540 a.C.
Ancor prima dell'espansione romana e del suo affaccio sul mare, si era già consumata nelle acque del Tirreno una delle più antiche battaglie navali che la marineria mondiale ricordi o di cui si abbia testimonianza: Alalia. Protagonisti ne furono le popolazioni che dominavano non solo i mari, ma una parte consistente della cultura dell'Italia preromana: gli etruschi, i cartaginesi ed i greci.
Alalia
Ancor prima dell'espansione romana e del suo affaccio sul mare, si era già consumata nelle acque del Tirreno una delle più antiche battaglie navali che la marineria mondiale ricordi o di cui si abbia testimonianza: Alalia. Protagoniste ne furono le popolazioni che dominavano non solo i mari ma una parte consistente della cultura dell'Italia preromana: gli etruschi, i cartaginesi ed i greci. Ma la battaglia di Alalia, non rappresenta solo uno scontro per la supremazia sulle coste italiche o su i suoi empori commerciali: Alalia ha sancito uno dei punti di svolta per l'intero mediterraneo occidentale. Teatro di scontro fu, come detto, il mar Tirreno, che come tutto il resto del mediterraneo occidentale in quel periodo presentava caratteristiche storiografiche assai diverse da quelle che distinguevano la realtà del versante orientale. Uno dei fattori che in assoluto differenziano le due sponde mediterranee è rappresentato dalla ingombrante presenza (e di conseguenza dalla minaccia), nel tratto orientale, di un potente e strutturato impero come quello persiano. Proprio l'attività espansionistica di quest'ultimo, infatti, determinò il trasferimento forzato di una delle comunità greche, quella focese, in ambiti nei quali la presenza delle poleis elleniche non era stata mai stata sentita come in altre aree. I focesi in fuga si trovarono quindi a in un quadrante, quello del mediterraneo occidentale, in cui non vi erano affacciate minacciose realtà imperiali come quella persiana, ma che si trovava ad essere popolata soprattutto da profonde realtà commerciali come quella cartaginese e quella etrusca. In linea con il comportamento delle altre poleis ancora presenti in madrepatria anche i focesi poterono, in un primo momento, dedicarsi anche su quei lidi alle imprese commerciali, nelle quali erano sicuramente abili, integrandosi in zone non del tutto coperte dalle altre potenze commerciali e prendendo contatti con popolazioni "difficili" come quelle galliche. La colonia focese di Massalia è un lampante esempio della dinamicità dei "nuovi arrivati".
Ma questa intraprendenza venne cozzando particolarmente con gli interessi di una delle più importanti popolazioni dell'Italia preromana: gli etruschi. Anche se non unificati in una sola realtà statale, «La potenza degli etruschi prima del dominio di Roma era assai estesa, per terra e per mare. I nomi attribuiti al mare superiore e al mare inferiore che circondano l'Italia come un'Isola possono costituire una prova, per quello che può valere. I popoli d'Italia chiamarono un mare etrusco, dalla comune denominazione dì quel popolo, l'altro Adriatico, da Adria, colonia degli etruschi; i greci li chiamarono Tirreno e Adriatico». Questo passo, tratto dalle Storie di Tito Livio ci fa comprendere l'importanza che gli antichi attribuivano al dominio degli etruschi sul mare, nei secoli che vanno dal IX al III a.C. Un altro autore romano, Catone, diceva che, in tempi più antichi, «... quasi tutta l'Italia era in potere degli etruschi... », gli scrittori greci, tuttavia, non pongono il dominio sul mare degli etruschi in tempi così lontani ed epici, come fanno gli storici di Roma. Va quindi sottolineato come nelle acque tirreniche vennero così a contrasto due tipologie di civiltà non del tutto antitetiche perfino dal punto di vista strategico-militare. In effetti, come confermato da diverse fonti raffigurative ed archeologiche, è chiara l'influenza ellenica subita dagli italici anche sotto il profilo militare; molte delle raffigurazioni etrusche pongono al centro degli scontri armati quelli che vengono comunemente riconosciuti come guerrieri opliti. Eppure non sembra poter possibile far lo stesso discorso per quello che riguarda la strategia e la tecnica navale. Una fortissima vocazione corsara dei Tirreni, una non perfetta coesione tra le lucomonie e l'esigenza di conservare la propria influenza nei mari italiani nonostante la pressione delle potenze marinare punico-greche, spinse la cantieristica e la strategia etrusca a distanziarsi, in parte, dalle tecniche di costruzione e di combattimento elleniche che tanto influenzarono la navigazione antica dei popoli mediterranei. Vennero così utilizzati modelli che replicarono, anche in operazioni militari "ufficiali", gli esempi vincenti delle imprese di pirateria ai quali erano così chiaramente avvezzi e i cui successi sono indubbi come confermato dagli autori dell'antichità: «Eforo dice che le città greche (Naxos e Megara) furono fondate per prime in Sicilia quindici generazioni dopo la guerra di Troia. In precedenza i greci temevano le scorrerie dei Tirreni e la crudeltà degli indigeni, sicchè non vi navigavano nemmeno a scopo di commercio(Strabone, 6, 2, 2 - da Eforo, storico di Cuma IV secolo a.C.).» In conclusione, oltre al drastico ridimensionamento greco nel mediterraneo occidentale, la battaglia di Alalia sancirà forse uno dei punti più alti del processo evolutivo della strategia navale etrusca e consegnerà alla sue città, e soprattutto alla più potente tra esse, Caere, il dominio sulle acque del Tirreno, instaurando, con una delle più grandi flotte militari del suo tempo, quella che comunemente è stata definita la Talassocrazia etrusca, rendendola una delle più grandi potenze navali negli anni che vanno dal VI al V sec. a.C.
Alalia
Quella che fu la più importante delle città etrusche - il cui toponimo etrusco era Caisra/Ceizra, chiamata Chaire dai greci e Caere dai romani - sorge a 40 km a nord-ovest di Roma, vicino alla costa. Cerveteri fa la sua comparsa nelle fonti antiche anche in relazione alla battaglia di Alalia (ca. 540 a.C.) combattuta da etruschi e cartaginesi contro i greci di Focea per il controllo dell'alto Tirreno e delle acque circostanti la Sardegna. L'origine del santuario di Pyrgi, principale porto di Cerveteri, sembrerebbe risalire proprio alla volontà dei Ceretani di fondare un luogo di culto per espiare la colpa dell'uccisione dei prigionieri greci seguita alla battaglia.
Il rilievo di Cerveteri nella storia etrusca è attestato dalla necropoli monumentale, e dalla quantità di materiali rinvenuti nei corredi tombali e negli scavi dell'abitato e delle aree occupate dai santuari. Tra le necropoli principali, particolare rilevanza hanno quelle del Sorbo (a sud-ovest della città), di monte Abatone (a sud-est), e della Banditaccia (a ovest). Le tombe restituite dalla Banditaccia, ricche di «segni» utili a una ricostruzione del tessuto sociale della città, riflettono un'evoluzione della società dalle forme aristocratiche del sec. VII ad altre più «egualitarie», per tornare a momenti di rinnovata affermazione gentilizia in età tardo-classica e alto-ellenistica.
La cultura sviluppata a Cerveteri conosce momenti di grande vitalità a partire dalla prima fase orientalizzante, quando le richieste dei nuclei familiari più potenti consentono l'acquisto di preziose merci di importazione greche e orientali, favorendo inoltre la nascita di un'industria artistica locale destinata a soddisfare le richieste di numerosi centri etruschi e del Lazio. A Cerveteri fiorisce così la produzione di buccheri e di ceramiche ispirate, nel sec. VII a.C., alla pittura vascolare greca. L'apertura alle influenze esterne prosegue nel corso di tutta l'epoca arcaica. Il declino subito nel sec. V a.C. dall'artigianale artistico locale corrisponde a una più ampia fase di crisi che investe Cerveteri e tutti i principali centri etruschi, dovuta a un peggioramento dei rapporti con i greci, ma anche a tensioni e rimescolamenti sociali interni. In seguito la città riacquista una posizione di prestigio e si rivela in piena sintonia con la politica romana, sostenuta in ciò anche dall'acquisizione della civìtas sine suffragio (ca. metà del sec. IV a.C.).
La rottura con Roma sarebbe arrivata soltanto agli inizi del sec. III, all'epoca cioè degli scontri che si conclusero nel 273 con la sconfitta di Cerveteri e con la confisca di metà del suo territorio da parte di Roma. Municipio nel 90 a.C., la città conobbe una fase di relativo benessere in età augustea e giulio-claudia, ma la definitiva decadenza non tardò a manifestarsi e a interessare con un graduale abbandono tutta l'area dell'antico centro abitato.
Alalia
Nella prima metà del VII secolo a.C., Caere sembra emergere, più di ogni altro centro dell'Etruria meridionale, per dinamicità. I rapporti con i "principi" di Vetulonia, attorno ai quali doveva ruotare tutto il complesso delle attività minerarie e metallurgiche, siglati da preziosi doni sui quali, a volte, è incisa un'iscrizione con una formula dedicatoria, divennero preferenziali. Tutto il percorso costiero che da Caere doveva terminare nelle sicure acque del lago Prile sul quale si affacciava Vetulonia (oggi colmato dalla pianura di Grosseto, dopo le bonifiche), era controllato dagli etruschi. Non sappiamo quanto le altre future metropoli costiere, Tarquinia e Vulci, abbiano osteggiato o compartecipato a questi viaggi. E' certo che il fiorire di centri minori con vocazione marittima, quasi certamente scali, come Orbetello e Marsiliana, posta all'imboccatura dell'Albegna, che formava allora un'ampia laguna in tutta l'area della foce, va connesso al percorso costiero. Ma i viaggi marittimi, oltre che verso nord, dovevano rivolgersi verso sud. Sono i beni di prestigio come il vasellame d'argento, gli avori decorati, i metalli sbalzati a segnalarci che centri del Lazio come Castel di Decima, Acqua Acetosa Laurentina, Satricum, Palestrina e Tivoli vengono coinvolti in una circolazione di oggetti che comprende i centri collocati lungo itinerari di penetrazione verso l'interno, irradiandosi dal grande porto latino di Anzio. Non si dovrebbe avere dubbio nell'individuare una penetrazione ceretana nel Lazio dal mare, tramite un asse Anzio - Satricum - Palestrina. Il quadro generale delle vie commerciali doveva prevedere l'esistenza di infrastrutture collegate con la navigazione e di imbarcazioni più evolute di quelle dell'età del ferro. Lo spazio di territorio tra Caere e il mare presenta verso sud un nucleo di tombe che costituiscono la necropoli di Vaccina, al km 41 dell'attuale via Aurelia e, più a sud, la necropoli di Monteroni, dominata da un imponente tumulo. Si tratta di tombe che segnalano l'esistenza, tra VII e V secolo a.C., di villaggi posti sulla strada che collegava la città al mare e che terminava al porto di Alsium.
