Battaglie In Sintesi
21 ottobre 1097 - 2 giugno 1098
Nacque dalle nozze di Roberto il Guiscardo con Alberada di Buonalbergo, poco dopo il 1050, ed ebbe al battesimo il nome di Marco. Fu soprannominato Boemondo dal padre, in ricordo, pare, di un certo leggendario gigante. Anna Comnena lo descrive appunto come di statura oltre il normale, robusto e tarchiato, capigliatura bionda, occhi glauchi, accuratamente raso in volto: gli attribuisce il soprannome di Sanisco, d'ignota origine. Il padre lo tenne con sé anche dopo avere, nel 1058, divorziato da Alberada. Nulla sappiamo della giovinezza, fino al 1081, quando il padre, decisa l'invasione dell'Impero bizantino, lo inviò ad Aulona (Vallona) per occupare la baia e crearvi una base di operazione. Collaborò poi all'occupazione della regione albanese e alla presa di Durazzo e sostituì Roberto il Guiscardo nel comando della spedizione, quando la lotta fra il papa e l'imperatore costrinse il duca a rientrare in Italia. Boemondo si avanzò nell'interno della Macedonia, occupò Castoria, Gianina e Ochrida, ma entrato in Tessaglia, fu sconfitto dall'imperatore Alessio I Comneno e costretto a venire a patti. Rientrò con l'esercito a Bari e tosto attese col duca Roberto a preparare una nuova spedizione. Sbarcato a Corfù, si ammalò e ritornò in Italia e non assistette quindi alla morte del padre nel luglio del 1085. Roberto il Guiscardo, dominato dalla seconda moglie, Sikelgaita, era venuto nella decisione di diseredare Boemondo a favore di Ruggero Borsa, natogli dalla nuova unione; ma Boemondo si rifiutò di inchinarsi al fratello minore e ne nacque perciò una lunga e oscura guerra, che finì solo quando Ruggero acconsentì a cedere a Boemondo la regione pugliese e Bari (1089). Scarse notizie abbiamo sull'attività di Boemondo negli anni seguenti: nel 1089 e poi ancora nel 1092 ospitò a Bari ed a Taranto Urbano II. Nell'agosto del 1096, mentre attendeva col fratello all'assedio di Amalfi, quasi improvvisamente prese la croce e partì per le Puglie per preparare la spedizione. Quali motivi abbiano spinto Boemondo a tale decisione, ignoriamo; Anna Comnena l'accusa di avere obbedito unicamente a cupidigie di conquista. Nell'ottobre del 1096 i Normanni crociati sbarcavano a Vallona per raggiungere, lungo la via Egnazia, Tessalonica e Costantinopoli. Accompagnavano Boemondo diecimila armati fra cavalieri e fanti, al comando di Tancredi nipote di Boemondo, di Oddone detto il buon Marchese, di Riccardo del Principato e vari altri congiunti del principe. Solo nell'aprile del 1097 i Normanni giunsero a Costantinopoli; Boemondo cercò di dissipare le diffidenze dell'antico nemico, Alessio I, acconsentendo a giurargli fedeltà, come gli altri principi crociati, ma brigò per ottenere la carica di Grande domestico d'Oriente e così rappresentare nella crociata l'imperatore.
Iniziata la marcia attraverso l'Anatolia, i Normanni presero parte a diversi combattimenti, anzi sostennero nella battaglia di Dorilea il primo urto dei Turchi e diedero tempo a Goffredo di Buglione e Raimondo di Tolosa di arrivare coi rinforzi. Boemondo partecipò attivamente all'assedio di Antiochia, e trovando in Raimondo di Tolosa un pericoloso concorrente al possesso della città da lui agognata, con la minaccia di ritornarsene in Italia costrinse i capi della crociata a promettergli la consegna di Antiochia. Antiochia cadde nelle mani dei cristiani il 3 giugno 1098 e subito dopo fu difesa dall'offensiva del sultano Kerboga con la grande battaglia del 28 giugno: Boemondo dirigeva le schiere cristiane. Provvisoriamente i principi crociati decisero che la città venisse occupata da Normanni e Provenzali, sperando di rinviare ulteriormente il conflitto fra Boemondo e Raimondo; ma nel febbraio del 1099 Boemondo, violando i patti, ritornò ad Antiochia, ne espulse i Provenzali e rimase solo ed assoluto padrone della città, assumendo il titolo di principe d'Antiochia. I capi della crociata tacitamente riconobbero il fatto compiuto e Raimondo, isolato, dovette far pace col più abile avversario. Per assicurare il possesso d'Antiochia, il principe iniziò una serie di operazioni militari verso la Cilicia onde respingere i Bizantini, e verso Aleppo, per respingere i Turchi. Con l'appoggio della flotta pisana dell'arcivescovo Daiberto occupò Laodicea sul mare e poi, nell'interno, Apamea e progettò un attacco ad Aleppo. Nell'agosto del 1100 Boemondo, accorso a Malatia in aiuto di quel principe armeno Gabriel contro l'emiro di Siwas, al-Malik al-Ghazi Muhammad ibn Danishmand (il Kumushtakin delle fonti latine), venne fatto prigioniero col cugino Riccardo del Principato e fu liberato dalla prigionia a Nixandria (Neocaesarea) solo nel 1103, col pagamento di 100.000 pezzi d'oro. Ritornò ad Antiochia e costrinse il nipote Tancredi a restituirgli il principato che aveva governato nei due anni di lontananza del principe. Dopo avere ripreso energicamente la lotta contro Greci e Turchi, si accorse dell'impossibilità di vivere, stretto fra i due nemici e decise di riprendere i progetti del padre contro Costantinopoli. Nel 1105 rientrò in Italia, visitò il papa Pasquale II, quindi si recò in Francia a sollecitare l'appoggio di quel re. Fu accolto in Francia con le maggiori dimostrazioni di riverenza, poiché le sue imprese erano diventate leggendarie. Si recò al concilio di Poitiers con il legato pontificio per svegliare l'entusiasmo popolare per la crociata. Quindi celebrò il suo matrimonio con la figlia del re di Francia, Costanza, già divorziata da Ugo di Troyes, ed ottenne pure dal re Filippo la mano dell'altra figlia Cecilia per il nipote Tancredi. Nell'estate del 1107 rientrò nelle Puglie e preparò la spedizione contro l'Impero bizantino. Sbarcò nell'ottobre a Vallona con 30.000 uomini e cercò d'impadronirsi di Durazzo, dopo aver bruciato le navi per rendere sicure le milizie. L'imperatore Alessio I era riuscito a preparare la difesa: nella primavera del 1108 bloccò Boemondo che, esaurite le vettovaglie, dovette chieder pace. Recatosi a Deabolis presso Alessio, acconsentì a dichiararsi suo vassallo e ottenne l'investitura di Antiochia a gravi condizioni. Ritornato dopo la grave umiliazione a Bari, vi morì il 7 marzo 1111, mentre si preparava a partire per la Siria. Fu sepolto a S. Sabino di Canosa.
