Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Battaglia di Aquilonia

293 a.C.

I consoli

Lucio Papirio Cursore

Fu eletto console nel 293 a.C. con Spurio Carvilio Massimo. Entrambi i consoli entrarono nel Sannio, dove Papirio espugnò Duronia. Fu Papirio a guidare l'esercito romano alla vittoria nella Aquilonia, considerata fondamentale per la definitiva vittoria contro i Sanniti. In seguito alla battaglia Papiro, assediò e conquistò la città sannita di Sepino. Tornato a Roma celebrò un fastoso trionfo, per la vittoria sui Sanniti. Fu eletto console nuovamente nel 272 a.C. sempre con Spurio Carvilio Massimo. Assediò Taranto, che si arrese.


Spurio Carvilio Massimo

Fu eletto console nel 293 a.C. con Lucio Papirio Cursore. Entrambi i consoli entrarono nel Sannio, dove Carvilio espugnò Amiternum. Mentre Papirio guidava l'esercito romano alla vittoria nella Aquilonia, considerata fondamentale per la definitiva vittoria contro i Sanniti, Spurio Carvilio sconfiggeva i Sanniti nella vicina Cominio. In seguito alla battaglia Carvilio conquistò le città sannite di Velia, Palombino ed Ercolaneo. A Carvilio poi toccò in sorte la campagna contro le città etrusche e falische che si erano ribellate, con l'esercito romano lontano nel Sannio. Tornato in Etruria espugnò Troilo, costringendo i ribelli alla resa. Tornato a Roma, celebrò il trionfo, per le vittorie sui Sanniti e sugli Etruschi. Fu eletto console nuovamente nel 272 a.C. sempre con Lucio Papirio Cursore.

La genesi

L'anno che seguì ebbe un console, Lucio Papirio Cursore, famoso sia per la gloria conquistata dal padre sia per quella personale, nonché una grossa guerra e una vittoria sui Sanniti quale nessuno fino a quei giorni - salvo Lucio Papirio, padre appunto del console - aveva mai riportato. E il caso volle che i nemici preparassero la guerra con lo stesso sforzo e lo stesso spiegamento di mezzi, arricchendo le truppe di armi più sfarzose e ricche che mai. E avevano cercato anche il sostegno degli dei, iniziando, per così dire, i soldati con un antico rito sacramentale: in tutto il Sannio venne bandita la leva militare con una legge inusitata, in virtù della quale qualunque giovane in età non si fosse presentato alla chiamata dei comandanti o avesse lasciato il paese senza autorizzazione sarebbe stato maledetto e consacrato a Giove. La convocazione per tutti gli effettivi venne fissata ad Aquilonia, dove convennero circa 40.000 soldati, che rappresentavano il meglio di tutte le forze sannite. Là, al centro dell'accampamento, venne tracciato un recinto delimitato da picchetti e assicelle e ricoperto con una tela di lino, che misurava circa duecento piedi tanto in lunghezza quanto in larghezza. All'interno del recinto celebrò i sacrifici attenendosi alle indicazioni di un antico libro rilegato in lino il sacerdote Ovio Paccio, un uomo molto avanti con gli anni, che sosteneva di aver desunto quel rito da un'antica usanza sannita, praticata un tempo dagli antenati quando avevano concepito il progetto di strappare Capua agli Etruschi. Concluso il sacrificio, il comandante in capo ordinò a un banditore di convocare gli uomini più in vista per ascendenti e valore, facendoli venire uno per volta. L'intero apparato della cerimonia era allestito in modo da suscitare negli animi timore religioso: contribuivano a questo effetto soprattutto gli altari al centro del recinto integralmente coperto, le vittime sgozzate intorno agli altari e i centurioni in cerchio con le spade in pugno. I convocati venivano fatti avvicinare agli altari, più come vittima che come effettivo partecipante al sacrificio, e dovevano giurare di non rivelare quanto avevano visto o sentito in quel punto. Mediante una formula intimidatoria venivano costretti a giurare che sarebbero state maledette le loro persone, la famiglia e la stirpe, qualora non fossero scesi in campo là dove i comandanti li guidavano, o avessero abbandonato il campo di battaglia, o ancora vedendo qualcuno darsi alla fuga non lo avessero ucciso su due piedi. All'inizio alcuni che non accettavano di prestare questo giuramento vennero passati per le armi davanti agli altari, e i loro cadaveri distesi tra le vittime servirono poi da monito agli altri affinché non si tirassero indietro. Quando poi i nobili sanniti si furono vincolati con questo giuramento, il comandante fece i nomi di dieci di loro e ordinò che ciascuno di essi scegliesse un altro uomo, e questi un altro ancora fino a raggiungere la cifra di 16.000. Quella legione, dalla copertura del recinto all'interno del quale la nobiltà aveva consacrato se stessa, venne chiamata linteata. A quanti ne facevano parte vennero consegnate armi sfavillanti ed elmi crestati, in modo da distinguerli in mezzo a tutti gli altri. Il resto dell'esercito ammontava a poco più di 20.000 uomini che, quanto a forza fisica, valore militare e armamento, non erano inferiori alla legione linteata. Tutti questi effettivi, il meglio delle forze del Sannio, si accamparono nei pressi di Aquilonia.

