Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Battaglia di Ardea

442 a.C.

Il console

Marco Geganio Macerino (Roma, ... - ...)

Fu eletto alla massima carica dello stato romano nel 447 a.C. assieme a Gaio Giulio Iullo; durante il consolato, insieme al collega, sedò le contese tra i Tribuni della Plebe e i giovani nobili, senza compromettere però la sua posizioni presso gli uni o gli altri, riuscendo ad impedire che la plebe differisse od impedisse oltre la cosa, intimandole infatti che le discordie interne avrebbero animato ancora di più i nemici e messo in pericolo la Stato; pertanto si assicurò anche la concordia interna all'Urbe. Fu eletto al secondo consolato nel 443 a.C., insieme a Tito Quinzio Capitolino Barbato, giunto al suo quinto consolato. In quell'anno fu istituita la magistratura del censore, soprattutto per alleviare i consoli dai compiti del censimento. A Marco Geganio fu affidato il compito di ristabilire l'ordine ad Ardea, alleata di Roma, dove i plebei ardeatini assediavano i patrizi, asserragliati sulla rocca cittadina. Quando vi arrivò, vi trovò anche contingenti Volsci, chiamati dai plebei, nella guerra civile che vi si stava combattendo. Marco Geganio, costretti i Volsci al combattimento, ottenne una grande vittoria, che celebrò con un trionfo a Roma, a cui fece partecipare Equo Cluilio, il comandante dei Volsci sconfitti. Fu eletto al terzo consolato nel 437 a.C., insieme a Lucio Sergio Fidenate. Sotto il suo consolato ebbe inizio lo scontro contro Fidene, alleatasi con Veio dove regnava Lars Tolumnio e i Falisci. L'esercito romano, guidato dal collega, sconfisse l'esercito veiente, guidato da Tolumnio, lungo le sponde dell'Aniene, ma lo scontro fu così violento, e causò così tante perdite anche tra i romani, che si decise per la nomina di un dittatore per condurre la campagna. Mamerco Emilio Mamercino, eletto dittatore, guidò i romani alla vittoria contro i tre popoli nemici, ottenendo per questo il trionfo.

La genesi

Sia che ci fossero stati solo tribuni, sia che i tribuni fossero stati successivamente sostituiti da consoli, a quell'anno ne seguì un altro in cui si ebbero i consoli Marco Geganio Macerino, per la seconda volta, e Tito Quinzio Capitolino, per la quinta. Quello stesso anno vide l'avvio della censura, carica modesta in origine, ma che acquistò in seguito un tale prestigio da sottoporre alla propria autorità il controllo dei costumi e della condotta dei Romani, così come il giudizio sulla rettitudine o meno del senato e delle centurie dei cavalieri. Ma alla discrezione di chi deteneva questa carica erano affidati anche il diritto decisionale sulle proprietà pubbliche e private e la cura dell'approvvigionamento alimentare del popolo romano. La censura si era resa necessaria non solo perché non si poteva più rimandare il censimento che da anni non veniva più fatto, ma anche perché i consoli, incalzati dall'incombere di tante guerre, non avevano il tempo per dedicarsi a questo ufficio. Fu presentata in senato una proposta: l'operazione, laboriosa e poco pertinente ai consoli, richiedeva una magistratura apposita, alla quale affidare i compiti di cancelleria e la custodia dei registri e che doveva stabilire le modalità del censimento. E pur trattandosi di una carica modesta, i senatori la accolsero contenti perché avrebbe incrementato il numero di magistrati patrizi all'interno della repubblica e inoltre, com'è mia opinione per altro confermata da quello che accadde poi, perché pensavano che in poco tempo il prestigio delle persone che la detenevano avrebbe aggiunto alla carica autorità e rispettabilità. E anche i tribuni, considerando quella magistratura più necessaria che onorifica - come infatti era in quel tempo -, per evitare un inopportuno ostruzionismo in questioni di poco conto, non fecero alcuna opposizione. Siccome i cittadini più autorevoli disdegnarono la carica, il popolo decretò di affidare il censimento a Papirio e a Sempronio (sul consolato dei quali persistono dubbi), in maniera tale che con quella magistratura potessero integrare un consolato incompleto. Dalla loro funzione presero il nome di censori.