Fu il governatore di Antiochia durante la Prima Crociata. Fu uno schiavo turco del Sultano selgiuchide di Rum Malik Shah I, che conquistò Antiochia nel 1085 nominandovi come suo governatore Yaghisiyan verso il 1090. Malik Shah morì nel 1092 e il suo successore Tutush I assegnò a Yaghisiyan un territorio ancora più esteso intorno a Manbij e Turbessel. Quando Tutush morì a sua volta nel 1095, i suoi nipoti, Ridwan e Duqaq, si disputarono con le armi il controllo della Siria, reclamando rispettivamente Aleppo e Damasco. Ma quando giunsero notizie concernenti la Prima Crociata, tutte le parti si ritirano nei propri domini per prepararsi a fronteggiare il prevedibile attacco. Preparandosi a un assedio, Yaghisiyan esiliò numerosi esponenti cristiani della Chiesa ortodossa greca e armena ortodossa, che egli considerava inaffidabili. Imprigionò il Patriarca ortodosso di Antiochia, Giovanni l'Ossita e trasformò la Cattedrale di S. Pietro in un edificio civile. I cristiani Siro-Ortodossi furono per lo più risparmiati perché Yaghisiyan li considerava più leali nei suoi confronti, in quanto ostili ai Greci e agli Armeni.
Nell'inverno del 1097-1098, Antiochia fu assediata dai Crociati e Yaghisiyan e suo figlio Shams al-Dawla chiesero aiuto a Duqaq. Ma la notte del 2 giugno 1098, grazie alla collaborazione di una guardia armena, i Crociati entrarono in città; Yaghisiyan fuggì con la sua guardia personale, mentre suo figlio rimase in dietro a difendere la cittadella. Durante la sua fuga, Yaghisiyan cadde da cavallo e le sue guardie pensarono che fosse impossibile condurre con loro il governatore ferito e lo abbandonarono sul terreno e fuggirono oltre senza di lui. Fu trovato da un Armeno che gli tagliò la testa e la spedì in dono a Boemondo. Antiochia fu rivendicata da Boemondo e Raimondo, con quest'ultimo insediatosi nell'abitazione di Yaghisiyan e Boemondo nella cittadella che era stata strappata a Shams al-Dawla dopo una settimana. La loro contesa rallentò la Crociata per vari mesi. I Crociati ricordarono il nome di Yaghisiyan in vari modi in Latino, tra cui Acxianus, Gratianus e Cassianus. La residenza reclamata da Raimondo divenne nota come palatium Cassiani.
Dopo la vittoria del ponte sull'Oronte, il fiume era superato, le sue rive da' Crociati occupate, e i velocissimi corsieri turchi portano a salvamento i fuggitivi verso Antiochia. Quattro ore di cammino distava l'esercito cristiano dalla magnifica città: "Procediamo con prudenza e buon ordine", raccomandava Ademaro, "ieri combattemmo fino a sera, siamo stanchi e i nostri cavalli sono dalla fatica spossati". La vista di Antiochia, tanto celebrata negli annali del cristianesimo, riaccese il religioso entusiasmo de'Crociati. Ivi i discepoli del Vangelo, primamente intitolaronsi Cristiani, ivi l'Apostolo Pietro fu eletto primo pastore della Chiesa nascente. Per più secoli dipoi ebbero costume i fedeli di venire in uno dei sobborghi della città a perorare sulla tomba di Santo Babila, che regnante Giuliano sconfisse e confuse gli oracoli d'Apollo. Per alcun tempo si disse Antiochia Teopoli ovvero città di Dìo, ed era delle città che i pellegrini con più venerazione visitavano. Nè minore era la sua celebrità negli annali dell'Imperio, che in quelli della Chiesa, avendosi per la magnificenza de'suoi edifici, e per la dimora di alquanti imperatori, meritato il titolo di Regina dell'Oriente. Situata in fertile regione, e in riva d'un fiume, con all'Oriente un lago abbondevole di pescagione e a meriggio il sobborgo, la fontana e i giardini di Dafne famosissimi a tempo il Paganesimo, allettava molto di sé i forestieri. Di contro ad Antiochia sorge il monte Pierio, da chiare fonti irrigato, ricco di bei pascoli, e di boschi coronato; il quale appellato dai nostri cronisti Montagna Nera, fu nei primitivi secoli del cristianesimo e nel medio evo, da eremiti e da monaci abitato, fra i quali ricorda l'istoria Santo Giovanni Crisostomo, meritamente laudato quale Cicerone della Cristiana Eloquenza. Le mura d'Antiochia accerchiavano da meriggio quattro vette de'monti, le quali dimostrandosi dentro dalla cerchia le soprastavano molto. Sopra la vetta che guarda a levante eravi la cittadella fiancheggiata da quattordici torri. Da meriggio poi la città era veramente inespugnabile; l'Oronte difendevala da settentrione, perlochè da questo lato non erano i ripari tanto fortificati quanto dagli altri. Le mura cerchiavano da tre leghe inflettendosi in forma ovale. Questa città (scrive Guglielmo Tirense) incuteva terrore in quelli che la vedevano, sì grande era la moltitudine e la fortezza delle sue torri che al numero giugnevano di trecento sessanta. I Saraceni impadronironsi d'Antiochia nel primo secolo dell'egira; ricuperaronla i Greci, imperante Niceforo Foca; quando vi giunsero i Crociati, possedevanla i Turchi da quattordici anni. Imminendo l'esercito cristiano, concorsero dentro la città a salvamento i più de' Mussulmani che le castella e le provincie vicine abitavano; ed eravi alla difesa con ventimila fanti e settemila cavalli, Baghisiano, altrimenti Acciano appellato, emiro turcomanno e principe di quella provincia.
Malagevolissimo dimostravasi il voler assediare Antiochia; tennesi nondimeno consulta sopra ciò in tra i principali dell'esercito. I più savi consideravano essere imprudente dar principio all'assedio soprastando l'inverno; non doversi temere le armi nemiche, ma bene le pioggie, i rigori della stagione, le malattie e il difetto de' viveri; meglio essere che l'esercito, preso i quartieri nelle provincie e nelle città circostanti, aspettasse i soccorsi promessi dall'imperatore Alessio, e la novella primavera, in che avrebbe le proprie perdite riparate e ricevuti sotto le sue insegne ì rinforzi che l'Occidente spediva. Ma vinse l'opinione, favorita dall'ardor guerriero del legato Ademaro, del duca di Lorena e di tutti coloro i quali piuttosto dal religioso loro entusiasmo, che dalla pratica prudenza umana i giudizi desumevano; i prudenti, paventando l'accusa di viltà, quietaronsi; sicché fu deliberato si desse cominciamento all'assedio d'Antiochia. Appressossi l'esercito alle mura della città, e secondo che Alberto Aquense descrive, vedevasi a quelle d'intorno quasi nuovo ricinto di scudi dorati o a verde, a rosso e a vari altri colori dipinti, e di corazze per le squamme del ferro e dell'acciaro scintillanti. Ventilavano all'aura le bandiere risplendenti d'oro e di porpora; il clangore delle trombe, il batter de'tamburi, il nitrir de'cavalli e le grida de'soldati udivansi rimbombar da lunge. Seicentomila pellegrini crocesignati ingombravano le rive dell'Oronte e di quelli la metà combatteva. Già sin dal suo primo giungere l'esercito cristiano aveva posto il campo e rizzate le tende. Boemondo e Tancredi s'erano aqquartierati con gli Italiani a levante di contro alla porta di San Paolo, sopra alcuni ignudi monticelli; alla loro destra nel piano che precinge la manca sponda dell'Oronte fino alla porta del Cane, s'erano accampati i due Roberti, Stefano e Ugo co' Normandi, Fiamminghi e Brettoni; succedevano il conte di Tolosa e il Vescovo di Puy, co Provenzali; Raimondo co' suoi teneva lo spazio in tra la porta del Cane e l'altra che dipoi dal Duca tolse il nome; e fra questa e la porta del Ponte stava Goffredo. Era pertanto la città da tre parti combattuta, cioè da levante, da settentrione levante e da tramontana. Da meriggio non s'era disposto attacco alcuno, per essere quella parte a cagione de' monti, dei dirupi e dei precipizii, inaccessibile. Ma se non fosse stata soverchio esposta agli assalti degli assediati, una batteria collocata dalla parte di ponente ove le mura e le torri erano meno fortificate ed alte, ed ove il terreno era a tal bisogno adatto, avrebbe molto giovato agli assediatori. Stavansi chiusi i turchi dentro le mura; niuno si mostrava alla difesa, niun romore s'udiva nella città, interpretando ciò i Crociati quale indice di timore e d'invilimento. Per il che figurandosi la vittoria agevole e certa, senz'altrimenti provvedere a quanto facea mestieri, sbandaronsi dissolutamente per le vicine campagne. Fosse arte, o furia de' contadini a porsi in salvo, gli arbori erano tuttavia delle loro frutta onusti, e le viti delle uve; in fossa cavate nel mezzo de'campi, stavansi riposte le messi, e grande moltitudine d'armenti vagava abbandonata per le grasse pasture. Tanta dovizia di viveri, il riso del siriaco cielo, la fonte, e i molli boschetti di Dafne, la giocondità delle sponde orontee illustri, a tempo la pagana antichità, per il culto di Venere e d'Adone, espugnarono le religiose virtù de' pellegrini, che dimenticato il fine e l'importanza della loro impresa, ruppero a lascivia e a disfrenata licenza.
