastiche censure. Obbedirono i pellegrini e la sicurezza di quelle mandrie giovò loro anco per l'avvenire, come si racconterà. Da alcuni prigionieri, seppero i Crociati che l'esercito Mussulmano erasi accampato nella pianura d'Ascalona, dietro il quale avviso passarono la notte sotto le armi. Il di' appresso sul mattino (era la vigilia dell'Assunzione) gli araldi bandirono la pugna. Levato il sole, i capi e i soldati ordinaronsi sotto le loro bandiere; il patriarca benedisse l'esercito e portò per tutti gli ordini il legno della vera Croce qual pegno sicuro della vittoria. Dato è il segno e le schiere si muovono e come più s' avvicinano all'esercito egizio, maggior desiderio mostrano della pugna e maggior contidenza della vittoria; al qual proposito dice Raimondò Agilese: «Noi facevamo de' nostri nimici quel medesimo conto che se fossero stati branchi di timidi cervi o d'innocenti pecore».
Suonavano i tamburi, le trombe, i cantici guerrieri, e tutti, secondo Alberto Aquense, correvano contro i pericoli come a lieto festino. L'emiro di Ramla che come ausiliario seguitava l'esercito cristiano, ammiravasi, così riferiscono gli storici del tempo, di quell'allegrezza e alacrità dei Crociati, all'appressarsi d'un formidabile nemico, e giurò a Goffredo di volersi convertire alla religione che inspirava tanto coraggio e fortezza ai suoi difensori. Giunsero finalmente i Crociati nella pianura d'Ascalona che si stende circa una lega a Oriente e ivi è limitata da alcune prominenze di terreno più che colline, ove è il moderno villaggio arabo di Machdal, circondato da grandi olivi, da palme, da fichi, da sicomori, da prati e da campi seminati a orzo e grano. A tramontana la pianura mette in altre pianure, eccettoché a Maestrale dove appaiòno molte prominenze sabbiose; a mezzogiorno poi, il lato della pianura più propinquo al mare, termina in colli di sabbia, ed il terreno verso il lato meridionale è aperto e s'inampia in profonde solitudini. Sopra le dette colline di sabbia erasi accampato l'esercito egizio, simile, come esprime Folcherio Carnotense, a un cervo che presenta le sue corna, col fine di circondare i Cristiani. Sorgeva da ponente la città di Ascalona sopra una prominenza che sovrasta il mare, e numeroso navile con provvigioni di armi e di macchine belliche tenea il littorale di Ascalona. Trovandosi i due eserciti a fronte, il mussulmano, che secondo le spie avute, erasi fatto del cristiano concetto molto minore di quello appariva, ne rimase stupito; ma errava nella sua stima, perché tutti quei branchi di bestiame trovati di sopra dai Cristiani sulle sponde del Sorrec, attirati dal clangore delle trombe e delle chiarine, avendo seguitate le schiere cristiane e volteggiando loro attorno, facevano tal romore e levavano tal polverio, che i Mussulmani da lontano li scambairono per corpi di cavalleria; ed essendosi prima persuasi che i Cristiani non avrebbero nemmeno osato aspettarli in Gerusalemme, veggendoseli ora venire addosso in si' tanto numero, cominciarono a mutare la baldanza ed il coraggio in paura.