Un secondo itinerario, diretto da Caere verso nord, conduceva invece a Pyrgi, lo scalo che, nonostante la distanza maggiore, doveva divenire il più importante porto ceretano a cominciare dal VI secolo a.C. Nel repertorio della ceramica figurata appaiono, a partire dal 700 a.C., vere e proprie raffigurazioni di navi, largamente influenzate dalla ceramica greca tardogeometrica. E' da questa epoca che si fanno più fitti gli scambi tra Caere e il mondo delle colonie greche, Cuma in modo particolare ed è ancora a partire da quegli anni che significative opere in metallo, dì chiarissima ispirazione etrusca, si ritrovano in contesti greci (tombe e santuari) dell'area del golfo di Napoli. Non c'è dubbio, comunque, che le comunità etrusche del VII secolo a.C. fossero molto ricettive nei confronti della cultura greca. L'Etruria meridionale costiera, in particolare, doveva costituire il territorio più aperto a ricevere non solo i prodotti di lusso smerciati dai mercanti greci, ma anche personaggi di rango che preferivano integrarsi nelle comunità locali.
Alalia
A spartirsi l’influenza sul Tirreno centro-settentrionale con gli etruschi vi era soprattutto la potenza cartaginese. La tradizione più consolidata sulla fondazione di Cartagine risale a Giustino che la riprende forse da Timeo di Tauromenio autore del IV sec. a.C. Un gruppo di oppositori al re di Tiro Pigmalione, tra cui sua sorella Elissa, fuggirono prima a Cipro, poi giunti nell'attuale golfo di Tunisi fondarono una nuova città: Qarthhadasht ovvero Cartagine. La veridicità dei nomi e delle vicende è confermata dagli Annali di Tiro conosciuti dalle citazioni indirette di Giuseppe Flavio, autore della Guerra Giudaica. La data più condivisa dagli studiosi è quella dell'814/813 ed il dato archeologico ricavato dagli scavi della città lo conferma: la più antica produzione ceramica cartaginese si può datare intorno all'800 a.C. La posizione strategica del sito collocato su di un promontorio tra due lagune ed in ottima posizione geografica al centro del Mediterraneo, favorirono la sua espansione economica e politica. I phoeni, fenici d'oriente, diventarono poeni, fenici d'Occidente ovvero punici. L'evoluzione ha luogo a partire dal VI secolo a.C. quando la città prima consolida la sua presenza in Africa e poi estende la sua potenza sul mare imponendo l'autorità sugli antichi insediamenti fenici.
Oltre alla conquista di parte dei territori costieri di isole come la Sardegna e la Sicilia, che furono adeguatamente fortificati e resi sicuri, stipulò alleanze e trattati con gli etruschi prima e con i romani poi, per meglio controllare i propri commerci marittimi. Stupisce invece il ritardo nel battere moneta che avvenne in Sicilia solo nel V secolo a.C. e nella stessa Cartagine nel IV secolo a.C. In conseguenza della sua crescita politica ed economica diminuì sempre di più la sudditanza nei confronti della madrepatria Tiro anche se annualmente un'ambasceria continuo a portare doni per il tempio di Melqart. Essa divenne il centro recettore e vettore di tutti gli apporti culturali e tecnologici del Mediterraneo, diffondendo lungo le coste e verso l'interno prodotti e mercanzie provenienti dal Vicino Oriente, Egitto, Grecia ed Etruria. In tal modo la città d'origine e di essenza fenicia si trasformò, sviluppando una propria evoluzione anche nell'organizzazione socio-politica e, per quanto potente, subirà l'effetto dì ritorno sia riguardo il problema dei mercenari nell'esercito, sia degli indigeni sfruttati come mezzadri e respinti nell'entroterra affrontando reiterate rivolte. Dal VI al II sec. a.C, fu al centro degli avvenimenti che interessarono il bacino del Mediterraneo occidentale e parte dell'Oceano Atlantico, per poi essere distrutta e rasa al suolo nel 146 a.C. dalla nascente potenza romana, che la rifonderà successivamente in epoca augustea come Colonia Iulia Concordia.
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Sita all'estremità settentrionale del golfo smirneo, presso le foci della grande via d'acqua dell'Ermo, ponte strategico d'accesso verso la Lidia, Focea nasce nel periodo oscuro della diaspora greca sulle coste dell'Asia, tra l'XI e il X sec. a.C. Etnicamente differenziata nella composizione dei coloni e mescolata con elementi indigeni da età precocissima, la comunità focea rivela una spiccata vocazione marinara e mercantile che, fin dagli inizi del VII secolo a.C., condurrà i suoi mercanti a fondare, nel lontano Ellesponto, l'insediamento di Lampsaco. Le origini stesse della città e gli avvenimenti legati alla fondazione della sua prima colonia ellespontica individuano un modello di rapporti con l'ambiente non greco che si ripropone in Occidente quando Focea, nell'ultimo trentennio del secolo, dà inizio alla sua straordinaria esperienza coloniale e commerciale mediterranea, con la frequentazione dei mercati tartessici e la fondazione nel 600 a.C., di Massalia alle porte del territorio popolato dai galli e dai liguri; e nel secolo successivo, intorno al 565 a.C., con la fondazione di Alalia, sulla costa orientale della Corsica.
I focei commerciarono sui mercati iberici di Tartesso grazie alla buona amicizia del re Argantonio e avviarono i loro traffici alle foci del Rodano attraverso l'amicizia del re stesso; ma l'insediamento di Massalia, dopo appena una generazione, dovette affrontare le ostilità del nuovo sovrano Comano e diventare quella città sempre in armi, sempre all'erta che conosciamo dalla descrizione degli antichi. L'esperienza dei mercanti e coloni focesi, la più tardiva nel quadro dell'espansionismo greco verso Occidente, rappresenta perciò un ottimo osservatorio di studio del rapporto tra la grecità e gli altri, ed insieme il banco di prova della straordinaria industriosità del commercio foceo. Certamente, tra il 600 e la metà del secolo, i focei rivestono un ruolo fondamentale nel Mediterraneo occidentale di movimentazione e distribuzione di merci e materiali provenienti dai mercati più vari e disparati dell'area egeo-orientale e di quelli derivanti dalla frequentazione di già avviati mercati occidentali come quello etrusco.
In questa attività a largo raggio, che alterna il commerci o alla pirateria (le fonti riferiscono che i focei sono gli unici a usare in Grecia, nelle loro navigazioni, navi sostanzialmente da guerra, le pentecontere, adatte alla corsa veloce) i focei si incontrano e si scontrano con importanti concorrenti: se le fonti riferiscono della pacifica presenza focea a Roma, al tempo di Tarquinio Prisco e Servo Tullio, esse parlano anche di ripetuti scontri navali con i cartaginesi, e la grande sfida nelle acque di Alalia, nel 540 a.c. oppone i focei ad etruschi e cartaginesi. La tradizione antica e gran parte della critica moderna, da questa influenzata, sostiene che la peculiare vocazione commerciale dei focei nasca da un modello di insediamento che, rintracciabile nella stessa Focea, si ripete nei suoi avamposti in Occidente: è il modello della città senza territorio, rivolta al mare e allo sfruttamento delle sue risorse a causa della povertà e della ristrettezza della terra, ma anche disinteressata, nelle frontiere mediterranee, all'acquisizione della terra, anche per la costante pressione dei barbari di confine. Oggi la situazione è più fluida e problematica; se gli scavi delle mura di Focea hanno rivelato che questo centro agli inizi del VI sec. a.C. è una delle più grandi città dell'Asia Minore si sottolinea ancora che il modello dell'emporio privo di spazi agricoli può certamente essere valido per una determinata fase di vita di un insediamento, ma non per un'altra e che attitudine commerciale e attitudine agraria possono essere aspetti diversi e complementari di un progressivo sviluppo economico della città, anche di quelle focesi.
Alalia
Tra la fine del VII e gli inizi del VI sec a.C., i focei iniziarono a muoversi nei mari occidentali e orientali. E' lo storico greco Erodoto a ricordarci che tra i primi ad avventurarsi sulle rotte mediterranee ci furono questi audaci mercanti che correvano le acque sulle loro celebri navi pentecontere. Focea, sulle coste dell'Asia Minore, era una città povera di territorio agricolo ma situata in una posizione particolarmente felice per il commercio, posta com'era tra la foce del fiume Ermo, via di penetrazione verso la Lidia. La presenza dei focei a Naukratis sul delta del Nilo, nel più importante santuario commerciale fondato dai greci, è tanto significativa quanto lo sono le citazioni erodotee, per indicarci la vocazione marittima di questa gente. Ed infatti in Occidente la presenza focea è massiccia, dalle coste della penisola iberica a quelle francesi, alla Corsica, all'Etruria.
Le date della tradizione e quelle ricavate dalle indagini archeologiche concorrono per confermare la cronologia della fondazione di Massalia attorno al 600 a.C. Il racconto della modalità dell'insediamento ci fa conoscere un rapporto di ospitalità con i capi delle comunità indigene del posto. Quindi lo stanziamento non avvenne in modo violento e con occupazione di territorio ma si inquadra bene nell'ottica del pacifico scambio commerciale di reciproco comune interesse tra i due partners. Anche a Marsiglia, come a Focea, il territorio non sembra aver giocato un ruolo importante dal punto di vista agricolo. La chòra (la porzione di terra dipendente dalla città) era estremamente ridotta e ristretta alla pianura nelle sue immediate vicinanze. L'importanza fondamentale di Massalia è la sua posizione alla foce di un fiume che costituisce una comoda via di penetrazione verso l'entroterra ed i suoi prodotti ed inversamente porta agevolmente questi prodotti di scambio e di trasporto oltre mare. La via dello stagno, tanto per citare il più ragguardevole dei materiali che giungevano dall'Europa settentrionale, ha in Marsiglia il suo punto di sbocco principale nel Mediterraneo. Non a caso sappiamo che Massalia era governata da un'aristocrazia mercantile in cui il potere oligarchico era concentrato nelle famiglie nobili, con un assemblea di 600 membri ed un consiglio dei Quindici. Non conosciamo molto di Alalia; dai dati a nostra disposizione possiamo solo dire che prima dell'arrivo dei profughi focei non sembra avere raggiunto la dimensione di una vera e propria colonia; solo con la caduta di Focea e l'arrivo massiccio di nuova gente può essere definita, per quei pochi anni che intercorsero prima dell'abbandono, una colonia di popolamento. Altri centri che un tempo erano considerati colonie focee non possono essere considerati effettivamente tali. Le indagini archeologiche hanno dimostrato che in realtà si tratta di insediamenti sotto il controllo e l'autorità dei popoli indigeni e si possono riportare alla tipologia dei ports of trade. L'analisi della situazione porta a individuare come la colonizzazione greca focese in Occidente si mostri allineata sul modello dell'emporià (commercio), piuttosto che su quello della fondazione di colonie di popolamento e vocazione agricola. I focei si innestano su rotte ed ambienti economici già organizzati: in Gallia trovano attivo già da tempo un circuito etrusco che recava nella Francia meridionale (da cui disseminavano nell'interno) anfore vinarie e ceramiche in bucchero. I documentati contatti con i centri etruschi e con la Roma di Tarquinio Prisco palesano chiaramente questo rapporto privilegiato.