Quella cieca sicurezza, quello spensierato oziare, ricondussero la speranza e il coraggio negli animi degli assediati, i quali cominciarono a mostrarsi fuori per la campagna, sorprendendo i Crociati, che trascuratamente guardavano il campo o che erano per i dintorni disseminati. La maggior parte di quelli che cupidigia di preda o di voluttà avea tratti per gli giardini e i villaggi vicini all'Oronte, incontrarono morte o servaggio. Meritevole di nota è il caso del giovine Alberone arcidiacono di Metz e figliuolo di Corrado, conte di Luneborgo, al quale costarono la vita i passatempi, pochissimo alla austerità di sua professione dicevoli. Mentre egli si stava coricato sulla fitta erba giuocando ai dadi con sira cortigiana, maravigliosa per bellezza e per nascita illustre; i Turchi sortiti dalla città, inoltrandosi pian piano e senza esser veduti in tra gli alberi, gli furono sopra con i brandi ignudi. Alquanti pellegrini che erano in compagnia dell'arcidiacono, impauriti (come s'esprime Alberto Aquense) dimenticaronsi i dadi e fuggironsi. Gli assalitori preso il malcauto Alberone, mozzarongli la testa, e se la portarono alla città con la sira cortigiana. Data prima colei a sollazzo de'soldati, poi che ebbe fatte paghe lor bramose voglie, a furore di strazi e di percosse, la uccisero, e tagliatale pure a lei la testa, con quella dell'arcidiacono nel cristiano campo la balestrarono. L'atroce spettacolo commosse fortemente i Crociati, che pentironsi dei loro disordini e giurarono vendicare la morte de'compagni sorpresi e ammazzati dai Turchi.
Universale era il desiderio che si desse l'assalto, ma l'esercito non avea scale né macchine da tal bisogna. Cominciarono nondimeno dal costruire un ponte di battelli sull'Oronte a fine d'impedire le scorrerie de' Mussulmani sull'opposta sponda; gran conati si fecero per togliere ogni adito a sortite; e perché i Turchi solevano le più volte escire per un ponte di pietra che soprastava a una palude di contro alla porta del Cane, i Crociati fecero ogni prova, ma invano, di romperlo. Non ebbero per ultimo altro spediente gli assediatori a frenare le sortite del nimico, che strascinare a forza di braccia, ed ammontare davanti a quella porta, enormi macigni e i più grossi fusti d'arbori delle vicine foreste. Nel tempo che facevansi cotali opere intorno Antiochia per impedirne ogni egresso, i più bravi cavalieri le tenevano per ogni parte vigilante custodia. In tra gli altri, narransi di Tancredi cose mirabili; cioè, che egli tendendo un giorno agguato verso i monti occidentali, colse alla sprovvista un drappello di turchi escito a scorrazzare: ammazzò chi giunse, gli altri fugò e inviò al Legato quali decima della strage e della vittoria settanta teste d'infedeli. Altra fiata scorrendo esso Tancredi la campagna seguitato da uno solo scudiere, s'abbatté in alquanti Mussulmani; non impaurito dal numero de' nimici affrontavali francamente, uccidendone molti e gli altri costringendo a ritirarsi. Ma quello che sembrerà più forte a credere e Certo più maraviglioso d'ogni altra prodezza e più inusitato nei fasti della cristiana cavalleria, fu che Tancredi dopo dimostrati quei prodigi di valore, chiamato il suo scudiere, feceli giurare davanti a Dio, che non gli racconterebbe mai ad alcuno. Non pertanto ricordandosi il Lettore del surriferito dono di teste mandato al Legato, male saprà questo, con quel procedere accordare.
Frattanto gli assediati cominciarono a sortire più radamente; ma gli assediatori non avendo macchine guerresche non potevano molestare la città e far progresso alcuno nell'assedio. Fu preso adunque lo spedìente di circondarla il meglio possibile e aspettare che o per lassitudine e invilimento de' Turchi o per favore celeste, si aprissero a loro le porte. Nondimeno al carattere impaziente e bellicoso de'cavalieri e de' baroni, usi superare i nimici loro col brando, ed esser soltanto formidabili nelle zuffe, poco si affaceva la diuturnità d'una ossidione e tal modo di guerra cui facea più all'uopo astutezza e costanza che avventato coraggio. L'esercito cristiano nella presontuosa fidanza del suo valore e del divino ajuto aveva in pochi mesi dato fondo e sciupate le provvigioni con che dovevasi fino alla nuova raccolta sostentare: così quelli che volevano vincere il nimico con la fame, per l'imprevidenza loro, trovaronsi alla fame esposti. Cominciando la stagione invernale, cadevano tutti i giorni diluvìi di pioggie; le pianure le cui delizie avevano ammolliti i soldati di Cristo, sotto le acque giacevansi sepolte; il campo fu più fiate sommerso nelle parti basse, la bufera e l'irrompere delle onde, seco i padiglioni e le tende rapivano; allentavansi gli archi per l'umidità, e le lance e le spade irrugginivano. Pressoché ignudi rimasersi i soldati; i più poveri pellegrini con arbori per essi tagliati, formavansi capanne e ripari, che non essendo saldi contro l'impeto del vento e della pioggia, lasciavano esposta alla inclemenza della stagione la misera plebe. Di giorno in giorno peggioravano le condizioni de'Crociati; e i pellegrini partitisi in drappelli di due o trecento l'uno, correvano le pianure e le montagne, seco portandone tutto ciò trovavano che potesse dal freddo e dalla fame preservarti. L'evangelica fratellanza non parlava più ai loro cuori, ognuno ritenea per sé tutto che si procacciava, e il misero soldato astretto per gli ordini della milizia a non dipartirsi dagli accampamenti, venia meno per digiuno. Premendo forte l'universale desolazione, assembrossi il consiglio de' capi, i quali per fornirsi vittovaglie deliberarono si avventurasse una spedizione nelle finitime provincie. Sopravvenne la notte di Natale, l'esercito assistette alla Messa, la quale finita, si scelsero da circa ventimila de'più prodi guerrieri; le voci della speranza degli addio e de'felici auguri sonarono per le notturne tenebre in tra il fischiare de'venti e il muggire della tempesta. Quei prodi, guidati dal principe di Taranto e dal conte di Fiandra, escirono del vallo e verso il territorio d'Aranca presero il cammino. Più corpi di turchi furono per essi disfatti, e prosperati nella loro intrapresa, ritornaronsi al campo seco recando gran numero di cavalli e di muli carichi di provvigioni.
