Battaglie In Sintesi
24 - 29 settembre 1860
Generale italiano, nato a Carpi il 26 febbraio 1808, morto a Firenze il 5 aprile 1865. Nel 1826 entrò nella scuola dei pionieri in Modena e quivi si addottoro in matematica. Allo scoppiare dell'insurrezione nell'Italia centrale (1831), sfuggendo alle truppe del duca, partì da Modena per combattere gli Austriaci e prese parte come ufficiale al combattimento di Rimini. Dopo la capitolazione di Ancona riuscì a sfuggire alla prigionia di guerra e a raggiungere le coste di Francia, e quivi fu accolto in servizio militare presso il comando delle fortificazioni di Lione. Nel 1835 lasciò la Francia per la Spagna e si arruolò come ufficiale nelle bande del generale Mina. Passato poi nell'esercito regolare spagnolo, dopo un'audace campagna di cui era stato incaricato dal generale Manso, debellate completamente le ultime bande carliste rifugiatesi nelle montagne, ebbe il grado di colonnello e le funzioni di capo di stato maggiore del comando generale di Madrid. Nel 1848, chiese e ottenne di recarsi in patria, ma allorché giunse a Milano già la fortuna volgeva sfavorevole per la causa italiana. Ebbe tuttavia dal governo provvisorio di Milano l'incarico di mettere in stato di difesa la città di Brescia; ma la sconfitta di Custoza e la rapida ritirata dei Piemontesi attraverso la Lombardia non gli diedero il tempo di adempiere al mandato. Avvenuto l'armistizio Salasco, condusse in Piemonte gli avanzi della divisione lombarda. Fu eletto, poco dopo, deputato al parlamento subalpino. Durante la breve campagna di Novara fu comandante di brigata nella divisione Ramorino; e pure al comando di una brigata prese parte nel 1855 alla spedizione di Crimea. Divisionario, fece la campagna del 1859 e si distinse nelle giornate di Palestro e di San Martino. Durante lo svolgimento del piano politico di Cavour per le annessioni, il Fanti ebbe il delicato incarico di organizzare l'esercito della lega dell'Italia centrale. Fondò in questa occasione (1859) la scuola militare di Modena per il reclutamento degli ufficiali della Lega, divenuta poi scuola militare (e oggi Accademia militare) di fanteria e cavalleria dell'esercito italiano. Compiutesi le annessioni, il Fanti fu chiamato a reggere il Ministero della guerra, e in tale carica ordinò il primo esercito del regno d'Italia, costituendolo in cinque corpi d'armata e particolari cure dedicò all'organizzazione del sistema difensivo di contro al nuovo confine austriaco del Mincio-Po. L'anno seguente comandò in capo la vittoriosa campagna nelle Marche e nell'Umbria e, come capo di stato maggiore di Vittorio Emanuele II, diresse la successiva campagna nel Napoletano. Riprese poi per breve tempo il suo posto di ministro della Guerra, indi fu inviato in missione militare in Francia. Rientrato in patria ebbe il comando del 5° dipartimento militare di Firenze.
