Battaglie In Sintesi
322 a.C.
Per ben due volte fu nominato magister equitum, in entrambe le occasioni dal dittatore Tito Manlio Imperioso Torquato; nel 353 a.C. e nel 349 a.C. Nominato console nel 343 a.C. assieme Marco Valerio Corvo, fu inviato al comando delle truppe romane nel Sannio, quando Roma dichiarò guerra ai Sanniti, per quella che sarebbe stata ricordata come la prima guerra sannitica. Riuscito a sfuggire ad una situazione difficile, grazie ad uno stratagemma portato a termine dal tribuno militare Publio Decio Mure, riconquista una posizione adatta allo scontro, il console guidò i romani alla vittoria contro i Sanniti, per la quale ottenne il trionfo a Roma. Fu nominato console nel 332 a.C. assieme Gneo Domizio Calvino, al suo secondo consolato. Mentre regnava dovunque la pace, la notizia di una guerra scatenata dai Galli portò lo scompiglio e indusse all'elezione di un dittatore. Nel 322 a.C. nominato dittatore per combattere i Sanniti, scelse Marco Fabio Ambusto, come magister equitum. Condotto l'esercito romano nel Sannio, fu costretto dai Sanniti a scendere in battaglia, da una posizione sfavorevole. Questo, oltre al valore dei nemici, fece sì che lo scontro diventasse violento ed incerto. La situazione volse a favore dei romani, quando la cavalleria Sannita, che si era gettata a saccheggiare le salmerie dei romani, fu presa di sorpresa e sbaragliata dalla cavalleria romana, condotta da Marco Fabio. Sconfitti i cavalieri sanniti, la cavalleria romana, con una manovra a tenaglia, attaccò alle spalle l'esercito sannita, che preso tra due fuochi, fu sconfitto dai romani. Per questa vittoria, tornato a Roma, Aulo Cornelio ottenne il trionfo.
Durante il consolato di Quinto Fabio e di Lucio Fulvio, per la minaccia di una guerra più grave con i Sanniti (che si diceva avessero raccolto una milizia mercenaria assoldandola tra le popolazioni dei dintorni), il dittatore Aulo Cornelio Arvina e il maestro di cavalleria Marco Fabio Ambusto con un'energica leva militare formarono un eccellente esercito che condussero contro i Sanniti. Si erano accampati in territorio nemico senza quasi preoccuparsi della loro posizione, come se gli avversari fossero stati a miglia di distanza, quando all'improvviso arrivarono le legioni dei Sanniti che avanzarono con tanta sicurezza da arrivare a costruire la trincea nei pressi dei posti di guardia romani. Ormai stava per calare la notte, e questo impedì loro di assaltare le difese dei Romani. Ma non nascondevano affatto l'intenzione di farlo il giorno successivo, alle prime luci dell'alba. Il dittatore, quando vide che lo scontro era più vicino di quanto si aspettasse, nel timore che la posizione svantaggiosa nuocesse al valore dei suoi uomini, lasciò dietro di sé molti fuochi accesi la cui vista ingannasse il nemico, e in silenzio portò fuori le legioni. Ma la vicinanza dei due accampamenti gli impedì di passare inosservato. La cavalleria sannita, gettatasi immediatamente all'inseguimento, tenne sotto pressione l'esercito in marcia, pur senza arrivare allo scontro, fino a quando non fu giorno. Nemmeno la fanteria uscì dall'accampamento prima dell'alba. Alla fine, quando sorse il sole, la cavalleria si spinse ad attaccare i Romani: agganciandone la retroguardia e incalzandoli in corrispondenza di passaggi difficili ne rallentò la marcia. Nel frattempo la fanteria seguì la cavalleria e ormai i Sanniti premevano con tutte le loro forze. Allora il dittatore, rendendosi conto di non poter avanzare se non a prezzo di gravi disagi, ordinò di porre l'accampamento nello stesso punto in cui si era fermato. Ma, circondati com'erano dalla cavalleria nemica, non fu loro possibile andare in cerca di legname per la palizzata e iniziare i lavori di fortificazione. E così, quando vide che non gli era possibile né avanzare né accamparsi, Cornelio schierò l'esercito in ordine di battaglia, dopo aver spostato i carriaggi dalla linea d'attacco. Si schierano anche i nemici, con pari forze e determinazione. Ciò che più di ogni altra cosa ne accresceva l'animosità era questo: ignorando che i Romani si erano ritirati di fronte non al nemico ma a una posizione svantaggiosa, pensavano che avessero ripiegato per paura.
Questa convinzione per qualche tempo mantenne in equilibrio la battaglia, benché da anni ormai i Sanniti non riuscissero a sostenere nemmeno l'urlo di guerra dell'esercito romano. E, per Ercole, si dice che quel giorno, dall'ora terza all'ottava, l'esito dello scontro fu così incerto, che l'urlo di battaglia non venne rinnovato dopo quello che diede inizio al combattimento, che le insegne non vennero spostate in avanti né ritirate nelle retrovie e che da una parte e dall'altra non vi furono cedimenti, in alcun punto. Ciascuno combatteva restando fermo al proprio posto, opponendo gli scudi agli scudi, senza tirare il fiato e senza fermarsi a guardare indietro. Il fremito inesausto e l'andamento costante della battaglia facevano pensare che solo la fine delle energie o il calare della notte avrebbero posto termine allo scontro. Ormai agli uomini venivano meno le forze, alle spade la tempra abituale, ai comandanti le idee: quand'ecco che all'improvviso i cavalieri sanniti, appreso da un loro squadrone spintosi più avanti che le salmerie romane si trovavano lontane dagli uomini armati e non erano protette da guarnigioni o da dispositivi di difesa, si gettarono all'assalto spinti dall'avidità di bottino. Quando un messaggero trafelato riferì la cosa al dittatore, questi disse: "Lasciate pure che si appesantiscano con la preda". Arrivarono poi altri messaggeri e altri ancora, a riferire che i nemici stavano saccheggiando e portando via i beni dei soldati. Allora, convocato il maestro di cavalleria, gli disse: "Ma non vedi, o Marco Fabio, che i cavalieri nemici hanno smesso di combattere" Sono rimasti invischiati alle nostre salmerie. Aggrediscili mentre sono dispersi, come tutti i soldati occupati a razziare! Ne troverai pochi in sella, pochi con la spada in pugno. Mentre stanno caricando di bottino se stessi e i propri cavalli, massacrali, inermi come sono, copri di sangue il loro bottino. Io mi occuperò delle legioni e delle manovre dei fanti: sia tuo l'onore della battaglia equestre!".