Frattanto, le stragi del freddo, della fame e della pestilenza moltiplicandosi di continuo nel campo cristiano, mentre crebbero la disperazione de'Crociati, che, rotto il freno alla impazienza, siccome uno storico che fu di quelle sciagure a parte, afferma, proruppero a dure lamentazioni e a bestemmie. Boemondo, dotato di popolare eloquenza, fe' prova di ricondurli alla pazienza ed alla evangelica rassegnazione. Sembianza di cimitero avea ormai presa il campo; radi soldati apparivano sotto le armi; infiniti crocesignati privi di vesti, privi di rifugio gìacevansi sulla ignuda terra, a tutte le ire dell'invernai cielo esposti, contristando l'aura intorno con gemiti e cupi lamenti. Alcuni altri, squallidi, macilenti, appena da luridi cenci mal coperti, siccome spettri sfuggiti dalla cerchia di morte, per la campagna lentamente vagavano, co'ferri delle lancie strappando alle viscere della terra le radici, le sementi ivi deposte a futura abbondanza, e contendendo agli stessi bruti l'alimento delle erbe selvaggie. Senza sale mangiavanle, nè dalle acute spine de' cardi che per difetto di legna non potevano cuocere sì che le ammollissero, si astenevano le bocche bramose. Carogne di cani, rettili, immondissimi animali erano divenuti non disgustevol pasto a quegli stessi, che poco fa il pane di Siria aveano a schifo e che ne'loro conviti, disdegnavano fieramente fossero imbandite le parti meno dilicate de'bovi e degli agnelli. Per lo affetto che pone l'uomo agli animali partecipi di sue fatiche, era incomportabile ai baroni ed ai cavalieri, vedersi venire meno per digiuno i loro cavalli da battaglia; de'quali, essendo al cominciar dell'assedio in numero di settantamila, non più restavano vivi sennonchè duemila e quelli anco per modo consunti che di qualsivoglia servigio, non solo allora incapaci conoscevansi, ma poco luogo lasciavano alla speranza, che, meglio nudriti, potessero per l'avvenire la pristina vigoria ricuperare.
Oppressi da si gran caterva di mali i Crociati, perduta la speranza di espugnare Antiochia e di veder Terra Santa, cominciarono le diserzioni. Chi fuggiva la fame andandone in Mesopotamia, occupata da Baldovino; chi riparavasi nelle città di Cilicia venute in potere de'Cristiani. Il duca normando ritirossi a Laodicea, né volle ritornare al campo sennonché per forza di tre formali richiami fattili in nome della religione e di Cristo. Taticio, capitano d'Alessio, mosse co'Greci verso Costantinopoli, dando voce che andava a procurare rinforzi e viveri; poco invero premendo a'Crociati della di lui partita, e per la nota fede greca, niun conto facendo delle sue promesse. Ma il disperare fu estremo quando i pellegrini videro dipartirsi quelli, cui dare esempio di pazienza e di coraggio era debito. Guglielmo visconte di Meluno, che per le stupende opere della sua scure da guerra, erasi meritato il soprannome di Carpentiere, non potendo più sopportare i disagi di quell'assedio, disertò i vessilli di Cristo. Strano, inaudito spettacolo! Vedevansi congiunte sotto le tende de'Crociati, impudentissima lascivia e rabbiosa fame gli osceni trastulli dell'impuro amore, la disfrenatezza del giuoco, tutte le lubriche scene del libertinaggio dimostravansi a quelle di morte con inenarrabile mistione congiunte.
Levossi il Legato e con i pochi ecclesiastici dalla cristiana pietà non deliranti, adoperossi che quella nuova pestilenza non procedesse più oltre: incredibilmente secondarono la pia intenzione del Legato e degli ecclesiastici un terremoto che scosse allora tutto il paese, e un'aurora boreale, fenomeno ignoto alla maggior parte de'pellegrini, le grosse menti de' quali credettero facilmente que'segni manifeste dimostrazioni della collera divina: ed a placarla furono comandati digiuni, pubbliche preci, e fecersi processioni intorno al vallo cantando inni di pentimento. Non tralasciavano frattanto i preti d'imprecare le folgori celesti sul capo di quelli, che con i loro misfatti la causa di Gesù Cristo tradivano, e per dare compimento alla riforma, fu instituito un tribunale (similissimo a quello della Santa Inquisizione) composto de' principali dell'esercito e del clero, con commessione d'inquisire e punire a suo arbitrio i delinquenti. Non fia senza diletto del Lettore, ricordare alcuna delle criminali sentenze di esso Tribunale. Chi all'intemperanza del vino soccombeva, avea mozze le chiome; ai bestemmiatori e ai perduti nel giuoco, davasi il marchio del ferro rovente. Un monaco cólto in adulterio e convinto con la prova del fuoco, fu ignudo condotto intorno agli accampamenti e con verghe battuto. Ma la inquisizione trovò tanti rei, e le condennazioni tanto multiplicaronsi, che gli giudici stessi, stettero dell'officio loro sgomenti e paurosi.
In tali circostanze, poco vigilandosi dalle guardie, s'erano insinuate nel campo moltissime spie sire, che giornalmente tenevano informati i Turchi d'Antiochia delle condizioni e dei disegni dell'esercito cristiano. Boemondo volendo liberare i suoi da questa peste, immaginò uno spediente al tutto nuovo e di atroce piacevolezza, se pur piacevolezza può dirsi lo straziare con ischerno umani corpi. Io racconterò la cosa con le proprie parole di Guglielmo da Tiro: "lo illustre barone Boemondo, avendo comandato che gli fussino condotti alquanti Turchi, che ei teneva prigionieri, feceli per gli officiali dell'alta giustizia ispedire dalla vita; e poi acceso uno grande fuoco, e poste le corpora di quelli uccisi negli spiedi feceli arrostire; come carni che dovessero alla cena di lui e dei suoi esser poste; dando fuori voce, nel medesimo tempo, che se alcuno della novità chiedesse il significato, gli fosse risposto: li principi e governatori del campo, oggi in concilio hanno sancita legge, che tutti li Turchi o loro spie, che d'ora innanzi troverannosi nel campo cristiano, sieno a quello modo sentenziati, che faccino vivande degli corpi loro, ai principi ed allo esercito". Gli ordini di Boemondo furono fedelmente per gli suoi servi eseguiti. Sparsasi la fama di que' nuovi arrosti, i forestieri che trovavansi nel campo corsero a vedere negli alloggiamenti del principe di Taranto; e ( seguita a dire Guglielmo ) quando conobbero degli occhi loro la spietata beccheria che facevasi, ne furono maravigliosamente impauriti, e temendo d'incappare nella istessa sorte, avacciaronsi di escire del campo cristiano; e dapertutto divulgarono la fama di quei formidabili spiedi. I loro terribili racconti, di bocca in bocca, pervennero fino alle più longinque contrade; gli abitatori di Antiochia e i Mussulmani delle città di Siria se ne spaventarono, né v'era più alcuno che ardisse avvicinarsi agli alloggiamenti de' Crociati; e (prosegue a dire l'allegato istorico) per tal modo intervenne che lo avventuroso strattagemma del Signore Boemondo, purgò il campo dalle perfide spie e i disegni de' Cristiani non furono più ai nemici comunicati. Per lo contrario il cronista Baudri contentasi notare, che Boemondo usasse di severi spedienti a tórre del campo la peste degli spioni, ma non entra nel particolare ricordato da Guglielmo Tirense. Lo storico però prescindendo dalla morale legittimità di esso rimedio, ammessa la sua validità ad isgomentare e cacciare le spie, non potrà insieme contraddire, che con quella non tenesse anco lontani dal campo i mercatanti de'viveri, che per la sola cupidità del guadagno v'erano tratti. Mentre Boemondo attendeva a mantenere l'attività de'suoi spiedi, il Legato, con più umano consiglio, operava che si arassero e seminassero le pianure circostanti ad Antiochia; affinché l'esercito avesse alcuna speranza di conforto contro la fame; e gli assediati si rendessero capaci, che, per lunghezza di avversità, la perseveranza degli assediatori non si stancherebbe.