La diffusione dei materiali e dei prodotti tipici massalioti (anfore vinarie) si estende poi in tutto il mediterraneo occidentale, dalla Gallia all'Etruria, alla Sardegna, Sicilia e Magna Grecia, a dimostrare il raggiungimento della maturità e dell'autonomia economica della città. Elea (Velia) è l'ultima colonia di creazione focese, ed è stato l'approdo dei greci dopo la battaglia di Alalia. La tradizione scritta conferma quanto già sappiamo: anche in questo caso non si ha un'occupazione di territorio ma un insediamento, mediato attraverso trattative, in un sito dove già esisteva un nucleo abitato. Qui andarono i focei che avevano abbandonato la città di Alalia stesa, dando origine ad una città che rivestì in seguito un importantissimo ruolo culturale nella Magna Grecia.
Alalia
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La potenza degli etruschi prima del dominio di Roma, quindi, era assai estesa, per terra e per mare. I nomi attribuiti al mare superiore e a quello inferiore che circondano l'Italia come un'Isola, possono costituire una prova per quello che può valere. I popoli d'Italia chiamarono un mare etrusco, dalla comune denominazione di quel popolo, l'altro Adriatico, da Adria, colonia degli etruschi; i greci li chiamarono Tirreno e Adriatico.
Questo passo, tratto dalle Storie di Tito Livio ci fa comprendere l'importanza che gli antichi attribuivano al dominio degli etruschi sul mare, nei secoli che vanno dal IX al III a.C. Un altro autore romano, Catone, diceva che, in tempi più antichi, «... quasi tutta l'Italia era in potere degli etruschi... ». Gli scrittori greci, tuttavia, non pongono il dominio sul mare degli etruschi in tempi così lontani ed epici, come fanno gli storici di Roma. I primi, infatti, tendono a considerare il popolo tirrenico come dedito, ai loro tempi, alla pirateria o ad una guerra "di corsa", condotta principalmente nelle zone più "calde" del Tirreno, come il triangolo marino tra l'Elba, la Corsica e la costa italiana, o come la zona dello stretto di Messina, ricca di intensi traffici commerciali greci. Comunque sia andata nella realtà, queste azioni avevano condotto le flotte etrusche a un vero dominio sul mare, la famosa "talassocrazia", che le navi di Siracusa interruppero, ma non distrassero nella battaglia navale di Cuma, in Campania, nel 474 a.C. La fama negativa che più tardi gli storici greci attribuirono ai cosiddetti "pirati" etruschi va comunque rivista. Tucidide, nel V secolo a.C., dice sull'argomento «...in antico i greci e i barbari che abitano lungo le coste del continente e delle isole, quando incominciarono a intensificarsi i traffici sul mare, si diedero alla, pirateria. Uomini forti erano i capi e cercavano di ottenere guadagni per loro stessi e sussistenza per le genti che non combattevano. Calando all'improvviso sulle città prive di difesa, ancora senza mura e sulle popolazioni che vivevano sparse in villaggi, si davano al saccheggio traendo in questo modo, per la maggior parte, i mezzi per la propria sussistenza. A quei tempi un tipo di attività di tal fatta non comportava vergogna; al contrario, era motivo di gloria. Lo provano ancor oggi alcune popolazioni del continente le quali si vantano di esercitare abilmente la pirateria. Anche gli antichi poeti lo confermano, ovunque accada ai loro eroi di approdare in un luogo, è loro rivolta sempre la stessa domanda: se siano pirati. Coloro che sono interrogati non respingono l'ipotesi di una tale occupazione come indegna e coloro che interrogano non sembra no considerarla ingiuriosa o disdicevole. Anche sul continente si esercitava la pirateria e anche nei tempi attuali in molte regioni della Grecia si vive nel modo antico, come per esempio tra i Locri Ozoli, fra gli Etoli, fra gli Acarnani e nella regione circostante. » L'equivalenza Tirreni = pirati nota soprattutto a partire dal IV secolo a.C., viene quindi vista dagli storici ellenici come un'attività connessa ai commerci sul mare e come forma organizzata di espansione; una pratica consolidata nel tempo, presente in Etruria già in epoche precedenti, sia nella società aristocratica del VII secolo a.C. sia in quella compiutamente urbana del VI secolo a.C.
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I testi delle lamine di Pyrgi, una delle scoperte archeologiche più importanti per la cultura etrusca sono stati pubblicati da tempo ormai, e i professori Pallottino, per le iscrizioni etrusche, e Garbini, per quelle puniche, ne diedero una traduzione che, seppur non definitiva (almeno per quanto riguarda l’etrusco), rileva la eccezionalità dei documenti in questione. Soprattutto le due iscrizioni etrusche, infatti, oltre ad arricchire il patrimonio epigrafico che possediamo del popolo tirrenico, costituiscono la prima indiscutibile testimonianza di un personaggio storico d’Etruria e ci permettono di valutare meglio avvenimenti politici il cui ricordo ci è stato tramandato in forma frammentaria e confusa da varie fonti greco-romane. È bene chiarire subito che il contributo delle due iscrizioni etrusche alle nostre conoscenze della lingua tirrenica non è, almeno sino a questo momento, notevole almeno quanto si sperava potesse essere, e che solo il parallelismo con il testo punico ci ha permesso di afferrarne il senso generale. Il vocabolario etrusco-italiano, in definitiva, non si è arricchito di nuovi termini e solo in un caso il Pallottino crede di veder confermata con certezza la giusta interpretazione di parole già riconosciute in altre iscrizioni (masan tiurunias = nel mese di Masan). Molto più importante è invece l’accenno al personaggio Thefarie Velianas, indicato nell’iscrizione punica come «re di Caere» (MLK ‘L KYŠRY’), e il valore storico che può essere dato alle tre epigrafi. Thefarie Velianas, come abbiamo già osservato, è il primo alto magistrato etrusco di cui possediamo una prova sicura di esistenza. Prima di lui conoscevamo solo i nomi di personaggi tramandatici da fonti tradizionali: i fratelli Vibenna, Lars Porsenna, Mastarna, i due Tarquini. L’importanza di quest’acquisizione è notevole soprattutto per il periodo storico in cui il Velianas agisce: gli anni 500-490 a.C., quando cioè l’Etruria, travagliata da una crisi profonda di carattere istituzionale, assistono al passaggio dall’ordinamento monarchico a quello repubblicano e di cui ci è rimasto ricordo nell’episodio della cacciata dei Tarquini da Roma (509). Thefarie Velianas è indicato come «re di Caere» nell’iscrizione punica, ma il Pallottino ha avanzato l’ipotesi che l’espressione MLK indichi soltanto l’alta magistratura rivestita dal personaggio. Di un Caeritum regem abbiamo menzione anche negli Elogi Tarquiniesi che però non ci è stato possibile collocare nel tempo. Piuttosto sembra logico vedere in Velianas un corrispettivo etrusco di quegli Aristodemos, Hippokrates e Anaxilaos che esercitarono la tirannia, nello stesso periodo, rispettivamente su Cuma, Gela e Regio. Senza considerare i Magonidi di Cartagine e il secondo Tarquinio di Roma. Di Thefarie Velianas è interessante lo stesso nome proprio: la presenza di un Thefarie nel VI secolo richiama alla mente il Thebris veiente e il Tiberinus albano, eponimi del Tevere, lasciando supporre l’esistenza di un filone leggendario etrusco concernente un mitico Thebris, alterato e confuso dalle tradizioni romane. Sul piano storico-politico, le lamine di Pyrgi contribuiscono non poco a riordinare le frammentarie notizie pervenuteci sul conflitto greco-punico per il controllo del Tirreno. Il ricordo della battaglia di Alalia, di Himera, di Cuma, conservatoci dagli scrittori greci, e la notizia aristotelica dei «trattati di alleanza» fra Cartagine e le città d’Etruria (e allo stesso periodo è databile anche il trattato fra Cartagine e Roma, riferito da Polibio), testimoniavano già gli stretti legami esistenti alla fine del VI secolo e agli inizi del V fra etruschi e punici. Le lamine ne sono una conferma inoppugnabile. L’omaggio di Thefarie Velianas alla dea Astarte è stato interpretato sia come una manifestazione di simpatia per l’alleato, sia come dimostrazione vera e propria di sudditanza. Il noto filo-ellenismo di Caere – unica città etrusca a possedere un proprio thesauros a Delfi – potrebbe aver indotto i cartaginesi, nel pieno conflitto per il controllo del Tirreno, ad imporre un tiranno filo-punico all’importante centro dell’Etruria Marittima. Le disfatte di Himera e di Cuma dovrebbe aver permesso al partito filo-ellenico di Caere di sottrarre la città al controllo punico: testimonianza di questo rovesciamento di alleanza sarebbe appunto l’epurazione subita dalle lamine auree, distaccate e celate in una «vasca». L’ipotesi è suggestiva e forse non del tutto infondata. Nelle lamine di Pyrgi, la storia d’Etruria ha trovato testimoni preziosi e l’archeologia un ulteriore incentivo ad abbandonare le necropoli per impegnare le proprie energie nelle zone urbane, dove soltanto potremo ritrovare gli etruschi e conoscere i segreti che ancora ci nascondono la loro vicenda.
