Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Seconda Battaglia di Anzio

468 o 466 a.C.

Il console

Tito Quinzio Capitolino Barbato (... - ...)

Fu eletto per la prima volta console nel 471 a.C. con il collega Appio Claudio Sabino Inregillense, quest'ultimo eletto grazie all'appoggio dei patrizi, che si opponevano alla Lex Publilia Voleronis. Durante il conflitto tra Patrizi e Plebei per l'approvazione della legge, Tito Quinzio assunse una posizione meno intransigente di quella del collega, risultando poi determinante nello stemperare le tensioni tra i due ordini, impedendo che si arrivasse ad un conflitto aperto; il suo intervento risultò altrettanto determinante a salvare il collega dalla folla inferocita, durante uno dei comizi in cui si discuteva della legge. Approvata la legge, ad Appio Claudio spettò il comando della campagna contro i Volsci e a Quinzio quella contro gli Equi; queste due popolazioni, come accadeva ogni qualvolta Roma era percorsa da tensioni e disordini sociali, ne avevano approfittato per compiere razzie e ruberie nei territori romani. Diversamente dalla campagna contro i Volsci, con gli Equi si verifico' una disfatta per i romani a causa delle tensioni esistenti tra Plebei, che costituivano la fanteria, ed i Patrizi, cui appartenevano il console e gli ufficiali. Nonostante questo la campagna contro gli Equi, si risolse positivamente, anche grazie alle azioni conciliatorie poste in essere dal console.

Nel 468 a.C. venne eletto console per la seconda volta insieme a Quinto Servilio Prisco con i soli voti dei patrizi, visto che i plebei si rifiutarono di partecipare allo scrutinio. A Quinto venne affidata la campagna contro i Sabini che avevano duramente saccheggiato i territori di Crustumerium, arrivando fin sotto porta Collina, mentre al collega fu affidata la campagna contro i Volsci ed Equi, alleatisi contro Roma. Durante la campagna contro i Volsci, seppur partendo da una posizione di inferiorità numerica e di posizione, il console e il suo esercito riuscirono ad avere la meglio sul campo dei Volsci, che batterono in ritirata verso Anzio. Qui i romani posero l'assedio, riuscendo in pochi giorni a far capitolare la città, più che per l'azione militare, per la demoralizzazione che aveva colto i Volsci, dopo le sconfitte subite in campo aperto. Per questa impresa a Quinzio fu concesso il trionfo. Nel 465 a.C. venne eletto console per la terza volta, insieme a Quinto Fabio Vibulano, unico superstite della gens Fabia, al suo secondo consolato. Insieme al collega console portò due eserciti romani nel territorio degli Equi, colpevoli di non aver mantenuto la pace con i romani, danneggiandoli con frequenti razzie. La battaglia che si svolse sul Monte Algido fu favorevole ai romani, che posero l'assedio al campo nemico.