I consoli partirono da Roma: il primo fu Spurio Carvilio, cui erano state assegnate le vecchie legioni, lasciate l'anno prima dal console Marco Atilio nella zona di Interamna. Marciando alla volta del Sannio alla testa di queste legioni, mentre i nemici tenevano riunioni segrete impegnati nelle loro pratiche di iniziazione, conquistò con la forza la città di Amiterno togliendola ai Sanniti. In quel luogo caddero 2.800 uomini, i prigionieri furono 4.270. Arruolato un nuovo esercito come era stato stabilito, Papirio espugnò la città di Duronia. Catturò meno uomini del collega, uccidendone però un numero più alto. In entrambe le zone venne conquistato un ricco bottino. I due consoli poi, dopo aver effettuato scorrerie ad ampio raggio nel Sannio, e devastato in particolar modo la zona di Atina, arrivarono Carvilio a Cominio, e Papirio ad Aquilonia, dove si era concentrato il grosso delle truppe sannite. Là, per alcuni giorni, le due parti, pur senza astenersi del tutto da azioni militari, non arrivarono mai però a uno scontro vero e proprio: provocavano il nemico se era inattivo, tornavano sui propri passi se opponeva resistenza, e ingannavano il tempo rendendosi minacciosi più che attaccando battaglia. Qualunque fosse l'operazione intrapresa o sospesa, ogni decisione in merito, anche la più insignificante, veniva rinviata da un giorno all'altro. L'altro esercito romano, che si trovava a venti miglia di distanza, e il collega lontano partecipavano col pensiero alla gestione di tutte le operazioni, e Carvilio era più concentrato su Aquilonia di quanto non lo fosse Cominio che la stava assediando. Lucio Papirio, preparata ormai ogni cosa per il combattimento, inviò un messaggero al collega per dirgli che era sua intenzione, se gli auspici fossero stati favorevoli, di attaccare battaglia il giorno successivo: era necessario che anche Carvilio attaccasse Cominio con la maggior forza d'urto possibile, perché i Sanniti non avessero più modo di inviare dei rinforzi ad Aquilonia. Il messaggero ebbe un giorno di tempo per compiere il tragitto: ritornò nella notte riferendo che il collega approvava il piano. Inviato il messaggero, Papirio aveva subito convocato un'assemblea, durante la quale tenne un lungo discorso sull'arte di gestire le guerre in generale, e in particolare sulle attrezzature che al presente i nemici potevano vantare, e che risultavano più belle a vedersi di quanto non fossero efficaci all'atto pratico: infatti non erano certo i cimieri a procurare le ferite e il giavellotto romano era in grado di trapassare anche gli scudi colorati e carichi d'oro, e quell'esercito sfavillante per il candore delle tuniche si sarebbe sporcato di sangue, quando fossero entrate in azione le spade. In passato suo padre aveva fatto a pezzi un altro esercito sannita tutto oro e argento, e quelle spoglie aveva garantito maggiore rinomanza al nemico vittorioso che ai Sanniti stessi. Forse era destino che la sua gens e il suo nome si opponessero agli sforzi maggiori dei Sanniti, e riportassero quelle spoglie che rappresentavano uno straordinario ornamento anche per i luoghi pubblici. Gli dei immortali erano dalla parte dei Romani, dopo che i patti tante volte richiesti erano stati altrettante volte violati. E se era mai possibile penetrare nei disegni della mente divina, gli dei non erano mai stati tanto avversi a nessun esercito quanto a quello che, dopo essersi macchiato con un rito sacrilego in cui il sangue umano era stato mescolato a quello delle bestie, avviato a una duplice ira divina, temendo da una parte l'ira degli dei testimoni dei patti conclusi coi Romani, e dall'altra le maledizioni legate al giuramento pronunciato, aveva giurato contro la propria volontà, odiava il giuramento, ed era intimorito contemporaneamente dagli dei, dai concittadini e dai nemici.