Già si mitigavano i rigori di quel rigido inverno; il numero de'malati decresceva, e l'aspetto del campo facevasi meno lagrimevole. Goffredo risanato da mala ferita per la quale erasi fino allora stato chiuso nella sua tenda, mostrossi all'esercito che molto ne fu lieto e cominciò a bene sperare di sua fortuna. Il conte di Edessa e i principi e i monasterii dell'Armenia mandarono soccorsi di danaro e di vettovaglie; e ne giunsero similmente dalle isole di Cipro, di Chio e di Rodi, donde cessò la carestia nell'esercito. Vennero frattanto al campo gli ambasciadori del califfo di Egitto, per la cui presenza i soldati cristiani posero ogni cura a nasconder le vestigia delle patite miserie; ornandosi delle vesti più preziose che avevano e facendo mostra delle armi più splendide. Ricevettersi gli ambasciadori dentro magnifica tenda ove stavano assembrati i principali capi dell'esercito. Venuti quelli allo esporre della missione, non celando l'avversione grandissima del loro Signore circa al collegarsi con Cristiani; per le vittorie però conseguito dai Crociati su i Turchi eterni nimici della discendenza di Ali, affermavano essersi quello persuaso, che Dio medesimo aveali spinti in Asia quali strumenti della sua vendetta e giustizia. Seguitavano dipoi a dire come il califfo egiziano fosse disposto a collegarsi con loro e avesse intendimento di entrare con le sue genti nella Palestina e nella Siria; e perché aveva inteso riferirsi tutti i desiderii de'Crociati a veder Gerusalemme, prometter egli di restaurare le chiese de' Cristiani, proteggere il culto, e aprir le porte della santa città a tutti i pellegrini, con condizione che vi venissero disarmati e non vi si trattenessero più che un solo mese. Conchiudevano gli ambasciadori, che se i Crociati accettavano le proposte del califfo egli si farebbe il loro più fermo sostegno; ma se ricusavano il benificio della sua amicizia, i popoli dell'Egitto, della Etiopia, dell'Asia e dell'Africa dallo stretto di Gades fino alle porte di Bagdad, sarebbersi levati al comandamento del vicario legittimo del Profeta e arebbero fatta provare ai guerrieri dell'occidente la prepotenza delle di lui armi. Forte commossione e un mormorare di sdegno, mosse nell'assemblea de'Cristiani questo discorso, per far la risposta al quale, levatosi uno dei capi, il cui nome non ci fu dalla storia conservato, disse: la religione per noi seguitata ne ha inspirato il proposito di ristabilire il suo imperio nei luoghi medesimi dove ha avuta la sua origine; a compire il quale non ci fanno mestieri i terreni soccorsi; né siamo venuti in Asia a ricevervi le leggi o i benefica dei Mussulmani. Sono inoltre ancora fitti nella nostra memoria gli oltraggi fatti ai pellegrini d'occidente dagli Egiziani; e ricordiamoci tuttavia come sotto il regno del califfi Achimo, fossero i Cristiani crudelmente consegnati ai carnefici, e come le loro chiese e quella specialmente del Santo Sepolcro, fossero minate. Sì certamente la nostra intesa è di visitare non solo Gerusalemme, ma liberarla ancora dal giogo degli infedeli. Dio che l'ha con la sua passione onorata, vuol ora esservi dal suo popolo servito, e vogliono i Cristiani esserne soli guardiani e signori. Dite pertanto a chi vi manda, di scegliere a sua posta o pace o guerra; ditegli che i Cristiani accampati dinanzi ad Antiochia, non temono né gli Egizi, né gli Etiopi, né di quei di Bagdad; e che solo collegansi con quei che rispettano le leggi della giustizia e i vessilli di Gesù Cristo. Questa risposta fu comunemente dall'assemblea approvata, nondimeno non fu del tutto rigettata l'alleanza con gli Egizi, nè licenziaronsi gli ambasciadori senza mandar con loro al Cairo alcuni deputati che portassero al califfo le ultime proposte dei Crociati.
Pochi giorni dopo la partenza degli ambasciatori, conseguirono i Cristiani una vittoria sopra i Turchi. I principi di Aleppo e di Damasco e gli emiri di Schaizar, d'Edessa e d'Ierapoli, avendo raccolto un esercito di ventimila cavalli per soccorrere Antiochia, s'erano posti in cammino ed erano vicini alla città. Si spedì loro incontro dal campo un corpo di genti elette condotte da Boemondo e da Roberto conte di Fiandra. Fu combattuto vicino al lago di Antiochia con la peggio de' Turchi i quali perderono mille cavalli e duemila uomini. Ripararonsi i fuggitivi nella fortezza di Arenca, la quale assaltata dai vincitori, fu presa. Stimarono a proposito i Crociati di participare questa nuova vittoria agli ambasciadori del Cairo, che erano già al porto di San Simeone ove dovevano imbarcarsi. Spedirono pertanto colà quattro camelli con le teste e le spoglie di dugento mussulmani morti sul campo. Dugento altre di quelle teste furono scagliate dentro la città di Antiochia, il cui presidio aspettava ancora il detto soccorso; ne esposero molte altre intorno alle mura fitte ne'pali; facendo sì pomposa mostra de' loro sanguinosi trofei, affinché l'atroce spettacolo ( dice Guglielmo Tirense ) fosse come una spina nell'occhio de' loro nimici. Altra e più vera cagione però era il piacere di vendicarsi degli insulti che gli infedeli sulle mura avevano fatti a una immagine della Vergine Maria, caduta nelle loro mani in un combattimento.