Invano il visir Afdal fece prova di rinfrancarli; tutti immaginavansi che nuovi Crociati a milioni fossero dall'occidente sopraggiunti: obliarono i loro giummenti e le loro minaccie, ed ebbero solo presente la tragica fine dei Mussulmuni trucidati dopo il conquiste di Antiochia e di Gerusalemme. I Crociati si disposero immantinente alla zuffa: Goffredo con diecimila cavalli e tremila fanti corse verso Ascalona per impedire che il presidio e il popolo facessero alcuna sortita durante la battaglia. Il conte di Tolosa, co' suoi provenzali, si spostò negli spaziosi vigneti suburbani fra l'esercito mussulmano e il mare. Il corpo dell'esercito capitanato da Tancredi e dai due Roberti, mosse contro la battaglia ed il corno destro del nimico. Cominciarono l'attacco i fanti, e la cavalleria rapidamente s'avventò negli ordini de' Mussulmani. Gli Etiopi, appellati da' Cronisti Azoparti, sostennero valorosamente il primo urto, e combattendo con un ginocchio in terra, saettavano nembi di freccie. Avanzaronsi poi nella fronte del loro esercito, con ferocissimi clamori, e tenendo in mano discipline che rotavano palle ferrate, disciplinavano alla dirotta gli scudi, le corazze e le teste de' cavalli, con molto danno de' Crociati. Seguitavano gli Etiopi, i lancieri, i frombolatori, e gli arcieri, ma l'impeto de' Crociati espugnava qualunque ostacolo. Tancredi, il duca di Normandia, il conte di Fiandra, prodigiosamente combattendo, forzarono i primi ordini dello schieramento nemico; il duca Roberto penetrò fin dove trovavasi il visire Afdalg, e prese il grande stendardo degli infedeli; il qual sinistro portò il disordine ne' Mussulmani, che più non osarono tener fronte ai loro avversari, e gittate le armi, fuggivansi dal campo di battaglia, e correndo verso il mare, vennero a dar di cozzo nelle genti di Raimondo da san Gille, che ne fece scempio.
Perseguitava frattanto i fuggitivi la cavalleria cristiana, e malmenandoli di continuo, li spinse fino al mare, dove almeno tremila si affogarono, sperando di potersi salvare a nuoto alla armata egizia, che per ricettarli erasi accostata alle rive. Alcuni de' vinti, eransi ricoverati nei giardini e ne' vigneti, e salendo sugli alberi, procuravano nascondersi nelle fronde dei più folti; senonché, essendo cacciati con lancie e frecce, precipitavano giù, come gli uccelli feriti dal cacciatore. Fecero prova, alcuni corpi mussulmani, di riordinarsi a nuova pugna, il che vedendo, Goffredo, per impedire che la zuffa non andasse troppo a lungo, mosse co' suoi cavalli, e impetuosamente avendoli assaltati, li ruppe e disperse. Così, in ogni parte sconfitto il nimico, non tenendo più alcuno il campo, comincio' la solita carneficina. I Mussulmani spaventati, gittate le armi, senza far difesa, porgevano stupidamente le gole ai ferri de' loro ammazzatori; molti, anco non assaliti, rimanevansi immobili, come se volontarii la morte aspettassero: e la spada de' Cristiani ( per usare le poetiche espressioni d' una cronica contemporanea ) mietevali come dalla falce sono mietute le spighe de' solchi o l'erba folta de' prati. Quelli a cui la fuga riuscì, ricoveraronsi nel deserto, ma quasi tutti miseramente perironvi. Quelli che più erano propinqui ad Ascalona, studiarono salvarsi nelle sue mura, ma v'accorsero a si gran frotte, che in sulle porte da duemila nel gran pigiare, soffocati, schiacciati e dai cavalli calpestati, morirono. Nella generale sconfitta, Afdal, fu per cader nelle mani del vincitore e lasciò la sua spada sul campo. Dicono gli storici che egli dalle torri d'Ascalona, contemplando la distruzione del suo esercito, non potesse frenare le lacrime; e che nella sua disperazione, maledisse Gerusalemme, cagione di tutti i suoi infortunii, e bestemmiasse Maometto accusandolo d'avere i suoi servi e discepoli abbandonati. «O Maometto (gli fa dire il Monaco Roberto) e fin vero che la possanza dell'appiccato sulla Croce, prevalga alla tua, giacché i Cristiani ci hanno sconfitti?». Così, non credednosi sicuro in Ascalona, imbarcavasi spacciatamente sul l'armata, la quale verso il mezzo giorno, spiegò le vele alla partenza: non lasciando più speranza di salvezza all'esercito disperso e fuggiasco, presagito liberatore dell'Oriente e la cui moltitudine, secondo i vecchi storici, era tanta che Dio solo avrebbe potuto numerarla.