Esposte queste cose - di cui era venuto a conoscenza tramite le rivelazioni dei disertori - di fronte a uomini già infiammati dal risentimento, questi ultimi, pieni di speranze sia negli dei sia negli uomini, chiesero all'unisono battaglia, rammaricandosi che lo scontro fosse rinviato al giorno successivo e trovando intollerabile il ritardo di un giorno e di una notte. Passata la mezzanotte, quando gli venne riferita la risposta del collega, Papirio si alzò in silenzio e ordinò all'aruspice addetto ai polli di trarre gli auspici. Nel campo non c'era un solo uomo che non ardesse dal desiderio di combattere, e dai gradi più alti a quelli più subalterni tutti avevano dentro la stessa fiamma: il comandante guardava alla determinazione dei soldati, i soldati a quella del comandante. Questo diffuso spirito venne trasmesso anche a quanti stavano passando in rassegna gli auspici: infatti, anche se i polli non stavano affatto mangiando, l'aruspice giunse a falsare l'auspicio e annunciò al console un pasto quanto mai favorevole. Felicissimo il console riferì ai suoi che gli auspici erano eccellenti e che avrebbero combattuto col favore degli dei; diede così il segnale di battaglia. Mentre stava già per uscire dall'accampamento, un disertore riferì che venti coorti sannite di circa 400 uomini l'una erano partite alla volta di Cominio. Il console inviò subito un messaggio al collega per informarlo della cosa; ordinò poi di accelerare le operazioni. Distribuì i riservisti nelle posizioni più adatte e assegnò loro i rispettivi ufficiali. A capo dell'ala destra piazzò Lucio Volumnio, alla sinistra Lucio Scipione, affidando la cavalleria ad altri luogotenenti, Gaio Cedicio e Tito Trebonio. A Spurio Nauzio diede disposizione di far togliere i basti ai muli e di portarli in fretta, insieme ad alcune coorti di ausiliarii, su un'altura ben visibile; gli ordinò di farsi notare, a combattimento iniziato, alzando un polverone quanto più fitto possibile. Mentre il comandante sbrigava queste disposizioni operative, tra gli aruspici sorse una controversia circa gli auspici tratti quel giorno, e la lite arrivò alle orecchie di alcuni cavalieri romani che, pensando non fosse una questione priva di rilievo, ne riferirono a Spurio Papirio, figlio del fratello del console, dicendogli che erano sorte contestazioni sugli auspici. Quel giovane, nato prima della dottrina che insegna a disprezzare gli dei, si informò sui fatti, per evitare di riferire solo dicerie prive di fondamento, poi riportò la cosa al console. Questi gli rispose così: "Onore alla tua virtù e al tuo zelo. Però, se quanti traggono gli auspici danno falsi annunci, essi attirano su di sé la maledizione divina. A me è stato annunciato un pasto consumato con grande voracità, ciò che rappresenta un ottimo auspicio per l'esercito e il popolo romano". Ordinò così ai centurioni di schierare gli aruspici nelle prime file. Anche i Sanniti fecero avanzare le loro insegne, seguite dagli uomini con le loro armature splendenti, uno spettacolo straordinario anche per i nemici. Prima dell'urlo di guerra e dell'inizio delle ostilità, l'aruspice addetto ai polli, colpito da un giavellotto lanciato a caso, cadde nelle prime file. Quando la cosa venne riferita al console, questi commentò così: "Gli dei sono presenti sul campo di battaglia: il colpevole è stato punito". Mentre il console pronunciava queste parole, un corvò gracchiò ad alta voce lì davanti a lui. Felice per questo segno beneagurante, il console ordinò di suonare il segnale di attacco e di alzare il grido di guerra, affermando che mai in passato gli dei erano intervenuti con maggior tempestività nelle vicende umane.