Generale francese, nato a Nantes il 15 febbraio 1806, morto a Prouzel il 10 settembre 1865. Datosi alla carriera delle armi e inviato in Africa durante la spedizione d'Algeri (1830), partecipò a tutte le operazioni di guerra, giungendo nel 1837 al grado di colonnello, nel 1843 a quello di tenente generale. Nel 1854 fu governatore ad interim dell'Algeria. Diede sempre prove di grande valore, e a lui fu dovuta la cattura del temuto Abd el-Kader (1847). Intanto, già nel 1846 era stato eletto deputato; e, tornato in Francia, fu designato come ministro della Guerra in una combinazione parlamentare (Thiers-Molé-O. Barrot), che tentò inutilmente di salvare dalla rovina la monarchia orleanese. Il 24 febbraio 1848 partecipò alla rivolta contro Luigi Filippo. Durante il governo provvisorio rifiutò il ministero della Guerra e il comando militare di Parigi; ma poi, eletto rappresentante alla Costituente, e schieratosi col Cavaignac, accettò la prima di quelle due cariche, tenuta fino al 10 dicembre 1848. Fu contrario all'elezione del principe Luigi Napoleone a presidente della repubblica; pur tuttavia, fu eletto alla Legislativa, e accettò una missione diplomatica in Russia (luglio 1849). Avverso al colpo di stato del 2 dicembre, fu arrestato e internato a Ham, poi condotto alla frontiera. Nell'esilio del Belgio tenne sempre un contegno ostile all'impero, e anzi nel 1853 firmò col Mazzini e con lo Charras un proclama all'esercito eccitandolo alla ribellione. Gli fu concesso di tornare in patria nel 1857 e tre anni dopo, accettando l'invito del De Mérode, prefetto delle armi, assunse il comando dell'esercito pontificio. Riordinò l'esercito, nel quale militavano legittimisti francesi, irlandesi, svizzeri, ecc. e fece fortificare Ancona. Prese anche aspre misure contro i liberali e gli esuli per cause politiche. Il 18 settembre 1860 fu sconfitto a Ancona dall'esercito italiano del Cialdini. Ritiratosi su Ancona, sostenne per alcuni giorni l'assedio di terra e di mare e il 28 settembre si arrese, imbarcandosi il giorno dopo sul Cavour che lo recò a Genova (7 ottobre). Per la via di Marsiglia andò a Roma, ed ebbe buone accoglienze dal De Mérode e da Pio IX. Conservò il titolo di generale in capo dell'esercito pontificio, ma, ottenuto un congedo, si recò in Francia, dove strinse relazioni col partito legittimista e con quello clericale. Negli ultimi anni di vita si dedicò a opere di pietà.
Il generale Fanti, dopo la presa di Perugia e l'occupazione di Foligno, mentre si disponeva a procedere anch'egli col grosso del V Corpo e con la terza divisione del IV (la 13a divisione, agli ordini del generale Raffaele Cadorna, che aveva agito quale collegamento fra i due corpi verso Ancona), aveva mandato, il 16 settembre, una colonna - formata dal 3° reggimento Granatieri di Lombardia, un battaglione di bersaglieri, una batteria e 2 squadroni verso Spoleto, ventisette chilometri a sud di Foligno, altro nodo strategico importante guarnito da una fortissima rocca presidiata da un battaglione. Il Brignone senz'altro il 17 ne tentava l'assalto. Non c'era che un'unica ripida strada dominata dal fuoco del nemico e sebbene i Granatieri di Lombardia muovessero all'attacco con mirabile slancio, esso non riuscì. Già più dì duemila anni prima l'arce aveva resistito a un vigoroso tentativo delle truppe d'Annibale. Tuttavia a sera il presidio s'arrendeva e il Brignone si spingeva tosto su Terni e su Narni, giungendo fino ai limiti del Patrimonio di San Pietro. Napoleone aveva raccomandato agli italiani di far presto, e in verità essi avevano fatto del loro meglio. L'esercito pontificio, dopo la tenace difesa dì tre o quattro battaglioni, s'era interamente disciolto e le famose rocche erano cadute una dietro l'altra dopo brevissime difese. Ma Ancona era una vera piazzaforte e se non presentava che scarse e deboli difese dal lato del mare, dal lato di terra era difesa da posizioni naturalmente forti, con lavori accessori di difesa. Il 20 settembre il IV Corpo colla sinistra al mare iniziava l'accerchiamento della fortezza; il 24 il V Corpo da sud colla destra al mare completava l'accerchiamento, mentre la flotta, agli ordini del viceammiraglio Persano, dal 17 si trovava davanti alla città. Dirigeva tutta l'operazione il comandante dell'armata, generale Fanti.