Di seguito le traduzioni delle iscrizioni etrusche; Iscrizione etrusca A: Questo è il tempio (o sacello) e questo è il luogo del simulacro??, dedicati a Uni-Astarte: Thefarie Velianas (o qualcuno in rapporto o insieme con lui stesso) l’ha donato; rispettivamente per ciò che (o per chi) spetta a ciascuno dei luoghi??, un’offerta per essere stato egli innalzato?? Così tre anni… (e) un’offerta per… (un fatto connesso con il magistrato del tempio, o con la residenza del supremo magistrato??)… Seguono riferimenti al simulacro??? E agli anni (relativi)…;
Iscrizione etrusca B: Così Thefarie Velianas ha fondato (il tempio, o simili), ha disposto un’offerta nel mese di Masan, (ed) è stata la cerimonia annuale (o anniversaria) del tempio (o simili)
Alalia
La prima nave greca su cui si abbiano informazioni di un certo carattere tecnico è il «pentecontoro», la quale ha su ogni lato due file di 25 remi. Questa nave non poteva essere inferiore ai 25 m, per i soli posti dei rematori, aggiungendovi poi lo spazio a poppa e a prora, cosicché è probabile avesse una lunghezza di circa 30 m. Il primo problema costruttivo che si presenta per questo tipo di navi è quello della chiglia, la quale non poteva essere fatta con un unico pezzo di legno, data l'altezza normale degli alberi della zona mediterranea. Il materiale usato normalmente era legno di abete, di larice o di cipresso, con una notevole preferenza per il «pino rosso». Dato questo materiale, quando la nave veniva impostata in cantiere, bisognava anzitutto costruire solidamente la chiglia, con giunti a indentature atte a tenere il mare. Impostata la chiglia, vi venivano attaccate le coste, sulle quali venivano inchiodate te fiancate dello scafo.
Parallelamente alla chiglia potevano stabilirsi sistemi di fasciame differenti secondo i periodi e le tecniche relative. A proposito degli ordinamenti militari si tratteranno più dettagliatamente i tipi di navi da guerra. Invece la nave mercantile aveva necessariamente un ponte che copriva completamente Io scafo e un castello di poppa, in cui era sistemata una cabina per l'alloggio dell'equipaggio. Le prore delle navi mercantili erano estremamente semplificate e non avevano altro che una voluta in forma di collo di oca; il diritto di poppa si curvava all'indietro in direzione della prora e vi veniva sistemata una scala che fungeva da barcarizzo, un'ancora sussidiaria, oltre a quella sistemata a prora, e vi si aggiungeva l'immagine di un dio o di un eroe. Nelle grosse navi mercantili vi era un albero permanente e il timone era formato da due grandi pale costruite come remi, situate dalle due parti del dritto di poppa. La vela era di tela e qualche volta era fatta di pelli cucite. Le navi mercantili potevano navigare normalmente a una velocità dai tre ai quattro nodi, compiendo, fra giorno e notte, 96 miglia. Da Abdera alle foci del Danubio si poteva navigare, secondo Tucidide, in quattro giorni e quattro notti, mentre per terra sarebbero occorsi undici giorni. La circumnavigazione della Sicilia, sempre secondo Tucidide, avrebbe potuto essere fatta in otto giorni. Un comandante situato a poppa ed un ufficiale inferiore, che trovava posto a prora, dirigevano l'equipaggio, composto da circa 30 uomini, addetto alla manovra della vela e alla difesa della nave. Il proreuta, oltre che al compito di vedetta assolveva la funzione di aulete, fondamentale per dare la cadenza durante il remeggio. Una passerella con parapetti di vimini, protetti talvolta da scudi correva sopraelevata al centro della nave tra i due banchi di rematori e permetteva le comunicazioni tra poppa e prua. Lo spazio a bordo era veramente limitato poiché ogni rematore aveva a disposizione non più di un metro quadrato. In particolare, al raggio d'azione del remeggio era dedicato uno spazio che non superava gli 80/90 cm.
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I tipi di navi da combattimento che le fonti antiche ricordano riguardo alle flotte cartaginesi sono fondamentalmente il pentecontoro (gr. pentekóntoros), la triera (gr. triéres, lat. triremis), la tetterà (gr. tetréres, lat. quadriremis) e la periterà (gr. pentéres, lat. guinqueremis). La definizione delle loro forme, struttura, dimensioni e armamento nell'ambito culturale punico non è semplice: queste tipologie navali restano per noi spesso soltanto dei nomi, e per di più dei nomi che gli scrittori greci e latini applicavano sia al contesto delle marine greche e romane, sia a quello delle marine puniche. Con l'intenzione di non incorrere in semplicistiche considerazioni su una generalizzata «omogeneità» del panorama nautico mediterraneo, cercheremo di considerare quanto ci è noto del più documentato mondo greco per metterlo in relazione con l'evidenza relativa al contesto punico, individuando gli elementi che possano risultare caratteristici di quest'ultimo. E sarà anche necessario il confronto parallelo con i dati disponibili sulla marina militare fenicia. II pentecontoro, come già accennato, era in origine una nave con un solo ordine di cinquanta remi, venticinque per lato, azionati da cinquanta rematori. Con questo nome è identificata la principale categoria di navi da guerra che componeva le flotte del Mediterraneo nell'epoca geometrica e arcaica: Tucidide (I, 14, 1) ricorda che prima delle guerre persiane le flotte erano principalmente composte da pentecontori e da «navi lunghe». Con ogni probabilità i cartaginesi utilizzarono i pentecontori nelle battaglie navali contro i focesi, sia nello scontro presso Massalia, verso il 600 a. C., sia nella battaglia «del Mar Sardo», intorno al 540-535 a.C., benché le fonti non ne facciano esplicita menzione. Con sessanta pentecontori Annone compì il suo celebre periplo dell'Africa occidentale nel V sec. a.C., ma navi di questo tipo sono ricordate nelle flotte cartaginesi ancora nel IV e nel III sec. a.C. (rispettivamente da Diodoro, XIV, 73, 2 e Polibio, I, 73, 2), anche se in questi ultimi secoli dovevano ormai rivestire un ruolo di secondo piano rispetto alle altre unità di linea.
Queste considerazioni derivano dall'evidenza storico-archeologica di ambito greco. Al contrario, non sappiamo con certezza quale aspetto avessero i pentecontori punici, poiché manca la documentazione iconografica. Possiamo ipotizzare che gli autori greci abbiano dato il nome di pentecontori a quelle navi fenicie e puniche che per tipologia assomigliavano ai pentecontori greci. Ma questa semplice constatazione non risolve il problema e, soprattutto, non esclude l'esistenza di differenze tecniche e strutturali che l'iconografia permetterebbe di apprezzare, tenendo anche presente, come si è detto, che il termine pentecontoro assunse presto un significato generico. La definizione del pentecontoro cartaginese, dunque, resta aperta. Proponiamo come ipotesi di lettura che la parola rifletta effettivamente un rapporto di somiglianza tra la nave greca e quella punica, che poteva essere indicativo della classe di appartenenza ma da cui non traspaiono eventuali differenze di tipo strutturale. Differenze che in qualche misura dovevano esistere e che relazionarono la tradizione punica con quella fenicia, non solo nell'epoca arcaica. Non possono aiutarci a chiarire il problema le interessanti raffigurazioni navali presenti in contesti libici e della Tunisia settentrionale, che risultano di difficile definizione a livello sia culturale sia cronologico. Si tratta verosimilmente di navi da guerra, come confermano la presenza di uomini armati a bordo della nave di Kef el-Blida e il probabile rostro rappresentato dal prolungamento della chiglia oltre la ruota di prua nella nave del Magsbaìa. In realtà anche l'appendice di prua della nave di Kef el-Blida, oggi non più ben visibile a causa del deterioramento della pittura, potrebbe essere interpretata come un rostro, di forma particolare, che richiama la prua di una più tarda iconografia navale punica, come quella della Grotta Regina presso Palermo. Questo tipo di rostro, dal profilo triangolare, sarebbe stato costituito da una ruota di prua rettilinea e molto inclinata in avanti, verso il basso, che giungeva a innestarsi sul prolungamento della chiglia. Tuttavia, data la forma in cui compaiono, è possibile che questi oggetti non rappresentino dei veri e propri rostri destinati allo sfondamento della carena, ma degli pseudorostri, cioè degli oggetti che all'occasione potevano servire anche per colpire una nave nemica, per danneggiarne i remi e scuoterne lo scafo, compromettendone la capacità di governo (dunque, con un'azione diversa da quella di un rostro classico), ma che avrebbero svolto principalmente la funzione di tagliamare e di struttura protettiva dell'estremità di prua. In questo caso, naturalmente, andrebbe riconsiderata anche la funzionalità specifica delle navi di Kef el-Blida e della Grotta Regina che, all'interno di una flotta militare e durante le operazioni di guerra, avrebbero avuto un ruolo diverso da quello delle unità da combattimento dotate del vero e proprio rostro «da sfondamento».
In conclusione possiamo quindi affermare che i costruttori navali cartaginesi lavorarono alla ricerca di una potenza di spinta sempre maggiore, incrementando il numero dei remi senza allungare troppo gli scafi per ottenere il miglior rapporto tra la velocità, la manovrabilità e le dimensioni delle navi da guerra. Per questo motivo, già nei pentecontori la distanza tra i remi, era ridotta al minimo, al limite di quella necessaria perché ciascun rematore potesse svolgere la sua azione. Si determinò così quell'evoluzione che dal pentecontoro-diera condusse alla triera, la nave da guerra con tre ordini di remi: in rapporto al più piccolo penecontoro a cinquanta remi disposti su due livelli, l'allungamento dello scafo, l'aumento del peso e il maggior pescaggio della triera avrebbero ridotto la capacità di accelerazione e la rapidità in virata, ma avrebbero consentito, grazie a un numero di rematori più che triplicato, di aumentare notevolmente la velocità di navigazione e l'effetto distruttivo del rostro.