Ma altra battaglia più esiziale e di più incerto esito, soprastava al cristiano esercito. Una armata di Genovesi e di Pisani era entrata nel porto di San Simeone, del che rallegraronsi inestimabilmente i Crociati, e un gran numero di soldati, esciti dal campo, corsero al porto, per sapere notizie dall'Europa e per comperare le provvigioni di che abbisognavano. Ritornando carichi di viveri e quasi tutti senz'armi, furono improvvisamente assaliti e dispersi da un corpo di quattromila mussulmani che gli aspettavano sulla strada. Boemondo e Raimondo di san Gille che erano con i pellegrini, non potettero opporre difesa al nimico troppo superiore e furono anzi necessitati procacciare il loro scampo con la fuga. Giunse al campo la novella di tale sinistro. Immantinente Goffredo fa prender le armi agli altri capi e ai soldati e seguitato dal fratello Eustachio, dai due Roberti e dal conte del Vermaudese, passa l'Oronte e va in traccia del nimico che stavasi occupato a perseguitare i fuggitivi e a decapitare i prigionieri. Trovatili, ed esortati gli altri capi a imitare il suo esempio, impugnata la spada si precipita sul nimico, il quale usato di combattere da lunge con l'arco e con gli strali, non sa resistere alla spada e alla lancia degli assalitori; dassi pertanto alla fuga, correndo molti verso le montagne, molti nella città. Acciano, che dalle torri del suo palagio aveva veduto l'assalto vittorioso de' Crociati, spedì un corpo scelto per sostenere i fuggitivi e dar loro agio a riordinarsi: egli medesimo accompagna i suoi soldati fino alla porta del Ponte che fa rinchiudere, dicendo loro che non sarebbe più riaperta se non per riceverli vittoriosi. Nondimeno questo rinforzo non fece miglior prova di quelli che andava a soccorrere, contro i Crociati; unica speranza che restava ai Turchi era di potersi salvare nella città; ma Goffredo previsto il loro disegno, per impedirlo, aveva co' suoi occupato già un colle intra i fuggitivi e la porta di Antiochia. Ivi ricominciò la zuffa, combattendo strenuamente i Cristiani, per la confidenza che loro veniva dalla già conseguita vittoria; e ferocemente i Mussulmani, concitati dalla disperazione e dalle grida de'cittadini accorsi sulle mura. Spaventevole era quello spettacolo; l'urto delle armi e le urla de'combattenti, soffocavano le voci de'capi; non con le saette e le lancie, ma strettamente corpo a corpo con le daghe e le spade s'assalivano, e nembi di polvere sollevavansi sul campo della pugna; sicchè in tanta confusione ed incertezza più a caso che per elezione ferivasi; e i Turchi affollandosi gli uni sopra gli altri verso la città, invece di facilitarsi, difficoltavansi la fuga: né più vantaggio vi avevano i Cristiani, che per non potersi fra loro discernere, come nimici gli uni con gli altri, i compagni, gli amici e i fratelli trucidavansi. Molti Turchi, senza difendersi furono uccisi, duemila di loro fuggendo, caddero nell'Oronte e vi s'affogarono. I vecchi di Antiochia ( dice Guglielmo Tirense ) guardando dalle mura la sanguinosa scena, compiangevansi dello aver troppo vissuto; e le madri veggendo lo strazio dei figliuoli, maledicevano la loro fecondità. Continuossi la strage per tutto quel giorno; a sera Acciano fece aprire le porte della città e ricevette i pochi fuggitivi scampati dal ferro de'Cristiani.
Boemondo, Raimondo, Tancredi, Ademaro, Baldovino dal Borgo, Eustachio, in ogni luogo, in ogni pericolo eransi sempre mostrati nella prima fronte de'combattenti; e maravigliosi racconti facevansi delle prodezze del Vermandese e dei due Roberti. Il duca di Normandia fecesi incontro a un capo mussulmano, che era nel mezzo de'suoi penetrato e facevane strage; gli fendette il cranio e tutta la testa fino alle spalle e quando sel vide disteso a' piedi gridò: Io consacro la tua anima impura all'Inferno. Goffredo che in questo fatto d'arme avea mostrata gran perizia di capitano, non operò, come guerriero, minori prodezze degli altri, le quali dalla istoria e dalla poesia furono largamente celebrate; non resisteva ai fendenti del suo brando armatura veruna, gli elmetti e le corazze da quello percossi, qua e là spezzati schizzavano. Un turco di gigantesca corporatura, essendoli corso addosso nel folto della mischia, scaricolli un tal fendente sulla testa che se Goffredo non era presto a pararlo con lo scudo non arebbe mai più avuto uopo di elmetto; lo scudo come infranto cristallo, ne andò in pezzi; Goffredo stizzito dal terribil colpo, dirizzasi sulle staffe, stringesi all'arcione e avventandosi all'avversario gli fa risposta di tal fendente che taglia il di lui corpo in due parti, una delle quali, cioè dalla testa alla cintola (dicono gli scrittori contemporanei) cascò al suolo; e l'altra, rimasa in sella, fu, a quel modo, dallo spaventato cavallo portata nella città, ove un sì curioso spettacolo, spaventò non poco gli assediati.
Ad onta però di sì prodigiosi gesti, non fu piccola la perdita de'Cristiani; sicché l'istoria contemporanea, dopo celebrato l'eroico valore loro è forzata stupirsi per la moltitudine de' martiri che i Turchi spedirono alla eterna beatitudine, alla quale giungendo, con la corona in capo e la palma in mano, rivolsero a Dio queste parole: Perchè o Signore non avete difeso il nostro sangue che oggi abbiamo sparso per voi? Con le sconfitte, cresceva la disperazione degli assediati, e la confidenza della vittoria nei soldati di Cristo. I capi davano il buon esempio della vigilanza e della attività, mantenendo nell'esercito la concordia, restituendo la disciplina e vigilando al buon ordine in ogni cosa. Gli stessi mendici e i vagabondi, la moltitudine de'quali occasionava i disordini e i pericoli della guerra, furono utilmente impiegati nei lavori dell'assedio e sottoposti a un capitano, cui fu dato il titolo di re paltoniere ovvero, re degli accattoni. Si assegnò loro un soldo sopra la cassa generale de' Crociati e quando avevano riscosso tanto che bastasse alla compera degli vestiti e delle armi, il loro re non riconoscevali più per sudditi e facevali inscrivere in qualche corpo della milizia; con che furono tolti molti vagabondi a un ozio pernicioso e fattone invece utili ausiliari. E perché avevano fama che violassero i sepolcri e si cibassero di carne umana, inspiravano grandissimo orrore agli infedeli che al solo vederli, avendo ribrezzo di cadere nelle loro mani, ponevansi in dirotta fuga. Resersi così i Cristiani padroni di tutti i dintorni di Antiochia e potevano senza pericolo dilungarsi dal campo per le vicine campagne, ed essendo preclusa ogni uscita dalla città, ebbero sosta le armi, guerreggiandosi soltanto con ingiurie e atti di crudeltà da una parte e dall'altra.
Gli assediati profittarono di una breve tregua concessa dai cristiani per procurarsi i soccorsi e i viveri necessari, perloché, ricominciate le ostilità, le prodezze che i Cristiani facevano intorno alle mura, resultavano inutili, e la città, nonostante sette mesi di assedio già sostenuti, poteva ancora a lungo mantenersi, se l'ambizione e la frode, non avessero conseguito in favore dei Crociati, quello che la pazienza e il valore non avevano potuto conseguire. Boemondo il quale più per accrescere suo stato che per altra cagione erasi crociato, studiava di continuo il modo di pervenire a'suoi fini; e stimolato da invidia per la recente grandezza di Baldovino, sì che non aveva sonni tranquilli, cominciò a concupire il dominio d'Antiochia, nel quale suo desiderio secondaronlo mirabilmente le circostanze profferendoli un uomo in cui potere era introdurlo nella città. Chiamavasi costui Firoo, ed era figliuolo di un Armeno fabbro di Corazze, checché ne dicano in contrario molti scrittori che il vorrebbero di nobile prosapia. Era il di lui carattere irrequieto, intraprendente , e sempre vago del cangiar condizione. La sua incostanza feceli dapprima abiurare la religione cristiana, immaginandosi di migliorare così il suo stato; aveva freddezza d'animo maravigliosa, non minore audacia, e per isperauza di guadagno, non era impresa tanto difficile e pericolosa cui non si accingesse, estimando giusto e facile tutto ciò che potesse la sua ambizione e l'avarizia satisfare. La sua attività, la desterità e la pieghevolezza avevanli guadagnata la confidenza d'Acciano, che soleva ammetterlo nel suo consiglio e avevali commesso il governo di tre delle principali torri della città: le quali, siccome accorto che egli era , da principio difese con zelo e con coraggio, senza ragguardare a profitto; ma in breve stanco della sterile fedeltà, non repugnò divenir traditore presentandoseli maggior guadagno.