La battaglia

La battaglia venne combattuta con estremo accanimento, anche se lo spirito con cui i contendenti la affrontarono era di gran lunga differente: a trascinare in battaglia i Romani, assetati di sangue nemico, erano la rabbia, la speranza e la determinazione; buona parte dei Sanniti, costretti dalla necessità e dalle fobie religiose più a resistere che ad attaccare, combatteva invece controvoglia. E certo non avrebbero retto al primo grido di guerra e al primo assalto dei Romani - abituati com'erano alla sconfitta da ormai molti anni -, se a trattenerli dalla fuga non fosse stata un'altra più forte paura, relegata nel loro intimo. Avevano infatti ancora davanti agli occhi tutto l'apparato di quel rito segreto - i sacerdoti armati, cadaveri di uomini e bestie ammassati alla rinfusa, gli altari lordi di sangue pio ed empio, la terribile professione di fede e l'invocazione delle furie, a maledire la stirpe e la famiglia. Erano questi gli ostacoli che impedivano la fuga ai Sanniti, intimoriti più dalla loro gente che dai nemici. La pressione dei Romani si esercitava sia sulle due ali sia sul centro, portandoli a seminare la strage tra i nemici attoniti per il timore degli dei e degli uomini. Resistevano senza troppa convinzione, come uomini cui soltanto la codardia impedisca di darsi alla fuga. Il massacro era già arrivato quasi alle insegne, quando da un lato si alzò un gran polverone, come di solito succede per il passaggio di un esercito in marcia. Era Spurio Nauzio (anche se alcuni autori sostengono si trattasse di Ottavio Mecio), a capo delle coorti ausiliarie. Il polverone che sollevavano era molto più consistente di quanto non comportasse il loro numero, perché gli uomini in groppa ai muli trascinavano rami frondosi. Davanti, attraverso l'aria resa torbida dal polverone, si scorgevano le insegne e le armi: poco più dietro il pulviscolo più spesso e denso faceva pensare che a chiudere la marcia fosse la cavalleria, e il trucco non ingannò soltanto i Sanniti ma anche i Romani. Il console diede consistenza all'errata interpretazione, gridando ad alta voce nelle prime file - in modo che le sue parole arrivassero anche ai Sanniti - che Cominio era stata presa, e che il collega reduce dalla vittoria si stava avvicinando: quindi si impegnassero a fondo per la vittoria prima che il merito toccasse interamente all'altro esercito. Gridò queste parole dritto sul cavallo, poi diede ordine ai tribuni e ai centurioni di aprire il passaggio per la cavalleria (in precedenza aveva già avvisato Trebonio e Cedicio che, non appena lo avessero visto vibrare l'asta in alto, lanciassero i cavalieri a caricare il nemico con la maggiore violenza possibile). Al segnale convenuto tutto si svolse come era stato concertato: tra le file della fanteria venne lasciato libero il passaggio, i cavalieri si lanciarono avanti e caricarono lancia in resta le schiere nemiche, sfondandone i ranghi dovunque irrompevano. Volumnio e Scipione incalzavano seminando la morte tra i nemici in ritirata. Fu allora che, non potendo più nulla la minaccia degli dei e degli uomini, le coorti linteate vennero travolte, senza distinzione tra quanti avevano prestato giuramento o meno, non temendo più nient'altro se non il nemico. I fanti scampati alla battaglia ripararono nell'accampamento o ad Aquilonia, mentre i nobili e i cavalieri fuggirono a Boviano. I cavalieri romani inseguirono la cavalleria, i fanti la fanteria. Le due ali si mossero in direzioni differenti: la destra verso l'accampamento sannita, la sinistra verso la città. Volumnio prese l'accampamento molto prima, mentre dalle parti della città Scipione incontrò maggiore resistenza, non certo perché gli sconfitti avessero più coraggio, quanto perché una cinta muraria è certo più indicata di una trincea a respingere un assalto armato. E gli assediati, scagliando pietre dalle mura, tenevano lontani i nemici. Scipione, convinto che se non si fosse giunti a una soluzione rapida - prima che gli animi si riprendesso dalla sorpresa -, l'assedio di quella città fortificata sarebbe andato troppo per le lunghe, chiese ai soldati se accettavano di buon grado di essere ricacciati dalle porte della città, pur avendo vinto la battaglia, mentre l'altra ala si era impossessata dell'accampamento. Tutti protestarono a gran voce; allora Scipione, sollevato lo scudo sopra la testa, si avviò per primo verso la porta. Gli altri si inquadrarono a testuggine e irruppero in città. Cacciarono i Sanniti occupando la cinta nei pressi della porta, senza però avere il coraggio di addentrarsi ulteriormente, visto il numero esiguo della loro formazione.