Alalia
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Iniziando ad esaminare i numeri della battaglia di Alalia, si è sottolineato che il nucleo fondamentale degli equipaggi punici, in linea generale, era probabilmente composto dai cittadini cartaginesi e dalle popolazioni dei centri marittimi che rientravano sotto il controllo amministrativo di Cartagine. Le notizie sugli arruolamenti avvenuti al di fuori dì questi settori geografici durante la seconda guerra punica non modificano sostanzialmente il quadro generale e sembrano testimoniare dei fatti episodici. A questo punto è necessario analizzare un altro fattore di primaria importanza: quello delle risorse umane a cui lo Stato cartaginese poteva attingere per equipaggiare le flotte. Le considerazioni al riguardo devono tener presenti due aspetti principali: da un lato il numero degli uomini necessari per l'allestimento di una fiotta, anche in funzione di impegni militari ripetuti a distanza di pochissimo tempo e alla necessità di sostituire velocemente le perdite con nuovi arruolamenti, dall'altro la disponibilità demografica di cui potevano disporre Cartagine e i suoi territori, opportunamente considerata in relazione agli uomini utili per il servizio nella flotta. In entrambi i casi, e particolarmente nel secondo, la documentazione storica è tutt'altro che esaustiva e permette di avanzare solo delle ipotesi finalizzate a individuare delle linee di tendenza generali. L'allestimento di una flotta militare rappresentava, e rappresenta, uno sforzo grandissimo per io Stato. Oltre alle migliaia di uomini impiegati direttamente a bordo delle navi era necessario un massiccio impegno di carattere logistico, che doveva supportare, tra l'altro, i cantieri per la costruzione, la riparazione e la manutenzione degli scafi, la gestione dei porti militari, i rifornimenti, il coordinamento, l'amministrazione, nonché il reperimento del legname. Gli arsenali erano in grado di costruire un numero elevato di navi in tempi brevissimi, come ricordano in diverse occasioni le fonti storiche, fatto che implica la disponibilità di molte maestranze specializzate (carpentieri, calafati, fabbri, cordai, tessitori, ecc.) e di una grande quantità di materiali.
In base a questi elementi, per valutare il numero approssimativo delle persone abili al servizio militare dovremo considerare che il 50% circa della popolazione sarà stato composto da uomini, tra i quali andranno inseriti i bambini e gli anziani, oltre a tutte quelle persone che erano impegnate come appena accennato, nelle attività di servizio, anche di carattere militare (arsenali, rifornimenti, logistica). Una parte degli uomini, inoltre, avrà prestato servizio negli eserciti. La percentuale di popolazione maschile disponibile per la chiamata alle armi, o piuttosto ai remi, andrà pertanto ulteriormente ridotta, ipoteticamente del 50%. Si potrebbe quindi proporre che soltanto un quarto della popolazione globale sarebbe stato disponibile per il servizio nella flotta (disponibile, ma non necessariamente impiegato a tale fine nella sua totalità). Per giungere ad un numero approssimativo si è ipotizzato che nel VII sec. a.C. la città di Cartagine contasse circa 30.000-35.000 abitanti. Nel secolo successivo, in cui è probabile che sia avvenuto un incremento demografico, si collocano le prime notizie sull'attività militare della marina cartaginese e in particolare quella relativa alla battaglia «del Mar Sardo» (540-535 a.C.). Allo scontro prese parte una flotta cartaginese composta da sessanta navi (Erodoto, I, 166), verosimilmente dei pentecontori, il tipo di nave da combattimento caratteristica dell'età arcaica, utilizzato anche dagli avversari focesi. In origine il termine greco «pentecontoro» indicava come detto una nave con cinquanta remi, venticinque per lato, manovrata da cinquanta rematori. Ma già in epoca arcaica questo termine perdette il suo significato letterale, poiché conosciamo pentecontori con due ordini di remi e con equipaggi che potevano contare fino a un centinaio di rematori, oltre a una trentina di uomini tra marinai e ufficiali. Con l'impiego di questi pentecontori più grandi, la flotta cartaginese che intervenne nella battaglia «del Mar Sardo» avrebbe impegnato circa 7000-8000 uomini di equipaggio. La cifra rientra nel quarto della popolazione globale della città, cioè in quella porzione costituita dagli uomini che potevano prestare servizio nella flotta, secondo quanto accennato in precedenza. Le risorse umane della sola Cartagine, dunque, sarebbero state sufficienti per sostenere questa spedizione.
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La composizione ed il numero degli equipaggi delle pentecontere focee partecipanti alla battaglia di Alalia hanno costituito lo spunto per tentare di ricostruire il numero degli abitanti dell'antica città. Il presupposto di questo computo è stato che ai remi fossero applicati tutti uomini liberi e che tutti fossero dei capifamiglia. Tuttavia se questo assunto fosse corretto, poiché lascio immaginare cosa sarebbe successo se si fosse trattato di schiavi e se uno tra questi avesse improvvisamente interrotto il remeggio, per quanto riguarda il secondo, ciò presupporrebbe un numero spropositato di cittadini. Infatti se ci si limita al conteggio del personale imbarcato, 80 capi-famiglia per 60 pentecontere avrebbe implicato la presenza ad Alalia di 4800 famiglie e quindi considerando un minimo di 4 persone per ogni nucleo familiare, di circa 20.000 abitanti, cioè di un numero improponibile per l'epoca.
Inoltre, il trasporto via mare di una tale quantità di persone utilizzando le pentecontere, che notoriamente avevano poco spazio a bordo, avrebbe implicato l'uso di una flotta di enormi proporzioni. E' quindi possibile che i focei di Alalia, quali rematori per le loro navi non abbiano impiegato esclusivamente dei capi-famiglia, come suggerito da Michel Gras, ma più membri per ciascun nucleo familiare, così come per il trasporto degli abitanti dopo la battaglia siano state utilizzate non le pentecontere bensì alcune olkades, certamente più capienti e senza dubbio più confortevoli per le donne e per i bambini.
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Sintetizzando quanto detto finora, possiamo capire quanto nel VI secolo a.C., i proficui scambi commerciali marittimi accrescevano sempre più il benessere economico degli etruschi, ampliando i rapporti con le altre civiltà, specialmente quella greca. I greci, attraversando con le loro navi di piccolo cabotaggio il mare degli etruschi, avevano fondato, alle foci del Rodano, la colonia di Massalia, l’attuale Marsiglia. Era all’incirca il 600 a.C. Per salvaguardare i loro commerci, gli etruschi avevano bisogno di una forza marittima idonea a fronteggiare qualsiasi sfida. Essi si allearono dunque con Cartagine, e insieme si spartirono il dominio sui mari, proteggendo i loro commerci dall’intrusione greca che, dopo la fondazione di Massalia, aveva messo in crisi la fiorente attività di scambi tra Tirreni e popolazioni della Provenza e della Catalogna. Quando il satrapo persiano Arpago assoggettò le città greche dell’Asia Minore, i focesi decisero di lasciare le loro case e di abbandonare Focea, la loro città stato, situata nei pressi di Smirne nell’attuale Turchia. Salparono così verso Occidente per raggiungere i loro connazionali che avevano colonizzato la Corsica fondando la città di Alalia, poi Aleria.
Ma questo, secondo la testimonianza di Erodoto, avrebbe provocato a breve una svolta negli equilibri di potere tirrenici. Accadeva infatti che: « questo nucleo di immigrati particolarmente avventurosi ed irrequieti, prenderà subito a minacciare con incursioni di rapina le zone circostanti, cioè l'Etruria e la Sardegna, sulle cui coste settentrionali deve essersi ora estesa un'ulteriore tappa della progressione focea con quell'impianto di Olbia di cui resta il ricordo soltanto del nome » Le due potenze con interessi commerciali nell'area Tirrenica, Etruria e Cartagine, furono stimolate ad associarsi per far fronte comune alla pressione commerciale delle colonie Ionie d'Occidente. Gli etruschi, in particolare, negli ultimi decenni del VI secolo a.C., stavano mettendo in piedi una propria alternativa alle rotte mercantili dominate dai coloni greci in Occidente che, attraverso l'Adriatico, stabilisse un diretto contatto con Atene, l'Attica e con l'Egeo. Risale inoltre al VI secolo a.C. una symmachia etrusco-cartaginese, di cui abbiamo notizia da Aristotele. L'esistenza di una stretta interrelazione punico-etrusca è confermata dai risultati dell'archeologia che hanno rivelato l'esistenza di intensi interscambi e influenze culturali e mercantili a Cartagine e in vari centri di Sardegna, Lazio, Etruria meridionale, Campania e gallia meridionale, in un'epoca che va, a seconda dei ritrovamenti, dall'VIII fino alla metà del VI secolo a.C.
Il banco di prova di questa alleanza fu proprio la guerra portata contro Alalia, per ridimensionarne l'attivismo commerciale dei focei nel Tirreno e porre fine alle loro scorrerie piratesche. Fu così che nel 540 a.C. ci si avviò alla battaglia navale di Alalia, lungo le coste della Corsica, che si sappia, la prima autentica battaglia di questo genere. Il fatto ebbe tale risonanza, nel mondo antico, che anche Erodoto (V secolo a. C.), lo storico greco, ne parla nelle sue storie, Libro I/166: «Ma poiché (i focesi) molestavano e depredavano tutti i popoli vicini, I Tirreni (gli etruschi) e i cartaginesi, di comune accordo, mossero loro guerra con 60 navi ciascuno. I focesi allora, armate anch’essi le loro navi, che erano 60, affrontarono i nemici nel mare detto di Sardegna.» Non ci è dato di sapere quante e quali altre città etrusche presero parte all’accordo oltre Cere; ciò non toglie che nel 540, in autunno (stagione in cui gli antichi interrompevano la navigazione in vista delle imminenti tempeste), una grossa flotta etrusca, forte di 60 navi Pentecontoro da 50 remi l’una, salpò da Pyrgi, l'antico porto di Cere.
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Con la brezza del mattino la flotta cerite navigò tra l’Isola del Giglio e Giannutri, costeggiò l’Isola di Montecristo e da qui rapidamente giunse in vista della Corsica. Navigando lunga la costa Corsa verso sud, passò di fronte ad Alalia e probabilmente fu notata dalle vedette focesi. La flotta etrusca non trovando di fronte ad Alalia quella cartaginese per muoversi insieme contro la città nemica, continuò la navigazione verso sud, verso le isole Cerbicales, incontro alle navi cartaginesi. La flotta cartaginese, salpata dagli empori sulla costa sarda con 60 navi, aveva preso la navigazione verso nord la mattina dello stesso giorno, per unirsi alle navi etrusche ed agire insieme contro Alalia. Ma probabilmente, nel risalire il Tirreno lungo la costa, subì dei ritardi a causa del vento contrario e della corrente discendente dalla Corsica, particolarmente violenta all’altezza delle Bocche di Bonifacio e questo rallentò la navigazione. Probabilmente le vedette greche avvistarono le navi etrusche e, messa in allarme la flotta, munirono di equipaggio e di armi le navi da guerra, salpando dal porto di Alalia con 60 pontecontere. Disponendosi subito a battaglia, si dettero all’inseguimento della flotta cerite, strisciando come il vento sul “filone” di corrente discendente verso sud che lambisce le coste orientali della Corsica, per impedire il congiungimento delle due flotte nemiche. La flotta focese riuscì ad arrivare alle isole Cerbicales prima dell’unione delle flotte etrusca e cartaginese, impedendo loro di approntarsi in posizione favorevole per muoversi insieme contro la città di Alalia.