Mentre a Roma succedevano queste cose, arrivarono da Ardea ambasciatori a implorare aiuto per la loro città sull'orlo della rovina, in nome dell'antichissima alleanza e del trattato rinnovato di recente. Infatti non godevano più della pace, saggiamente mantenuta invece con il popolo romano, a causa di una guerra civile originata, per quel che se ne sa, dalla rivalità tra le fazioni, che, per buona parte dei popoli, furono e saranno ben più esiziali delle guerre esterne, delle carestie, delle pestilenze, e di tutte le altre cose, calamità e pubblici disastri che vengono attribuiti all'ira divina. Una ragazza di origini plebee, famosa per la sua bellezza, aveva due giovani pretendenti: uno era della stessa condizione e contava sull'appoggio dei tutori di lei, anch'essi della stessa classe, l'altro, nobile, era attratto esclusivamente dalla bellezza. La causa di quest'ultimo era appoggiata dal favore degli ottimati, e così la lotta tra fazioni entrò anche nella casa della ragazza. La madre preferiva il nobile perché voleva per sua figlia il più sontuoso dei matrimoni; i tutori, invece, pensando anche in quella circostanza in termini di parte, sostenevano il pretendente plebeo. Siccome la cosa non poté essere risolta tra le mura domestiche, si ricorse al tribunale. Dopo aver ascoltato le ragioni della madre e dei tutori, i magistrati stabilirono che spettasse alla madre decidere ciò che riteneva più giusto riguardo alle nozze. Ma la violenza ebbe il sopravvento. I tutori infatti, dopo aver arringato in pieno foro gli uomini della loro parte, mettendo l'accento sull'iniquità del verdetto, formarono un gruppo e rapirono la ragazza dalla casa della madre. Contro di loro mosse una schiera di patrizi ancora più inferociti e guidati dal giovane fuori di sé per l'oltraggio subito. Lo scontro fu durissimo. La plebe respinta - in niente simile alla plebe romana - esce armata dalla città, occupa un colle e di là opera incursioni nelle terre dei patrizi, le mette a ferro e fuoco. La plebe si prepara ad assediare la città: l'intera corporazione degli artigiani, compresi quelli che fino ad allora non avevano preso parte agli scontri, era stata richiamata dalla speranza di bottino. E non mancava nessuno degli orrori bellici, come se la città fosse stata contagiata dalla rabbia dei due giovani che cercavano nozze funeste dalla rovina del loro paese. A nessuna delle due parti parve che in patria ci fossero già abbastanza armi e guerra: gli ottimati chiamarono i Romani in aiuto della città assediata, i plebei si rivolsero ai Volsci per conquistare Ardea con il loro sostegno. I Volsci comandati da Equo Cluilio arrivarono per primi ad Ardea e costruirono una trincea davanti alle mura nemiche. Quando a Roma arrivò la notizia, il console Marco Geganio partì immediatamente con l'esercito e, giunto a tre miglia di distanza dal nemico, scelse un luogo adatto per porre l'accampamento; poi, siccome stava rapidamente calando la notte, diede ordine ai soldati di riposarsi.

La battaglia

Alle tre di notte, si mise in movimento e, iniziata la costruzione di una trincea, la completò così velocemente che al sorgere del sole i Volsci si resero conto di essere stati circondati dai Romani con una fortificazione più solida di quella da loro costruita intorno alla città. In un settore il console aveva poi aggiunto un terrapieno collegato alle mura di Ardea, in maniera tale che i suoi potessero andare e venire dalla città al campo. Il comandante dei Volsci, che fino ad allora aveva sfamato i suoi col frumento preso giorno per giorno razziando le campagne circostanti e non con scorte accumulate in precedenza, quando, circondato dal vallo, all'improvviso si trovò del tutto privo di risorse, invitò il console a colloquio e gli disse che, se i Romani erano là per liberare Ardea dall'assedio, lui avrebbe portato via i Volsci. Il console replicò che i vinti devono subire le condizioni e non dettarle. I Volsci erano venuti ad assediare gli alleati del popolo romano di loro spontanea volontà, però ora non potevano andarsene nella stessa maniera. Ordinò che consegnassero il comandante e che deponessero le armi, dichiarandosi vinti e obbedienti ai suoi ordini. In caso contrario lui sarebbe stato un nemico pericoloso sia per chi se ne andava, sia per chi rimaneva, deciso com'era a riportare a Roma una vittoria sui Volsci piuttosto che una pace incerta. I Volsci, non avendo altre vie d'uscita, tentarono l'unica cosa che restava da fare, lo scontro armato. Siccome, oltre a tutti gli altri svantaggi, si trovavano in un luogo poco adatto al combattimento e ancor meno alla fuga, vennero massacrati da ogni parte. Abbandonata la lotta per implorare invece salvezza, dopo aver consegnato il comandante e cedute le armi, furono fatti passare sotto il giogo e quindi, con addosso un solo indumento per ciascuno, rimandati in patria carichi di vergogna per la disfatta. Accampatisi non lontano da Tuscolo, inermi com'erano, furono sopraffatti dai Tuscolani, che da lungo tempo li odiavano. Così dura fu la punizione che quasi non rimasero superstiti a riferire la notizia del disastro. Ad Ardea il console romano ristabilì l'ordine sconvolto dalla sedizione, facendo decapitare i capi e confiscando i loro beni a beneficio dell'erario degli Ardeati. Questi pensavano che il grande servigio prestato loro dal popolo romano avesse riparato l'affronto del verdetto relativo alla terra contesa; ciò nonostante al senato di Roma sembrava che ci fosse ancora qualcosa da fare per cancellare il ricordo di quella avidità dello Stato romano.

Le conseguenze

Il console tornò a Roma in trionfo, facendo camminare davanti al suo carro il comandante dei Volsci Cluilio e mettendo in mostra le spoglie strappate all'esercito nemico che, disarmato, era stato da lui costretto a passare sotto il giogo. Il console Quinzio, rimasto in patria, riuscì ad eguagliare, cosa non facile, i riconoscimenti ottenuti dal collega in campo militare: ebbe cura della pace e della concordia interne, regolando i diritti dei cittadini dal ceto più umile al più alto in modo tale che i patrizi lo considerarono un console energico e i plebei abbastanza moderato. E anche nei rapporti coi tribuni ricorse alla sua autorità piuttosto che allo scontro aperto. Cinque consolati esercitati sempre nello stesso modo e tutta una vita degna di un console facevano sì che l'uomo imponesse maggiore rispetto della carica. Perciò, durante quel consolato, non si fece alcun accenno a tribuni militari.