Il console in un primo tempo non era al corrente di questi avvenimenti ed era impegnato a chiamare a raccolta gli uomini, perché il sole stava ormai per tramontare e l'imminente oscurità rendeva tutto insidioso e pieno di pericoli, anche per il vincitore. Spintosi un pò più avanti, vide sulla sua destra che l'accampamemnto nemico era stato occupato, mentre dalla sinistra sentì arrivare dalla città un boato misto di urla di battaglia e grida di terrore. Proprio in quel momento infuriava la battaglia presso la porta. Avvicinatosi in sella al cavallo, non appena vide i suoi uomini sulle mura e si rese conto di non avere più la situazione sotto controllo, perché l'imprudenza di pochi gli offriva il destro per portare a termine una grande impresa, diede ordine di richiamare le truppe già raccolte, e ingiunse loro di avanzare verso la città. Entrati dalla parte più vicina, vi si fermarono perché stava calando la notte. Nel corso della notte i nemici si ritirarono. In quella giornata furono uccisi, nella zona di Aquilonia, 20.340 Sanniti, 3.870 furono fatti prigionieri e vennero catturate novantasette insegne militari.

Le conseguenze

Stando a quanto è stato tramandato, pare che non si fosse mai visto un comandante tanto allegro nel corso di una battaglia, sia per la sua naturale disposizione di carattere, sia per la fiducia che aveva nel successo dell'impresa. In virtù di questa determinazione, non riuscì a trattenerlo dall'attaccare battaglia nemmeno l'auspicio controverso, e proprio nel pieno dello scontro, quando di solito si promettono in voto i templi agli dei, egli promise a Giove Vincitore che in caso di vittoria sull'esercito nemico gli avrebbe offerto un bicchierino di vino al miele, dopo un'abbondante libagione personale di vino puro. La promessa andò a genio agli dei, che rivolsero in bene gli auspici.



Bibliografia:
"Ab Urbe Condita", Tito Livio, Libro X