Lo scontro quindi va diviso in più fasi: in una prima sezione possiamo immaginare come sfruttando la corrente ed i venti favorevoli, la flotta greca sia riuscita ad imporre severi danni alle navi etrusche sventrando, inizialmente, un buon numero di navi dei tirreni che attendevano ancora l'arrivo degli alleati punici.
Gli etruschi, sorpresi da questo repentino attacco, e ancora in attesa degli alleati punici, non poterono far altro che subire l’azione greca, almeno in questa prima fase.
In seguito, l'arrivo della flotta cartaginese cambiò le carte in tavola. Una parte delle navi focesi dovette quindi occuparsi delle nuove forze nemiche accorrenti che però, continuando a procedere contro corrente, non potevano rappresentare da sole una svolta definitiva per le sorti dello scontro.
Grazie alla direzione del vento, ancora una volta i vantaggi erano tutti dalla parte focese, potevano cogliere sui fianchi e speronare tutte le navi nemiche e tentare non solo di prenderle d'infilata, ma anche di tentare la classica manovra a tenaglia della scuola navale greca, ossia il diekplous.
Ma per quanto potessero sfruttare i vantaggi di manovra determinati da venti e correnti, i focesi si ritrovarono contro un nemico dal numero soverchiante ma soprattutto si trattava di affrontare un nemico al quale, una volta perso il vantaggio della spinta iniziale, si dovette pagare un pesante pegno. I rostri dei pentecontori greci ad Alalia divennero, come normale per quell'epoca, in gran parte inutilizzabili dopo il primo impatto, e per quanto abili nel manovrare anche nelle condizioni più difficili i focesi, incapaci di recare ulteriori offese alle navi tirreniche dovettero subire le manovre e gli arrembaggi degli avversari ceriti.
Come confermato da Erodoto stesso delle 60 navi focesi ben 40 vennero distrutte dai punici e soprattutto dagli etruschi i quali, all'altezza della propria reputazione di pirati, e dotati di rostri diversi da quelli focesi, si dimostrarono maestri nelle fasi di assalto alle navi nemiche senza necessariamente affondarle. A differenza di quelli focesi, infatti, i rostri etruschi non si piegavano e rompevano al primo impatto anzi; pensato più per tentare di agganciare le navi nemiche che per affondarle, i rostri etruschi permisero quindi ai folti equipaggi conenuti a bordo dei larghi scafi ceriti, di darsi all'arrembaggio delle imbarcazioni nemiche che non avevano a bordo lo stesso numero di combattenti. Precursori di quella che sarà la tattica romana a Milazzo ma senza aver introdotto l'uso dei corvi, i Tirseni si ritrovarono a dover affrontare comunque un numero di perdite iniziale e a dover necessariamente accettarle, in quanto, non disponendo di ponti mobili da calare in fase di affiancamento dovettero comunque tentare uno speronamento "classico" per tenere agganciata la nave nemica prima di poter far entrare in azione i propri fanti armati a bordo.
In ultima analisi, aggiungiamo che non si hanno notizie delle perdite o delle fasi di svolgimento dello scontro che coinvolse le navi greche e puniche, ma il fatto che le fonti confermano come siano stati gli etruschi a trasportare le navi prigioniere verso i propri lidi e considerando anche che le tattiche navali cartaginesi e greche per lo più coincidevano, possiamo immaginare come una volta assestati i primi colpi ferali alle navi puniche e appena notato quanto accadesse sul versante "etrusco", le forze focesi che si erano precipitate contro gli alleati dei Tirreni decisero di abbandonare lo scontro e di far rotta verso la città dalla quale erano partiti prima appena viste le prime perdite che provenivano anche dalle imbarcazioni cartaginesi
La battaglia fra le 180 navi fu comunque accanita e la vittoria fu in definitiva degli etruschi, e non come riferisce il “partigiano” Erodoto, dei greci. È vero comunque che la flotta focese, arrivando quasi all’improvviso nel punto dello scontro a gran velocità, spinta dalla corrente e forse anche dal vento favorevole, riuscì a squarciare con i rostri, al primo urto, il fasciame di un gran numero di navi avversarie. La vittoria ottenuta dalle forze cerite e puniche risultò così decisiva nel panorama tirrenico, da indurre i greci ad una fuga repentina da luoghi che erano, per le loro mire, strategicamente fondamentali; si hanno ben poche note dell'espansione focese dopo lo scontro di Alalia. Come fattori scatenanti della vittoria degli alleati nelle acque del Mar Sardo vanno notate: le innegabili qualità manovriere puniche ed etrusche, il numero soverchiante rispetto ai focesi, ma dobbiamo notare soprattutto la capacità di portare lo scontro, anche a prezzo di elevate perdite, in un campo in cui soprattutto gli etruschi si sentivano maestri: quello dello scontro a bordo; un tipo di combattimento al quale, per mare, i greci non erano del tutto avvezzi. Dalla somma di questi fattori potrebbe in effetti pervenire il risultato della battaglia di Alalia. Per fare invece il “punto archeologico” della parte di mare dove avvenne la battaglia, bisogna seguire Erodoto, anche se egli ci informa soltanto che ciò avvenne, in senso molto ampio, nel mare di Sardegna. Nel mondo antico per questo mare si intendeva non solo quella parte del mar Tirreno davanti alla Sardegna, ma con significato più ampio anche quello davanti alla Corsica.
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Data l'esiguità delle fonti è arduo riuscire a quantificare i numeri relativi alle perdite subite durante lo scontro ad Alalia. Se è stato sottolineato come 40 navi greche fossero cadute nelle mani etrusche nessun accenno viene fatto a quante navi alleate siano state affondate nella acque tra Corsica e Sardegna. Difficilmente crediamo possibile che ognuna delle 60 navi greche al primo assalto sia riuscito ad andare a segno con i rostri intatti, anzi il fatto che una parte delle forze greche abbiamo poi tentato di incontrare la sopraggiungente flotta punica conferma che non tutti i remi focesi fossero andati a bersaglio nel primo impatto con gli etruschi, fattore che ricordiamo avrebbe seriamente danneggiato, se non reso inutilizzabili, i rostri greci. Considerando la descrizione appena fatta delle fasi dello scontro possiamo quindi affermare come le vere perdite subite dalla flotta alleate siano pervenute solo al primo impatto e non dovrebbero essere state concretizzate oltre il 30-40 % dell'effettiva potenzialità navale focese, quella di 60 navi, il che ci riporta ad un potenziale di 20-25 navi alleate affondate nelle acque di fronte ad Alalia.
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La battaglia di Alalia suggellò la potenza marittima degli etruschi sui mari, la cosiddetta “Talassocrazia dei Tirreni”. Mai prima di allora i greci si erano ritrovati di fronte una flotta così massiccia. D’un sol colpo fu spazzata via la minaccia Greca nella parte settentrionale del Tirreno. In Corsica, gli etruschi ormai in possesso del settore orientale dell’isola, fondarono una nuova città presso Alalia: Nikaia (Vittoria) che l’archeologia recente ha localizzato nell’attuale paese di Casabianda presso Aleria, tra il fiumiciattolo Cagnone e la costa Tirrenica. Da quel giorno e per un lungo periodo di anni i vincitori di Alalia rinnovarono il loro patto di unione, vincolandosi economicamente con un trattato commerciale più ampio per la spartizione del Mediterraneo Occidentale, dividendolo in aree d’influenza cartaginese ed etrusca.
Gli scrittori antichi raccontano che i cartaginesi e gli etruschi dopo la battaglia di Alalia tirarono a sorte la ciurma delle navi catturate e la maggior parte dei prigionieri cadde sotto il giogo dei ceretani che li portarono in Etruria e li lapidarono a morte. Tale soluzione era cosa piuttosto comune nell’antichità, ma si racconta che gli Dei in quel caso disapprovassero gli abitanti di Cere. Erodoto racconta infatti che gli abitanti e persino il bestiame di questa città, allorquando passavano sul luogo funesto dove avevano commesso la lapidazione fossero presi improvvisamente da visioni paralizzanti e storpiamenti. I cittadini di Cere mandarono allora un’ambasceria a Delfi dove fu imposto loro di istituire feste annuali con cerimonie religiose, giochi e corse di cavalli in onore dei focesi morti. I cartaginesi rivolsero la loro attenzione alle Baleari, alla Spagna e alla Sardegna che colonizzarono ma che non sottomisero mai interamente. Gli etruschi invece controllarono il Tirreno: grazie ad un’iscrizione-elogio scritta in latino trovata a Tarquinia, siamo a conoscenza di un’impresa marittima contro la Sicilia effettuata nel secolo successivo (413 a.C.) e condotta da uno “Zilath-Praetor” tale Velthur Spurinna. Il possesso di parte della Corsica, la quasi simultanea colonizzazione della Valle del Po e della Campania, segnarono la più grande estensione del cosiddetto “Impero etrusco”; ma ciò non fu mai un impero nel senso moderno e neppure nel senso greco, cioè comandato da una sola città, perché le città etrusche furono sempre, possibilmente, indipendenti l’una dall’altra. La Lega delle Dodici Città dell’Etruria era di carattere più religioso che politico. Non sappiamo neppure se le città al di fuori dell’Etruria fossero vere colonie nel senso greco, dominate da una città etrusca o dall’alleanza di due o tre città, o se piuttosto fossero il risultato dell’iniziativa politica di individui scontenti del sistema di vita nella propria città come fu il caso di Tarquinio Prisco che, da Tarquinia, si recò a Roma e ne divenne Re.