Nel 446 a.C. venne eletto console per la quarta volta, insieme a Agrippa Furio Medullino Fuso. Approfittando dei dissidi interni a Roma, tra Patrizi e Plebei, per l'ennesima volta Volsci ed Equi avevano razziato le campagne di Roma, arrivando impunemente fin sotto le mura della città. Approntato in breve tempo l'esercito, Agrippa Furio cedette il comando delle proprie legioni a Tito Quinzio per affrontare più efficacemente lo scontro, un atto non dovuto, che gli valse la stima e riconoscenza del collega. Lo scontro fu breve e cruento, e i romani vittoriosi, tornarono in città con un grande bottino. L'anno consolare fu però macchiato dalla decisione del popolo romano riunito, sobillato Publio Scapzio, di avocare a Roma la proprietà di territori contesi tra Ardea ed Ariccia, per i quali le popolazioni delle due città avevano chiesto il giudizio di Roma. Nel 444 a.C., a seguito del decreto con cui gli auguri avevano dichiarato nulla l'elezione dei primi tre tribuni consolari eletti per quell'anno, Tito Quinzio fu nominato Interrex dai patrizi. «L'interregno durò parecchi giorni, perché non si riusciva a decidere se si dovessero nominare i consoli o i tribuni militari» (Tito Livio, "Ab Urbe Condita", IV, 7). Alla fine i patrizi ebbero le meglio sui plebei, e Tito nominò Lucio Sempronio Atratino e Lucio Papirio Mugillano consoli per il resto dell'anno. Fu eletto al quinto consolato nel 443 a.C., insieme a Marco Geganio Macerino, al suo secondo consolato. In quell'anno fu istituita la magistratura del censore, soprattutto per alleviare i consoli dai compiti del censimento. Mentre a Marco Geganio fu affidato il compito di ristabilire l'ordine ad Ardea, alleata di Roma, dove i plebei ardeatini assediavano i patrizi, asserragliati sulla rocca cittadina, Tito rimase a Roma per amministrare la città, riuscendo a garantire i diritti dei patrizi e della plebe, senza che per quell'anno si registrassero scontri tra i due ordini. Fu eletto al sesto consolato nel 439 a.C., insieme a Agrippa Menenio Lanato. Lucio Minucio, eletto prefetto all'Annona anche per quell'anno, accusò Spurio Melio di complottare per restaurare la monarchia. Tito Quinzio, accusato dal Senato di non essersi adoperato abbastanza per scongiurare il complotto, propone di conferire a Cincinnato la dittatura, in modo che potesse agire con i pieni poteri della carica. Scongiurato il complotto con l'uccisione di Spurio Melio ad opera di Gaio Servilio Strutto Ahala, sostenuto nel suo operato dal dittatore, i senatori dovettero però cedere alle pressioni dei tribuni della plebe, che per l'anno successivo il governo di Roma fosse retto dai tribuni consolari. Il suo ultimo ruolo fu quello di legato sotto il dittatore Mamerco Emilio Mamercino, a cui era stata affidata la conduzione della campagna militare contro Fidene nel 437 a.C.

La genesi

L'anno appresso (Anno di Roma 286, secondo Catone , 288 secondo Varrone, e 466 a.C.) fatti appena consoli Tito Quinzio Capitolino, e Quinto Servilio Prisco, tutta la milizia romana fu in arme, e spontanea si presentò quella degli alleati, prima che richiesti ne fossero. Dopo ciò, fatte suppliche ai numi, ed espiato l'esercito, marciarono i consoli contro a' nemici. Li Sabini contro ai quali era andato Servilio, non che schierarsi in battaglia, non uscirono nemmeno all'aperto: ma tenendosi dentro del chiuso, lasciavano che si devastassero loro le terre, s'incendiasser le case, e gli schiavi se ne fuggissero. Dond'è che i Romani tornarono a grand'agio dalle lor terre, carichi di preda, e risplendenti di gloria. E così terminò la spedizion di Servilio. Quinzio, ed il seguito suo, movendosi con marcia più che militare contro gli Equi, ed i Volsci, venuti ambedue dalle regioni loro in un sito stesso a combattere per gli altri, ed accampatisi davanti di Anzio: diedesi a vedere improvviso. E formatosi non lungi dal campo loro in un luogo, basso per sé medesimo, che era quello appunto dove prima fu veduto e vide gli avversari, posevi le bagaglie per far mostra di non temere i nemici, quantunque superiori di numero.