Un primo combattimento di artiglierie avvenne il 18 settembre, con qualche danno delle fortificazioni, e nessuna perdita per le nostre navi, rimaste a distanza utile per noi, dato il maggior calibro delle artiglierie navali. Questa prudenza fu severamente rimproverata all'ammiraglio Persano, ma quando si pensi che le forze a cui il Persano era preposto erano le sole di cui potesse disporre il regno sardo, minacciato da tanti pericoli, e soprattutto da un intervento non impossibile dell'Austria, la sua circospezione nell'esporre le navi al fuoco delle batterie trova seri elementi di giustificazione. Dopo la vittoria di Castelfidardo, parve ai comandi che non fosse il caso d'iniziare un lungo e sistematico assedio, ma di fidare nello slancio dei soldati. E il 25, mentre il IV Corpo cercava di richiamare su di sé l'attenzione del nemico, 2 battaglioni di bersaglieri del V Corpo, avanzando lungo i poggi, si spingevano fin sotto il forte di Monte Pelago, il più alto e avanzato dei forti della piazza. Mentre si portavano delle artiglierie sulle posizioni raggiunte, il mattino del 26 il nemico tentava una sortita; non solo era respinto, ma i 4 battaglioni della brigata Bologna e i 2 battaglioni di bersaglieri, inseguendo il nemico, occupavano la posizione fortissima in sé, ma costituita da una lunetta di terra aperta alla gola e senza un retrostante ridotto. Quindi procedendo innanzi, lungo il crinale della collina, giungevano addosso al forte di Monte Pulito, mentre un altro battaglione del IV Corpo, attaccando dall'opposto lato, concorreva alla conquista dì esso. Era proprio avvenuto che, grazie allo slancio delle formazioni emiliane, in gran parte costituite l'anno prima alla meglio, si fossero potuti prender d'assalto i due punti più forti della sistemazione difensiva della piazza. Ora, in una nobile gara, il Cialdìni avanzava lungo la marina: i bersaglieri occupavano Borgo Pio, venendo a contatto con la porta di tal nome, la cittadella e il campo trincerato, costituenti la difesa immediata della città vera e propria. La sera del 27 i bersaglieri s'impadronivano del Lazzaretto, sempre più a ridosso della porta. La piazza era premuta dappresso e il 28 entrava energicamente in azione la flotta. La fregata Vittorio Emanuele si avvicinava alla batteria protetta del Molo, scaricando su di essa tutta una fiancata dei suoi cannoni. Ad essa seguiva una tremenda esplosione, e allora la fortezza innalzava bandiera bianca. Ma come già a Perugia, i papalini volevano patteggiare la resa, e allora a sera fu iniziato il bombardamento contro la cittadella e il campo trincerato, in attesa del generale attacco del giorno dopo. Il fuoco continuava il 29 senza che il nemico rispondesse. Intanto una colonna del V Corpo (3° reggimento Granatieri di Lombardia, già distintosi a Spoleto, e 2 battaglioni di bersaglieri) giungeva, infiltrandosi fra due forti nemici, fino alle mura della città, mentre truppe del IV Corpo si disponevano ad attaccare la Porta Pia. E intanto truppe da sbarco della flotta s'erano impadronite dell'altura del Duomo, a dominio della città e del porto. Questa volta i papalini non attesero l'attacco e a sera si arrendevano a discrezione. Gli italiani facevano prigionieri il Lamoricière, due generali e 7000 uomini e s'impadronivano nella piazza di 154 cannoni.
Innegabilmente, anche negli attacchi contro le posizioni sistemate a difesa della piazza d'Ancona, gli italiani tutti avevano mostrato un mirabile slancio e anche la flotta poteva vantarsi d'aver con successo cooperato all'azione. In diciotto giorni non solo l'esercito pontificio era stato sbaragliato, ma anche le forti rocche e la pur sempre temuta piazzaforte d'Ancona eran state conquistate. L'esercito pontificio più non esisteva; esso quasi interamente era ormai prigioniero. Indubbiamente, la campagna delle Marche e dell'Umbria, per la rapidità fulminea del successo completo, era una pagina gloriosa per le armi italiane, e anche i capi avevano mostrato innegabile capacità. Ora l'esercito regio doveva muovere verso il Mezzogiorno a sostegno dei garibaldini, per compiere l'opera loro grazie alle possenti artiglierie, colle quali si sperava d'aver presto ragione delle fortezze di Capua e di Gaeta.
Tratto da:
"Storia militare del Risorgimento", Piero Pieri, Torino, Einaudi, 1962