Frattanto i Crociati che per temenza o verecondia de' loro capi, avevano fino allora frenata la loro potentissima brama del predare, non potendola più contenere e reputandosi assicurati della vittoria, avventaronsi a saccheggiare il campo de' Mussulmani. Imprevidenti sempre de' naturali bisogni ai quali presumevauo che Dio dovesse provvedere, non avevano portato vettovaglia seco loro, onde ebbero gran ventura in trovarne il campo nimico ben fornito; né furono loro di piccolo refrigerio, nello squallore di quelle ardenti sabbie, i molti vasi ripieni d'acqua, che i nimici, più dotti del paese, portavansi al collo e che ora fra le spoglie de' morti giacevansi. Ma le ricchezze e le provvigioni del campo erano si' sterminate che i vincitori, n'ebbero a sazietà e a rigurgito; e tale era l'abbondanza del miele, delle focaccie di riso e delle altre simili vivande portate dall'Egitto, che ogni vil fante dell'esercito, poté dire con ragione: «impoverimmo nell'abbondanza». Tale fu questa giornata campale, ornata di prodigi dalla Poesia; ma che invero non pose i Cristiani a grave ripentaglio, sicché non fu loro uopo di estraordinarie prove di valore, né di miracolose visioni. Non vennero in soccorso de' Crociati, né le legioni celesti, né i martiri San Giorgio e Demetrio, che quei buoni soldati immaginavansi sempre vedere nei grandi pericoli.
Oltre ciò, i principi cristiani medesimi, in una loro lettera che mandarono poco dopo in Occidente, parlano di questa vittoria con molta semplicità e modestia, attribuendola piuttosto alla fortuna o a Dio, che al proprio loro valore. Dicevano nella detta lettera: «Tutto fu favorevole nei preparativi della battaglia; le nuvole facevano scudo agli ardenti strali del Sole, e un vento fresco temperava gli ardori del meriggio. Venuti a fronte i due eserciti, noi piegammo un ginocchio in terra ed invocammo al Dio che solo è arbitro della vittoria. Il Signore esaudì le nostre preghiere, e ci spirò tanto coraggio, che chi ci avesse veduti correre contro il nimico ne averebbe presi per un branco di cervi che vanno a dissetarsi a chiara fonte». Narrano dipoi i principi la rotta de' Mussulmani; la cui moltitudine fu al primo urto sbaragliata, e come disarmata frolla davasi precipitosamente alla fuga. Conobbero i Cristiani per questo nuovo esperimento, essere molto meno formidabili avversari gli Egizi de' Turchi. Era l'esercito egizio composto da diverse genti fra loro divise, raccolte in fretta, mai prima usate ne' campi. L'esercito de' Crociati, per lo contrario, era agguerrito, e guidato da peritissimi capitani: l'ardita risoluzione di Goffredo di muovere contro il nemico fa' molto confidenti i soldati, e mise il disordine e lo spavento negli Egizi. Secondo il Monaco Roberto testimonio oculare e Guglielmo Tirense, i Cristiani non avevano più che ventimila combattenti, mentre i Mussulmani aggiungevano a trecentomila.
I vincitori avrebbero potuto occupare facilmente Ascalona, ma la discordia frenata fino allora dal pericolo, cominciò ad agitare i capi e tolse loro che conseguissero i frutti della vittoria. Dopo la rotta degli Egizi, Raimondo aveva spedito nella città un cavaliere incaricato d'intimare al presidio la resa e di piantare sulle mura la sua bandiera, volendo per se quel conquiste. Goffredo dall'altro canto ne reclamava il possesso, pretendendo che Ascalona fosse parte del regno di Gerusalemme. Perloché il conte di Tolosa vinto dallo sdegno, se ne parti' con le sue genti, avendo consigliato ai cittadini e al presidio di non arrendersi al duca di Lorena, il quale rimanendo solo nell'assedio, non avrebbe potuto espugnarla. Così il maggior numero de' Crociati abbandonò le bandiere di Goffredo, onde anch'esso fu necessitato allontanarsi, non avendo conseguito altro da quella città atterrita per le armi cristiane, che piccolo tributo.
Questa contenzione insorta fra Raimondo e Goffredo ad Ascalona, si rinnovò dopo pochi giorni davanti alla città di Arsufa che è in riva al mare dodici miglia distante dal settentrione di Ramla. Ultima delle guerresche fatiche della Crociata fu la giornata di Ascalona, con che sciolto il voto dopo quattro anni di pericoli e di dure prove, i principi Crociati,volsero i pensieri alle loro contrade natie.
Tratto da:
"Storia delle crociate" scritta da Giuseppe Francesco Michaud, Volume 1, Firenze 1842