La battaglia

Or com'ebbero ambedue tutto in punto per la battaglia, uscirono in campo, ed avventatisi pugnarono infino al mezzogiorno. Non cedevano, non superavano, questi o quelli, ristorando sempre la parte che vacillava , co' sussidj ordinati per questo. Allora quando come superiori di numero, cominciarono i Volsci e gli Equi a vantaggiare, e prevalerne; non avendo i Romani una moltitudine, pari all'ardore, Quinzio veduti estinti molti de' suoi, e ferito il più de' superstiti, era per intimare la ritirata: ma temendo poi di dar vista ai nemici di fuggire; concluse, ch'egli dovea cimentarsi. E scelto il nerbo de' cavalieri, vola in soccorso de' suoi nell'ala destra, dove principalmente pericolavano. Ed ora, sgridando di codardia li duci stessi, ora ricordando le passate battaglie, e dipingendo la infamia ed il pericolo loro se fuggivano; alfine disse una cosa finta sì, ma che rincorò li suoi più che tutto, e sbigotti l'inimico. Egli divulgò che l'altra ala sua incalzava già gli avversari, e già stava prossima agli alloggiamenti: e divulgandolo, spronò sui nemici; e sceso di cavallo co' bravi suoi cavalieri, prese a combattere di piè fermo. Tornò l' audacia allora nei suoi che omai si abbandonavano, e divenuti quasi altri da quelli che erano, fulminaronsi tutti sul nemico. Talché li Volsci contrapposti appunto in quella parte, dopo aver lungo tempo resistito, finalmente ripiegarono. Quinzio appena fugatili, rimonta a cavallo, e corre all'altra ala, e mostravi ai fanti suoi disfatta l'ala nemica, e raccomanda che non sieno per virtù minori de compagni. Dopo ciò niuno più de' nemici tenne fronte, ma fuggirono tutti alle trincee. Non gl'inseguirono lungo tempo i Romani, ma bentosto se ne rivolsero forzati dalla stanchezza, né più avendo ormai l'arme, pari al bisogno. Decorsi alquanti giorni, convenuti per seppellire gli estinti, e curare i mal conci, avendo già riparato quanto mancava loro per combattere, fecero nuovo conflitto intorno gli alloggiamenti romani. Imperocché venute nuove reclute ai Volsci e agli Equi dalle terre circonvicine, inanimito il capitano perché i suoi erano il quintuplo de' Romani , e perché vedeva le trincee di questi su luogo non abbastanza munito, credette il buon punto d'assalirvegli. Con tal disegno guidò su la mezza notte l'esercito intorno al vallo de' Romani, e cinseli, e tenneli in guardia, perché inosservati non s'involassero. Quinzio saputa la moltitudine de' nemici, ebbe caro di accoglierla. Ed aspettando che fosse giorno, e principalmente l'ora nella quale il Foro suol riempirsi, quando vide che i nemici venivano omai stanchi dalla vigilia e dalle scaramucce, non per centurie, né in schiera, ma confusi e sparsi; immantinente, spalancate le porte, precipita su loro col nerbo de' cavalieri, mentre i fanti lo seguitavano serrati e stretti. Sbalorditi i Volsci dall'audacia, dopo aver sostenuta breve tempo la furia dell'irruzione, rinculano, e lasciano gli alloggiamenti. E perché non lungi da questi aveasi un colle alquanto elevato; vi accorrono, come a riprendervi requie ed ordine. Non riuscì però loro di fermarsi e di riaversi, giungendo ben tosto i nemici, stretti quanto poteano colle coorti, per non esserne trabalzati, nel far scendere a forza la pendice. Fattasi azione vivissima per gran parte del giorno, ne perirono molti degli uni e degli altri. I Volsci, anche se superiori nel numero, e rassicurati dal posto occupato, non goderono alcuno de' due vantaggi: ma violentati dall'ardore e dalla virtù de' Romani, abbandonarono il colle. Fuggendo però verso le trincee, molti ne soccomberono. Imperocché non cessarono i Romani d'inseguirli, ma tennero immantinente dietro loro, senza desisterne, finché ne presero a forza il campo. Inpadronitisi dei prigionieri e di ogni cosa lasciatavi, cavalli, armi, danari, che eran pur molti, passarono ivi la notte.

Le conseguenze

Nel giorno appresso il console, apparecchiato ciò chè si bisognava per un'assedio, diresse l'esercito alla città degli Anziati, non lontana più di trenta stadj. Per avventura ivi stavan di guardi alquanti Equi ausiliari e custodivan le mura, e questi per terrore della baldanza romana macchinavan di fuggirsene. Saputo dagli Anziati, ed impediti partirne, congiurarono dar la città ai Romani che si appressavano. Gli Anziati avuto sentore pur di questo, cedettero al tempo: e convenutisi con loro, si diedero a Quinzio, in modo che gli Equi per patto si dimettessero, accettassero gli Anziati in città la guarnigione, e seguissero i comandi de' Romani. Divenuto pertanto il console arbitro della città, presi gli stipendi ed altri bisogni dell'esercito, e presidiata la città, se ne ritirò. Uscitogli per tal gesta incontra il Senato, lo accolse gratissimamente, e lo onorò del trionfo.