Alalia
Al tipo di nave da guerra costruito dai cantieri etruschi per la battaglia di Alalia, si deve con buone probabilità la vittoria sui greci nelle acque della Sardegna intorno al 537 avanti Cristo. Questa battaglia navale è una delle prime della storia della marineria. Tucidide ne accenna soltanto, Erodoto ce ne informa con dovizia di particolari. Lo scontro avviene dunque al tempo delle guerre persiane e la sua genesi dimostra che già allora eventi politico-militari, pur accadendo in posti lontanissimi tra loro, erano interdipendenti. Il mar Tirreno viene così lasciato all’influenza etrusca, mentre tutta la restante parte del Mediterraneo occidentale resta ai cartaginesi. Delle grandi isole tirreniche, la Corsica è assegnata agli etruschi, mentre la Sardegna ai cartaginesi, che con il loro generale Malco conducono una spietata repressione contro le popolazioni ribelli. Nel frattempo la scoperta da parte degli etruschi di territori, precisamente a Monte Valerio e alle Cento Camerelle, con ricchi giacimenti minerari ad altissimo tenore di stagno puro (50% - 70%), con conseguente veloce commercializzazione del materiale, fa entrare rapidamente in crisi la vecchia rotta dello stagno, controllata e monopolizzata da elementi greci, che parte dalle lontane isole inglesi della Manica. La scoperta probabilmente è databile ad un periodo precedente la battaglia di Alalia, ed anzi, potrebbe essere uno dei fattori scatenanti del conflitto tra etruschi e focesi. La Corsica dopo Alalia cade definitivamente sotto il dominio degli etruschi, che continueranno, al pari dei predecessori, ad esigere come tributi cera, miele e soprattutto pece, elemento strategico di prim’ordine per i cantieri delle loro flotte. Frattanto i focesi, imbarcatisi sulle navi superstiti, si dirigono verso le coste dell’Italia meridionale, dove a sud di Paestum fondano una nuova città, Hyele (Velia). L’unico elemento stonato dell’intera vicenda, che macchia irreparabilmente una bella pagina di storia marinara, è la lapidazione a morte degli equipaggi focesi delle navi catturate. L’eccidio avviene sulla spiaggia di Agilla (Cere, poi Cerveteri), città che ha fornito la maggioranza degli equipaggi alle navi etrusche. Unica attenuante è che a perpetrare la strage è probabilmente la popolazione civile, forse incattivita da precedenti scorrerie piratesche dei focesi. Questa vittoria, fermo restando il contributo determinante dei cartaginesi, non deve far pensare che la talassocrazia etrusca fosse basata sull’esistenza di una comune grande flotta delle potenti città della Confederazione sacrale dell’Etruria, ma piuttosto sulla convergenza degli interessi, per lo più commerciali, delle città rivierasche di Cerveteri, Tarquinia, Vetulonia e Populonia, che uniscono momentaneamente le loro flotte ogni qualvolta se ne ravvisi la necessità. La vittoria sui focesi, segna il momento culminante del commercio marittimo etrusco.
La nuova e più breve rotta dello stagno, tracciata dalle navi etrusche, si distende dal Tirreno, con i suoi punti di forza nei porti di Populonia, Caere e Pyrgi, fino alle città della fenicia. Questa rotta diventa poi del ferro, minerale strategico di primaria importanza, allorché vengono scoperte le ricchissime miniere dell’isola di Elba, chiamata quindi Aethalia, cioè terra dei fuochi, per via dei rudimentali altiforni, che illuminano notte e giorno le coste. Insediati a cavallo dei due mari, Adriatico e Tirreno, essi dunque controllano e commerciano le materie strategiche del tempo, quali il ferro dell’Elba, il rame di Volterra e l’argento di Populonia. Le navi, che coniugano allo stesso tempo commercio e pirateria, portano ad accumuli rapidi e smisurati di ricchezza, che fanno vivere le popolazioni in un lusso insensato. Gli immensi boschi del territorio dei Volsci, che ricadono sotto l’influenza degli etruschi, assicurano ai cantieri navali di questi ultimi tutto il legname necessario per la costruzione di nuove e sempre più potenti navi. Un’iscrizione, ritrovata recentemente, conferma la perizia dei marinari etruschi di quel tempo. Si accenna ad una flotta di Tarquinia, che naviga alla volta della Sicilia, non secondo l’usuale tecnica della navigazione costiera, ma tagliando direttamente per il mare aperto, con ciò accorciando notevolmente la durata del viaggio. Questo modo di navigare implica una buona padronanza delle tecniche di lettura della volta celeste per l’orientamento sulla rotta da tenere. All‘apice della loro talassocrazia i porti etruschi sono degli empori commerciali cosmopoliti di prim’ordine. In un santuario di Gravisca, l’antico porto di Tarquinia, si sono ritrovati numerosi ex-voto di marinai; molti di essi sono greci provenienti da Efeso, Samo e Mileto. Ciò a conferma che tra greci ed etruschi non fu sempre e soltanto guerra e che i viaggi tra l’Etruria e l’Asia Minore sono, se non normale amministrazione, perlomeno frequenti. Tra gli ex-voto di ringraziamento agli dei si sono ritrovate delle ancore arcaiche formate da grossi blocchi di pietra. Su una di esse vi è un’iscrizione greca, che recita: « Sono di Apollo Egineta - Sostrato mi dedicò». Anche sull’altro mare, quello Adriatico, si svolge un intenso commercio, principalmente lungo la direttrice collegante le etrusche Spina e Adria alla greca Corcira. L’abilità marinaresca di queste genti avrebbe portato poi, secondo lo storico Mommsen, le loro navi a varcare le mitiche colonne d’Ercole e a scoprire nelle acque atlantiche le isole Canarie. La fondazione di un emporio su quelle isole felici viene contrastata ed impedite dai cartaginesi, che, rivendicando l’antico trattato di alleanza, ritengono quelle acque cadere nella loro sfera d’influenza. Il boom del commercio etrusco è dovuto all’utilizzo di un nuovo tipo di naviglio mercantile, che solca in quel tempo i mari. Pur rassomigliando notevolmente, per la forma dello scafo, a quello coevo greco, ha una notevole innovazione tecnica, presentando l’armamento veliero con due alberi. Questo significa che in analoghe condizioni di vento favorevole, la nave etrusca avrebbe distaccato di molto quella greca, cosa determinante nella spietata concorrenza marittima. Per tutto il V sec. a.C. si conferma e si rafforza l’alleanza etrusco-cartaginese, come testimonia il ritrovamento delle tre lamine d’oro con testo bilingue, in cui il re dell’etrusca Caere rende omaggio alla fenicia dea Astarte. Un po' più a nord di Pyrgi, il più noto dei tre porti di Caere, vi è poi un emporio prettamente fenicio perfino nel nome: Punicum, l’odierna San Marinella. L’influenza cartaginese si fa sentire anche sul modo con cui vengono decorate le prue delle navi, che quasi sempre richiamano una testa di animale, in particolare il cavallo, che non è altro poi che l’emblema di Cartagine; comunque non sono da escludere in questo caso reminiscenze dovute ad un primitivo modello di nave italico del tipo Novilaro e sardo. Verso sud, nel territorio dei Volsci meridionali, sicuro ancoraggio soltanto per gli etruschi, è il porto di Anzio, i cui abitanti sono famosi pirati, talmente feroci da alimentare per secoli la leggenda presso i marinai greci che quello fosse il lido dei Lestrigoni. Nell’Italia meridionale capisaldi della marineria etrusca sono il promontorio sorrentino con l’isola di Capri e il munito porto fluviale dell’etrusca Pompei alle foci del Sarno.
Alalia
La fonte principale, seppure scevra di contraddizioni sul dominio degli etruschi sulla Corsica, è rappresentata da Diodoro Siculo: «Si trovano [nell'isola di Kyrnos (Corsica)] due città degne di menzione, chiamate una Kalaris (erroneo per Alalia) e l'altra Nikaia. Kalaris è stata fondata dai focei che l'occuparono come coloni durante un certo tempo, ma successivamente furono cacciati dall'isola dagli etruschi. Quanto a Nikaia furono gli etruschi a fondarla all'epoca della loro talassocrazia quando conquistarono le isole del tirreno. Per qualche tempo gli etruschi mantennero il loro dominio sulle città di Kyrnos, ottenendo dagli indigeni il tributo di resina, cera e miele che l'Isola produce in abbondanza». Diodoro deriva le proprie informazioni sulla battaglia di Alalia (che pure non menziona) da fonti differenti da quelle erodotee, evidenziando esclusivamente gli effetti vantaggiosi per gli etruschi dello scontro navale: i focei cacciati dall'isola furono sostituiti dai Tirseni. La fondazione della nuova città di Nikaia, etrusca ma dal nome ellenico di "vittoria" è appunto postuma alla battaglia di Alalia nella tradizione storiografica etrusca e deve con ogni probabilità essere intesa come rifondazione della città di Alalia stessa, cui peraltro Diodoro alluderebbe anche con il riferimento all'antico nome di Karalis-Alalia. Infine l'assoggettamento degli indigeni Corsi al pagamento di un tributo dovette essere attuato dagli etruschi mediante una vera e propria spedizione militare. E' problematica la definizione politico-amministrativa della dominazione etrusca della Corsica: infatti ignoriamo da un lato se la partecipazione etrusca alla battaglia di Alalia fosse stata deliberata dalla federazione della dodecapoli etrusca, seppure con una preminenza di Caere, dall'altro se la conseguente acquisizione della Corsica nella sfera etrusca fosse stata guadagnata da un ulteriore intervento "federale" degli etruschi. Un forte sostegno a questa seconda ipotesi deriva dalla problematica integrazione Ale[riae] nell'elogium tarquiniese di Velthur Spurinna; il testo, redatto nella prima metà del I sec. d.C., sulla base degli archivi gentilizi degli Spurinna, insieme agli elogia di altri due membri della gens, costituiva l'iscrizione parenetica apposta alla base delle statue dei tre Spurinna in un'area pubblica di Tarquinia. Il testo dice così: V[elth]ur Spur[inna] / [L]artis f(ilius), pr(aetor) (bis); [in]magistatù Ale[riae]/excer[i]tum habuit, alte[rum in] Siciliam duxit; òprimus o[mnium]/etruscorum mare cu[m legione]/traiecit. A qu[o Apollo cortina]/ aurea ob vi[ctoriam donatus est]. Velthur Spurinna in qualità di praetor Etruriae avrebbe comandato un esercito dapprima ad Aleria, quindi in Sicilia (forse contro i Liparei). Per questo successo il comandante avrebbe donato un tripode aureo ad Apollo. La cronologia proposta per queste imprese (fine VI - inizi del V secolo a.C.) lascia aperto il problema di Alalia nei decenni intercorrenti tra l'abbandono della città da parte dei focei e la "rifondazione" etrusca che non risale ad oltre il 510-500 a.C. In attesa dell’edizione degli scavi francesi che hanno interessato i livelli originari del centro urbano etrusco, sono ammissibili due ipotesi: da un lato la soluzione di continuità dell'insediamento urbano di Alalia tra il 540 e il 510/550 a.C., dall'altro, come appare alquanto più probabile, la prosecuzione della città seppure decurtata della parte più dinamica della sua popolazione. Quest'ultima ipotesi avrebbe il vantaggio di giustificare la necessità del traictus maris dell'esercito guidato da Velthur Spurinna probabilmente contro i Corsi e la città di Aleria. La città di Alalia è l'unica città etrusca della Corsica sufficientemente conosciuta. Un elemento fondamentale a sostegno della fase etrusca di Alalia è costituito dalle iscrizioni etrusche graffite su vasi della necropoli classica ed ellenistica, dalla metà del V secolo alla presa romana della città. La "rifondazione" della città avvenne nella medesima area della città focea, un pianoro tabulare, delimitato sui lati da scarpate, che rispondeva bene alle tipologie insediative etrusche. Un bastione difensivo, caratterizzato da paramenti sia in grossi ciottoli fluviali sia in mattoni di fango, risalente al principio del V sec. a.C., è stato messo in luce presso l'anfiteatro romano, mentre sulle vie della necropoli si allineano lungo assi perpendicolari i dròmoi delle tombe a camera, scavate nella compatta argilla pliocenica. Dal principio del IV secolo le sepolture vengono contrassegnate con cippi a colonnetta, caratteristici delle necropoli di Cerveteri e Tarquinia. I corredi funerari documentano ad un tempo i gruppi sociali della città e le correnti commerciali interessanti Alalia tra il 500 a.C. e il III secolo a.C. In particolare emerge un gruppo di tombe che accoglie i capi militari etruschi, che nel corso del V secolo furono chiamati a riaffermare il dominio sulla Corsica contestato dai Siracusani. Questi capi sono contrassegnati da armature miste, connesse talvolta alle prede belliche in vari teatri centro italici, iberici e celtici. A queste insegne si accompagna generalmente il "servizio da simposio" composto dal cratere e dalle kylikes, funzionali queste ultime ai numerosi partecipanti al rito funerario.