La cavalleria, schierata come meglio non sarebbe stato possibile, assalì i nemici dispersi e appesantiti, seminando strage ovunque. Furono massacrati perché, avendo tra i piedi i bagagli che avevano abbandonato in fretta e furia e che impedivano i movimenti ai cavalli terrorizzati nel pieno della rotta, non poterono né combattere né fuggire. Marco Fabio poi, distrutta o quasi la cavalleria nemica, compì una breve manovra di accerchiamento e prese alle spalle la fanteria. Le nuove grida che si udirono da quella parte seminarono il panico tra i Sanniti, e il dittatore, quando vide gli uomini delle prime file nemiche voltarsi indietro, le loro insegne confondersi e lo schieramento ondeggiare, allora incitò i soldati, e chiamando per nome tribuni e comandanti di compagnia li esortava a sferrare un nuovo attacco insieme con lui. Levato un nuovo urlo di guerra, si gettarono all'assalto, e col procedere della manovra vedevano i Sanniti sempre più in preda alla confusione. I primi erano già in vista dei cavalieri romani, e Cornelio, voltandosi indietro verso i manipoli di fanti, faceva capire come poteva, a gesti e a parole, che già scorgeva vessilli e scudi dei cavalieri. Non appena udirono e insieme videro la cosa, gli uomini dimenticarono di colpo le fatiche sostenute per quasi tutto il giorno e le ferite subite, e si lanciarono contro il nemico, come se arrivati freschi dall'accampamento avessero ricevuto in quel momento il segnale di battaglia. E i Sanniti non riuscirono a resistere più a lungo alla furia dei cavalieri e all'urto dei fanti: parte di essi presa in mezzo venne uccisa, parte invece fu dispersa e messa in fuga. I fanti circondarono e finirono quelli che resistevano. I cavalieri fecero strage dei fuggitivi, tra i quali cadde anche il comandante.
Questa battaglia fiaccò il morale dei Sanniti: in tutte le riunioni mormoravano ormai che non c'era da stupirsi se non riuscivano a conseguire risultati in una guerra scellerata che era stata scatenata violando un trattato, e nella quale gli dei erano, a ragione, più ostili degli uomini. La colpa del conflitto andava espiata e la purificazione sarebbe costata a caro prezzo. La sola incertezza era se si dovesse pagare con il sangue dei pochi colpevoli o con quello dei molti innocenti, mentre c'era già chi si spingeva a fare i nomi dei responsabili delle ostilità. Se ne distingueva uno in particolare: erano tutti d'accordo nel denunciare Papio Brutulo, un potente nobile che aveva senza dubbio infranto la tregua più recente. Costretti a giudicare il suo caso, i pretori decisero che Papio Brutulo venisse consegnato ai Romani e che con lui fossero inviati a Roma l'intero bottino e i prigionieri, e che tutto ciò di cui i feziali avevano chiesto soddisfazione in base al trattato fosse restituito secondo la legge divina e umana. Dopo questa deliberazione, i feziali partirono per Roma portando con sé il corpo esanime di Brutulo, il quale si era sottratto con il suicidio alla pena e all'umiliazione. Insieme col corpo venne deciso di consegnarne anche i beni. Ma di tutte queste cose i Romani accettarono solo i prigionieri e gli oggetti che furono riconosciuti come propri; il resto fu respinto. Il dittatore ottenne il trionfo per decreto del senato. Alcuni autori riportano che questa guerra venne combattuta dai consoli, e che furono loro a trionfare sui Sanniti. Stando a loro, Fabio sarebbe penetrato in Apulia e di là avrebbe portato via grande bottino. Il fatto che quell'anno Aulo Cornelio fosse dittatore non è in questione. Il dubbio è se fosse stato eletto per occuparsi della campagna, oppure perché ci fosse un magistrato a dare il segnale alle quadrighe nei Giochi Romani - il pretore Lucio Plauzio era allora gravemente ammalato -, e avesse quindi rinunciato alla carica di dittatore dopo aver compiuto la funzione non proprio memorabile per la quale era stato eletto. Non è facile scegliere tra le varie versioni e i diversi autori. Ho l'impressione che i fatti siano stati alterati dagli elogi funebri o da false iscrizioni collocate sotto i busti, dato che ogni famiglia cerca di attribuirsi il merito di gesta gloriose con menzogne che traggono in inganno. Da quella pratica discendono sicuramente sia le confusioni nelle gesta dei singoli individui, sia quelle relative alle documentazioni pubbliche; per quegli anni non disponiamo di autori contemporanei agli eventi, sui quali ci si possa quindi basare con certezza.
Bibliografia:
"Ab Urbe Condita", Tito Livio, Libro VIII