Combattendosi intorno alla città, aveva egli avuta più fiate occasione di vedere il principe di Taranto, e avuto colloquio con quello, (così narra il monaco Roberto) chiedevali artificiosamente di quali soldati si componesse certa schiera da lui veduta con sopravvesti e scudi bianchi come la neve, e che combatteva negli ordini cristiani valorosa oltre ogni credenza. Boemondo non meno artificioso, imprendeva a esplicare il misterioso soccorso della celeste milizia, ma trovando difficoltà nel rispondere alle capziose quistioni di Firoo, fece chiamare il suo cappellano, cherico di molta dottrina. Nacque presto l'intelligenza fra il Tarentino e l'Armeno; giuraronsi ambidue amicizia, e stabilirono i modi di loro corrispondenza; ritrovandosi insieme, dopo di ciò, più volte ma sempre celatamente; dicendo sempre Boemondo a Firoo, che i destini de'Cristiani erano in suo arbitrio e ch'egli poteva ricompensare senza soggezione di misura, e rispondendo Firoo, non desiderarsi egli meglio che giovare ai Crociati, quali non nimici, ma fratelli reputava. E per assicurare il tarentino della sua fede, o iscusare la sua tradigione, asseriva esserli apparito Cristo medesimo in visione e averli comandato di dar Antiochia ai Cristiani. Ma a Boemondo non facea mestieri di miracoli, stimolato abbastanza dalle sue brame; onde accordati con Firoo i mezzi di effettuare il loro progetto, lungamente escogitato, chiamò a consiglio i capi dell'esercito cristiano. La moltitudine de'capitani e de'soldati, pieni le menti di generose prodezze, e stimando indegna di loro qualunque conquista che non procurasse il valore, rigettarono la proposta del tarentino. Boemondo, meritamente soprannominato dagli storici, Ulisse de'Latini, contenne a mala pena e dissimulò il suo dispetto, partendosi dal consiglio sorridente e persuaso che fra non molto la necessità arebbe tratti gli altri Crociati nel suo avviso. Giunto ne'suoi quartieri, spediva per quelli degli altri capi, secreti emissari a disseminarvi sinistre novelle, d'onde provenne lo spavento e la costernazione, com'egli desiderava. Mandaronsi alcuni capi fuori a spiare il vero degli sparsi rumori, e recarono, avvicinarsi Cherboga principe di Mossul verso Antiochia con centomila combattenti raccolti sulle rive dell'Eufrate e del Tigri; il quale tentata Edessa, corsa e devastata la Mesopotamia, non era lontano dal campo de'Crociati più che sette giornate di cammino. A tale annunzio, crebbe il timore, e profittandone Boemondo, discorreva per l'esercito esagerando i pericoli, e simulando maggior dolore e spavento che gli altri; ma, nel secreto del suo animo, lieto e certo di poter in breve satisfare alla sua ambizione. Radunasi nuovamente il consiglio de' capi a deliberare della critica circostanza, sopra che dividonsi in due opposti pareri, consigliando parte di quelli che, levato l'assedio, si movesse contro il nimico, estimando gli altri più prudente, partire l'esercito in due corpi, e uno mandarne contro Cherboga, l'altro lasciare a guardia del campo. Già accordavansi tutti in quest'ultima sentenza, allorchè Boemondo chiese facoltà di partire. Rappresentò gli inconvenienti de'due partiti proposti; perché levando l'assedio era un porsi in mezzo fra il presidio d'Antiochia e un nuovo nimico più formidabile; proseguendo l' assedio e movendo metà dell'esercito contro Cherboga, esponevansi a doppia sconfitta.
Boemondo palesò le lettere di Firoo, che profferivasi di dare le tre torri a lui affidate, e dichiaravasi parato a servare la promessa, purchè non avesse a riconoscer altri che il principe di Taranto. Chiedeva quindi in premio della tradigione, che Boemondo fosse eletto principe di Antiochia. Al contenuto delle lettere aggiunse il tarentino: aver egli già pagate grandi somme di danaro a Firoo, con le quali, solo, erasi guadagnata la di lui fiducia e stabilita quella reciproca fede d' onde unicamente proviene la buona e sicura riescita di sì difficili intraprese. Nondimeno ( seguitò a dire ) se altri sa migliore spediente di salvare l'esercito, eccomi pronto ad approvarlo avanti a tutti e a rinunciare volontieri ai guadagni di un conquisto, dal quale la salvezza de' Crociati dipende. Frattanto il pericolo facevasi maggiore di giorno in giorno; disonorevole reputavasi la fuga, imprudente la battaglia, pericolosissimo l'indugio. Il timore soffocò le mire della emulazione; e quei capi poco prima tanto avversi alla proposta di Boemondo, allora non solo trovavanla senza infamia, ma ragionevole e da non tralasciarsi. Insomma, vistoché gli uomini sanno persuadersi sempre esser ragionevole e giusto tutto ciò a che gli costringe necessità, o gli tirano i loro appetiti, tutti i capi, eccettuato l'inflessibile Raimondo, concordaronsi nel concedere a Boemondo il principato d'Antiochia e iustantemente lo sollecitarono che alla esecuzione del suo progetto ponesse mano. Il tarentino, escito di consiglio, spedì subito avviso a Firoo che mandavali in pegno della sua fede il proprio figliuolo. Ordinavasi l'esecuzione per il giorno dipoi. Affinchè gli assediati non suspicassero di nulla e vivessero più che mai sicuri, è stabilito che l'esercito escirà del campo simulando muovere contro il principe di Mossul, ma che, sopraggiunta la notte, col favor delle sue tenebre, ritornerà sotto le mura di Antiochia.
Apparve il nuovo giorno; accingonsi le genti d'arme alla fazione; verso vespro escono del campo, pongonsi in cammino, sonando le trombe e, spiegate, sventolando all'aria le insegne. Discostatesi ragionevolmente, fermansi; cessa ogni strepito militare, e chetamente verso Antiochia retrocedono. Dato il segno dal tarentino, ristanno in una valle, che è all'occidente e presso alla torre delle Tre Sorelle, tenuta da Firoo. In quel luogo fu comunicato all'esercito il secreto della grande impresa. Acciano, sospettoso il fa chiamare Firoo, viste le voci sui di lui accordi con i cristiani; l'emiro l'esplora con quistioni, e fissandogli addosso intensamente gli sguardi per penetrarne i pensieri; egli però non si perde d'animo, e simula tal sicurezza e ingenuità d'innocenza, che ogni dubbio si dilegua: propone anzi severe inquisizioni contro i traditori e consiglia al suo principe di mutare i capitani delle principali torri. È lodato il consiglio, ed approvatane l'esecuzione per il venturo giorno; emanasi nel medesimo tempo sentenza di morte o di prigionia contro i Cristiani della città. Dopo ciò, confermato Firoo nelle sue cariche, per la difesa onestà, acquistossi maggior confidenza e favore. Egli ritornavasi nella torre che aveva promesso di dare ai Cristiani, forte nell'animo agitato per il corso pericolo e aspettando con impazienza la notte.
Giunge l'ora della esecuzione. Oscura era la notte; mugghiava per l'aere la tempesta, che cresceva la tenebrìa; impetuosissimo vento imperversava guastando i tetti degli edifici; le folgori, con grandi scrosci e terribili chiarori, accordavansi di continuo al fischiare de'venti, onde le guardie delle mura accovacciate ne'più prossimi ripostigli, non potevano udire rumore alcuno che si facesse di fuori, o vedere se il nimico appressava. Da occidente appariva il cielo come infuocato; sorse sull'orizzonte una cometa, onde i Crociati immaginavansi prenunciarsi da Dio la imminente ruina degli infedeli, e aspettavano impazienti il segnale per muoversi.