Alalia
Lo strumento d'offesa navale più famoso dell'antichità era il naturale prolungamento della chiglia ed era assolutamente solidale ed un tutt'uno con questa trave portante. Il tipo più antico, originario del Vicino Oriente ed entrato in uso anche nella marineria greca, era di forma conica allungata ed era appuntito e fasciato con lamine di bronzo per aumentarne la consistenza e la capacità di penetrazione. Un ulteriore tipo, entrato poi largamente in uso nella marineria romana, era tradizionalmente nato nei cantieri etruschi e si presentava con una massa bronzea fornita di tre cuspidi allineate verticalmente.
Il rostro di tipo orientale, adottato in genere fino al IV secolo a.C., penetrava facilmente nella carena avversaria, ma era maggiormente soggetto ai danneggiamenti, come suggerito anche dalla sorte delle navi focee ad Alalia. Quello di origine etrusca invece, utilizzato soprattutto nel Mediterraneo occidentale e, dall'età ellenistica, in tutto il bacino, doveva sfondare la carena senza penetrare all'interno, ma poiché una delle cuspide era situata sotto la linea di galleggiamento l'urto apriva senza dubbio una falla nel fasciame della nave avversaria, che però non danneggiava in maniera decisiva la nave avversaria lasciando aperta la possibilità di potersi impadronire della nave avversaria attraverso operazioni di arrembaggio.
Oltre al rostro, chiamato embolon, la prua era costituita da un trave ligneo curvilineo, l'acrostolion, che s'innalzava dalla chiglia e terminava con una decorazione, che nel caso delle navi fenicie era costituita da una figura di divinità o da una testa di cavallo oppure da una semplice girale. Parallelo al rostro e sotto l'acrostolion aggettava a proravia un trave denominato proembolon poiché impediva al rostro, cioè all'embolon, di penetrare troppo all'interno della nave speronata, rischiando di danneggiarlo e di compromettere anche l'integrità della propria nave.
Alalia
Tutte le armi adottate nel villanoviano continuarono ad essere usate dai guerrieri etruschi; la consolidata abilità degli artigiani etruschi nella lavorazione dei metalli portò ad una sempre maggiore perfezione nella realizzazione di armamenti che si arricchirono notevolmente nelle forme. Uno dei cambiamenti più spiccati nella produzione delle armi fu l’introduzione del ferro che talvolta soppiantò del tutto l’uso del bronzo; per l’acquisizione di nuove tecniche e modelli fu invece fondamentale l’influenza subita dalle popolazioni orientali, che portò spesso all’adozione di forme originali, del tutto nuove poi rielaborate in ambiente etrusco.
Le caratteristiche armi etrusche erano le classiche: asce, spade, lance
Ascia
L’antichissima ascia, ancora frequentemente usata, era costruita sia ad una lama che a due, questo tipo, la cosiddetta bipenne, caratterizzava l’armamento dei capi, quale simbolo di forza e di potenza; usata da vari reparti dell’esercito, sia cavalieri che fanti, era del tutto simile ai modelli villanoviani, dotata delle stesse tipologie di immanicatura con cannone di metallo, spesso arricchite da motivi decorativi.
Spada
La spada etrusca, nonostante vantasse una lunga tradizione d’uso in ambiente italico, fu l’arma che maggiormente subì l’influsso dei tipi greci: a partire dall’età arcaica si diffuse l’uso della spada corta in ferro dalla lama dritta, sulla scia di quella utilizzata dagli opliti greci; tipicamente orientale, ma ben presto ampiamente presente nell’esercito etrusco, fu la cosiddetta kopis, sul modello della nota machaira di origine greca; si trattava di una sorta di sciabola dalla lama ricurva sottile ed affilata tale da infierire ferite profonde.
Lancia
Immancabile nell’armamento del guerriero etrusco era la lancia, identica a quella già usata nel villanoviano, ma più pesante per meglio resistere agli urti con gli scudi divenuti più robusti, alle sollecitazioni e ai colpi di spada; le punte di queste armi mantennero l’originaria forma “a foglia”, ma essendo ormai realizzate in ferro e con tecniche costruttive evolute, erano prive della nervatura centrale come rinforzo. Diffusa era poi l’asta leggera, ovvero il giavellotto. Meglio documentato rispetto all’epoca villanoviana è l’uso delle armi da tiro, in particolare delle frecce: esemplari eccezionalmente in ottimo stato di conservazione, sia in bronzo che in ferro, sono stati rinvenuti ad esempio a Populonia, dal Tumulo dei Carri provengono ad esempio le punte in ferro risalenti al periodo orientalizzante, dalla forma conica o ad alette, tipiche dell’epoca.
Una notevole varietà caratterizzò l’armamento difensivo dei guerrieri etruschi, composto da elmi, scudi, corazze e schinieri, poiché ai modelli realizzati dagli artigiani etruschi se ne aggiunsero nuovi importati in particolare dall’oriente.
Elmi
Per quel che riguarda gli elmi, sono i cospicui ritrovamenti di esemplari pressoché intatti ad informarci sulle varie tipologie in uso tra i guerrieri; nonostante la diversità delle forme, comuni erano le tecniche di realizzazione: gli elmi erano in bronzo, costruiti in un unico pezzo o in più parti poi congiunte, tutti dovevano avere imbottiture interne di cuoio o tela ed erano fissati al capo tramite un soggolo di cuoio.
Il tipo più diffuso era il cosiddetto elmo di Negau, dal nome del villaggio nei pressi di Zenjak in Slovenia, in cui ne sono stati scoperti in gran numero, ampiamente diffuso anche nell’Italia settentrionale come nell’area alpina e slovena; aveva la forma di morione con predisposto un supporto per fissare il piumaggio e talvolta una cresta di crini, probabili simboli dell’alto rango detenuto dal guerriero. Meno elaborato e diffuso nella sola Etruria era il cosiddetto tipo “a campana”, una semplice calotta con il bordo inferiore sporgente tale da suggerire la forma di una campana; semplice da fabbricare, poco costoso ed in genere privo di elementi decorativi, probabilmente apparteneva alle ultime classi dell’esercito. Importato dalla Grecia fu invece l’elmo di tipo corinzio, utilizzato nell’esercito etrusco dagli opliti poiché segno distintivo di autorità militare; rispetto ai tipi già in uso tra gli etruschi, garantiva la totale protezione del capo, essendo dotato di paranaso, paraguance e paranuca, lasciando scoperti i soli occhi del guerriero; dall’originario modello greco furono poi realizzate dagli artigiani etruschi delle varianti, come l’elmo di tipo italo – corinzio, con maggiore accentuazione delle protezioni del viso, al punto da ridurre sensibilmente le cavità per gli occhi e per la bocca.
L’elmo corinzio non fu l’unico proveniente dal mondo greco: dal IV secolo ad esempio si cominciò a diffondere l’elmo calcidese, caratterizzato da aperture laterali per le orecchie e dai paraguance mobili, sulla scia di questo modello, con un ulteriore semplificazione delle forme. In questa grande varietà di forme, uno degli elmi più in uso nell’esercito etrusco fu il cosiddetto montefortino, introdotto dal IV secolo in seguito alle invasioni dei galli, diffuso non solo in Etruria ma su tutto il suolo italico: aveva forma a calotta, dotato di un apice ornamentale nella parte superiore, con paranuca lievemente sporgente e paraguance mobili spesso decorate a rilievo.
Corazza Indispensabile per la difesa del corpo era la corazza: a partire dal V secolo si realizzarono i primi modelli interamente in bronzo ed anatomiche, in quanto riproducevano a sbalzo la muscolatura del torace; erano fabbricate in un unico pezzo o in due parti poi unite da lacci di cuoio fissati a ganci, probabilmente prerogativa di capi militari e della cavalleria pesante; a fianco di queste, destinate alla fanteria oplitica, erano invece le corazze in tela di lino rinforzate e guarnite con borchie o squame metalliche. Le restanti classi dell’esercito erano poi equipaggiate con pettorali metallici a forma di disco, talvolta presente anche sul dorso, fissata al corpo da cinghie di cuoio. A protezione delle parti inferiori venivano usati gli schinieri, ma solo dalle prime classi; spesso, come le corazze, avevano forma anatomica riparando la gamba dalla caviglia al ginocchio.
Scudo L’armamento di ogni guerriero era infine completato dallo scudo, diverso tra le varie classi militari: fin dall’epoca arcaica, gli opliti e i cavalieri della prima classe combattevano protetti da scudi circolari in lamina di bronzo, i cosiddetti scudi argivi; avevano dimensioni notevoli così da riparare il corpo per intero, ed erano pesanti e robusti in modo da resistere all’impatto con le armi nemiche, a cui erano sottoposti in particolare gli opliti combattendo in prima linea. Come apprendiamo dalle numerose rappresentazioni giunte fino a noi, gli scudi argivi dovevano essere decorati esternamente, in genere con motivi geometrici o mitologici, dal valore puramente ornamentale o utilizzati come elemento di riconoscimento di un particolare reparto all’interno dell’esercito; talvolta il soggetto rappresentato sullo scudo rappresentava il simbolo della città a cui il guerriero apparteneva.
Alalia