Immerso nel sonno stavasi il presidio di Antiochia; il solo Firoo vegliava. Un Lombardo che chiamavasi Pagano, mandato da Boemondo, ascende nella torre con una scala di cuoio. Firoo, gli annunzia esser tutto disposto e per meglio certificarlo della sua fede, mostrali il cadavere del fratello da lui ucciso. Ma mentre parlavano, ecco un officiale del presidio che viene a visitare le guardie; fessi avanti alla torre di Firoo con una lanterna, il quale non dimostrando fuori alcun turbamento, nascosto il messo di Boemondo, esce incontro all'ufficiale, da cui è molto commendato per la sua vigilanza. Declinato questo nuovo pericolo, rimanda Pagano con le opportune istruzioni al principe tarantino. Il lombardo ritornato al campo espone quanto ha veduto, e prega Boemondo per parte di Firoo di non indugiare più un momento l'esecuzione. In questa un panico timore invade gli animi de'soldati; si rappresenta alla mente di tutti la grandezza del pericolo e la dillicoltà dell'impresa, niuno vuole ascendere il muro; invano Goffredo e il tarantino provansi di persuaderli con promesse e con minaccie: capitani e soldati rimangonsi immobili. Allora Boemondo istesso ascende per una scala di funi, sperando che i più valorosi il seguiterebbero; ma niuno imita l'esempio, onde solo giunge nella torre di Firoo, che lo rimprovera molto della sua tardanza. Boemondo discende di nuovo ed esorta i soldati dicendo, tutto esser parato per riceverli; queste parole e il dato esempio, concitano finalmente gli animi al coraggio; sessanta Crociati accingonsi alla scalata; salgono per la scala di cuoio, facendo a tutti coraggio un cavaliere appellato Covello, comparato dallo storico di Tancredi, all'aquila che conduce per gli aerei campi i suoi aquilotti e gli esercita al volo. Fra i detti sessanta meritano nota, il conte di Fiandra e alcuni altri dei capi principali. Ed ecco che altri sessanta seguitano volonterosii primi, seguiti anco da altri, onde tanti divengono gli scalatorie tanta è la foga loro, che il merlo a cui era la scala appiccata, si dispicca dal muro e cade con alto fracasso nella fossa: per la qual caduta quelli che erano già al sommo pervenuti precipitano sulle lancie e sulle spade sguainate de'loro compagni, e in tutti isoldati nasce disordine econfusione. I capi della cospirazione non si atterrirono però di tale storpio', Fimo sul corpo san'guinolento del fratello abbraccia i nuovi compagni; abbandona ai loro puguali un altro fratello che teneva presso di sè e per ultimo gli pone in possesso delle tre torri a lui atlidate. I congiurati non penano molto a- impadronirsi di altre sette: Firoo manda giù dalle mura un'altra scala per la quale asoendono i più impazienti, e indica agli altri una porta, che prontamente è atterrata; e i soldati a schiere irrompono nella città. Goffredo, Raimondo, il conte di Normandia, discorrono già per le vie con le loro genti. Suonansi le trombe; terribil grido sorge dai quattro colli della città: Dio lo vuole, Dio lo vuole.
Al primo rumore di questo assalto tumultuoso, i cristiani della città immaginavansi esser giunta la loro ultima ora e che i Mussulmani corrano a scannarli. I Mussulmani invece, tra il sonno, escono delle case per discoprir la cagione del nuovo rumore, e cadono trucidati senza poter conoscer chi siano gli uccisori loro. Alcuni avvisati del pericolo fuggonsi verso la montagna ove era la cittadella; alcuni altri fuggono fuori della città, e quelli che fuggire non possono, al ferro de' vincitori soggiacerono. Mentre l'esercito attendeva alla carnificina, Boemondo assicuravasi il possesso di Antiochia, e quando apparve il giorno, videsi la sua Bandiera rossa sulla più alla torre della città, la quale, riconosciuta dai Crociati che erano alla guardia del campo rimasi, subito concorsero ai vittoriosi compagni e seco loro si collegarono a far carne. La maggior parte dei Cristiani d'Antiochia, che durante l'assedio molto avevano sofferto per la tirannide degli infedeli, unironsi similmente ai loro liberatori', mostrando alcuni i ferri in che avevano languito e d'onde i vincitori traevano stimolo a maggiore crudeltà. Le pubbliche piazze erano di cadaveri coperte, correva il sangue a rigagni. Irrompono nelle case; ove sono segni cristiani, ove echeggiano inni sacri, i Crociati rispettano i loro fratelli, ove non trovano croci, scatenasi il loro furore; chi non invoca il nome di Cristo, è trucidato.
In una sola notte diecimila abitatori d'Antiochia erano stati a violenza banditi della mortal vita. Molti de'fuggiti furono nelle vicine campagne inseguiti, presi e ricondotti nella città a schiavitù e a morte. Acciano fin dai primi tumulti, accortosi del tradimento e non fidandosi più d'alcuno de'suoi officiali, deliberava ripararsi in Mesopotamia e congiungersi a Cherboga. Escito da una porta secreta, senza scorte, incamminasi per montagne e foreste, e s' imbatte in alcuni boscaioli armeni, dai quali fu riconosciuto e veduto senza seguito e molto confuso, fatto pensiero che la città fosse presa; uno di loro se gli accostò, tolseli la spada e lo uccise. La sua testa fu portata ai vincitori Cristiani, onde Firoo poté senza timore fissar la faccia di colui nella quale, la notte precedente, aveva veduta tremando lampeggiare la sua sentenza di morte, tanto è bizzarra la volubilità delle umane sorti! Egli avute grandi ricchezze in pregio della tradigione, ritornato al cristianesimo e mondato di tutte le peccata dalla sacramentale assoluzione, seguito' i Crociati a Gerusalemme, molto onorato ed amato nel loro campo; ma due anni dipoi, non ancor satisfatto nella sua ambizione, detrattato Cristo, si rivolse di nuovo a Maometto, e morì esecrato da' Mussulmani e da'Crociati; come meriterebbero esser taluni; i quali a seconda che gli porta il vento di loro stolta ambizione, ora fannosi Cattolici or Luterani or Calvinisti ora Ebrei sempre in caccia di falsi e obbrobriosi onori, nè mai curanti dell'onor vero, che consiste nel dichiarato e costante carattere, meno degno d'avvilimento, se perverso, che volubile. Stanchi i Cristiani di carnificina, ma non sazi, disposersi a combattere la cittadella, la quale sendo inespugnabile, fe' vani i loro conati. Contentaronsi pertanto di circondarla con soldati e macchine guerresche, per torre al presidio l'escire, e ritornati nella città, lasciarono il freno alla licenza della vittoria. I Crociati occuparono Antiochia nei primi giorni di giugno dell'anno 1098. L'assedio era cominciato nel mese di ottobre dell'anno precedente. Raimondo Agilense, narra i tripudii e le allegrezze de' soldati Cristiani dopo la vittoria e specialmente, che i cavalieri e i baroni celebrarono magnifici festini ne' quali furono senza scrupolo adoperate le Pagane danzatrici; e mostrando con altre simili prevaricazioni , aver obbliato essere stato Iddio autore delle loro prosperità. Ma la gioia e il tripudiare furono presto interrotti, da crudele spavento per l'appropinquarsi del formidabile esercito mussulmano.
Tratto da:
"Storia delle crociate" scritta da Giuseppe Francesco Michaud, Volume 1, Firenze 1842